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«Ciao cara! Come sta andando?»
La voce di Ruby è allegra e squillante.
Ma la domanda è esplosiva.
Mi sono appropriata della tua identità. Non ti dispiace, vero?
«Alla grande» dico. «Tutto secondo tabella di marcia. L’attività è quasi pronta a partire.»
«Oh, bene. Ero preoccupata perché mi hanno detto che avevi chiamato un paio di settimane fa... qualcosa a proposito del tetto?»
«Ho fatto sistemare tutto» mi affretto a spiegare. Accidenti, perché l’ho chiamata e me ne sono poi dimenticata?
«Ah, meno male. Comunque, ho appena chiuso con i miei genitori, il nostro commercialista passerà da te questa settimana per dare uno sguardo alle fatture che stai archiviando e controllare il negozio.»
Sento il cuore fermarsi nel petto e poi ripartire a velocità doppia.
«Cosa?»
«Non che non mi fidi di te» spiega tutto d’un fiato. «Sono abituata alla gente, Charlotte, e mi sono accorta subito che eri una brava persona. Mi fido in tutto e per tutto.» La voce è venata di sincerità e sarei incline a pensare sia dolce da parte sua, ma le parole sono così... stupide.
«È che i miei genitori... insomma, gli ho detto che avevo lasciato te a occuparti di tutto e loro hanno iniziato a darmi addosso per essere stata tanto folle da affidare il mio negozio a una perfetta sconosciuta.» Sembra davvero turbata. «Non si fidano mai del mio giudizio.»
«Va bene così, Ruby, capisco.»
Ma dentro sto dando di matto. Uno di questi giorni, in settimana, passa di qui un tizio che sa che non sono Ruby. Tutti gli abitanti pensano che io sia lei, la simpatica sensitiva che li sta aiutando a catturare il bandito di Castle Cove. Il negozio è aperto. Riceviamo clienti che non dovremmo ricevere. Insomma, questo tipo arriverà e mi denuncerà per la truffatrice che sono.
Siamo fregate.
«Come vanno le cose con il Dalai Lama?» Devo necessariamente cambiare argomento e farla chiacchierare un po’ mentre la mia mente va a mille.
Lei prende a divagare su come sarà del tutto irraggiungibile fino alla partenza, ma sono talmente fuori di me che non sento molto del resto di quel che dice.
Come faccio?
Il mio cervello è tutto un rumore bianco, e ripete sempre la stessa cosa. Vattene. Fallo finché sei in tempo, o sarà troppo tardi.
«Quando hai detto che passa a controllare il negozio questo tipo?» chiedo in tono allegro quando sta per riattaccare.
«Non lo so, uno dei prossimi giorni. Si chiama Jackson Murphy. È in gamba, ti piacerà.» Come no, al pari di un ago tra le dita. «Benissimo. Lo aspetto. Intanto tu divertiti e sta tranquilla.»
«Come sempre. So che andrà tutto bene. A presto, Charlotte!» Mette giù e mi lascia attaccata alla cornetta come a un’ancora di salvezza. Se mollo la presa, svanirà.
~*~
Della telefonata di Ruby a Paige non racconto nulla fino al giorno dopo, quando rientra da scuola e io ho avuto modo di rimuginare il problema ed escogitare un piano.
«Allora, l’idea è questa» dico dopo che mi ha ravvivata con del caffè e alcuni brownie avanzati dall’inaugurazione. «Racconteremo a questo tipo che Ruby ci aveva autorizzate ad aprire il negozio» dico, camminando avanti e indietro nel soggiorno.
È una delle preoccupazioni maggiori per me. L’attività non dovrebbe essere già partita.
«E se sapesse che non è vero?» chiede Paige.
«Anche se Ruby gli parlasse oggi, come ha fatto con me, non sarà più raggiungibile fino alla partenza. Il che, per quanto ne sa, significa che avrebbe potuto chiamarmi dopo aver parlato con lui, acconsentendo a lasciarmi aprire il negozio visto che la merce è già arrivata tutta e non c’è ragione per ritardare. Non stiamo usando quel denaro, perciò anche se controllasse, le ricevute quadrerebbero.»
«Bene, e il resto della cittadina?»
«Cosa intendi?»
«Se qualcuno arrivasse per un consulto, o degli acquisti, mentre il tipo è qui...» Fa una smorfia.
«Diremo a tutti che il negozio è temporaneamente chiuso.» Mi giro e misuro la stanza coi passi nell’altra direzione. Dobbiamo pensare a una ragione valida. «Siamo ammalate.» Schiocco le dita. «O anche solo una di noi. Influenza. Una di quelle antipatiche che tengono tutti alla larga per giorni. La vittima sarò io; tu devi andare a scuola e così avrai anche modo di diffondere la voce.»
«Ma quando viene, esattamente?»
Avvilita, mi lascio cadere accanto a lei sul divano. «Non lo sapeva neanche lei. In settimana.»
Paige annuisce. «Allora, inizierò a dirlo in giro già domani.» Mi dà una pacca sulla schiena. «Non ti preoccupare. Ne abbiamo passate di peggio» aggiunge, chinando la testa sulla mia spalla.
E non dice bugie.
Per i due giorni che seguono non l’accompagno a scuola e trascorro il tempo a sbirciare dalla finestra a ogni minimo suono, chiedendomi quando si verificherà l’inevitabile. Tabby chiama e vuole cenare da noi, ma sono costretta a dirle “dell’influenza”. Pensa me la sia beccata stringendo mani a tutti gli anziani durante l’inaugurazione. Le chiedo di riferirlo a Troy, in modo che sappiano che per un paio di giorni non sarò in grado di aiutarli con le indagini.
Mi chiedo brevemente se non faremmo meglio a lasciare Castle Cove... dall’inaugurazione abbiamo guadagnato soldi a sufficienza per viverci un paio di settimane, ma non abbastanza da trasferirci altrove e pagare l’affitto.
La mia speranza è che questo Jackson Murphy si fermi per qualche ora e poi mi lasci in pace, così non dovrò più pensare a lui.
Passa un altro giorno e, ancora una volta, del commercialista neanche l’ombra. L’attesa mi sta ammazzando.
Finalmente, il terzo giorno – proprio quando inizio a sentirmi come Tom Hanks in Cast Away, con l’unica differenza che Wilson non è un pallone, bensì un gatto di nome Graffio che continua a sibilarmi contro senza tregua e non mi lascia entrare in soggiorno – una berlina nera parcheggia sul vialetto di accesso.
Paige è a scuola. Non dovrebbe rientrare prima di un paio d’ore. Grazie al cielo il tipo non si è presentato quando c’era lei. Una preoccupazione in meno.
Saluto il signor Murphy e lo faccio entrare in casa.
È più giovane di quanto pensassi. Nei miei sogni a occhi aperti, più che altro incubi, lo immaginavo anziano, un po’ spennacchiato e/o canuto, con il ventre sporgente e un abito elegante.
Jackson Murphy indossa l’abito elegante, ma ha i capelli scuri e non più di trentacinque anni, una mascella ben salda e occhi azzurri. A dire il vero è piuttosto attraente, un pensiero potenzialmente importuno se non fossi tanto preoccupata dalla possibilità che il tipo mi rovini la vita. Gli occhi sono belli, sì, ma anche taglienti e ponderatori, il che non mi piace neanche un po’.
Dopo una breve presentazione, vado subito al dunque.
«Quando ho parlato con Ruby, qualche giorno fa, abbiamo deciso di aprire il negozio, visto che quasi tutta la merce che aveva acquistato è stata consegnata.»
Il fatto che mi fissi senza parlare né sorridere mi rende nervosa.
Mi schiarisco la voce. «Comunque, tengo tutto qui.» Gli faccio strada verso la cassa. «Questo è il registro, con le ricevute e le fatture che non ho ancora inserito nel computer.» Ho tutta la documentazione già pronta alla cassa. L’ho preparata in anticipo così che possa controllarla e, spero, togliersi dalle scatole prima che arrivi qualcun altro a parlargli o io perda il lume della ragione, quale che sia la prima delle due.
«Posso usare il bagno?» chiede senza il minimo sguardo alle carte che reggo in mano.
Il mio intero essere si accascia.
«È in fondo al corridoio.»
Gli indico la direzione e mi metto a passeggiare avanti e indietro per la stanza sul davanti, in attesa che torni. Uno scricchiolio, un movimento nella casa sono sufficienti a scuotermi i nervi già logori.
Finalmente ricompare, con la cravatta leggermente allentata.
«Questa è la documentazione» dico ancora una volta, mettendogli le carte quasi sotto il naso.
«Bene. Grazie.» Le prende, ma invece di leggerle, chiede: «C’è un posto dove posso mettermi a controllarle?»
«Certo, certo, va bene in cucina?»
Potrei portarlo nell’ufficio al piano di sopra, ma non voglio che si metta troppo comodo, né voglio che veda le riprese in diretta di varie zone di Castle Cove.
«Perfetto.»
Mi segue e siede al piccolo tavolo da pranzo.
Lo lascio ai numeri e torno a misurare a larghi passi la stanza di fronte, con una serie di domande che mi sfrecciano nella mente come palline da ping-pong. E se chiede di fermarsi per la notte? No, impossibile. E se vuole tornare anche domani? E se ho combinato qualche casino e dice che non sono brava e ci sbatte fuori? E se...
«Ha indicato danni ad alcuni dei prodotti. Cosa è accaduto?»
La sua voce interrompe il flusso dei pensieri e mi fa trasalire, faccio una smorfia. «Il mio gatto» dico. «Ma ne ho già ordinati di nuovi. La fattura dovrebbe essere lì e i prodotti arriveranno tra un paio di settimane. Ho saldato di tasca mia. Dovrebbe esserci un accredito.»
«Ruby sa del gatto? Non mi sembra il contratto di locazione preveda la presenza di animali.»
«Uhm. No. Quando mi sono trasferita non lo avevo ancora preso, ma c’erano questi bambini...»
Del tutto indifferente alla mia spiegazione, mi interrompe e continua a fare domande.
«Ho trovato degli appunti relativi a una perdita nel tetto...»
«Oh, sì. L’ho fatta riparare.»
«Ha una fattura?»
«No, una mia amica... uhm, la proprietaria del ferramenta locale è venuta a riparare il danno. L’ho ripagata lavorando per lei. Ma ha detto che il tetto andrebbe sostituito prima dell’inverno.»
Lui si rabbuia, tra le sopracciglia si forma una piega. «Mm-hmm» dice, inserendo appunti nel telefono.
Mm-hmm? Che vuol dire?
«E il letto? L’ha fatto sostituire?»
«Non ancora.»
«Ci sono stati altri danni?»
Faccio cenno di no con la testa.
I suoi occhi scorrono il foglio, quindi incontrano i miei. «Farò consegnare un materasso nuovo. Probabilmente, Ruby vorrà qualcosa che duri e sia ecocompatibile.»
«Oh. D’accordo.»
Il battito del cuore decelera un po’ e le mani smettono di sudare. Non vuole buttarmi fuori a calci. E sembra che abbia finito. Sapevo che non ci avrebbe messo molto, non c’è chissà quanta roba da controllare. Forse andrà via e basta.
«Tutto il resto sembra in ordine» dice. «Tenga il gatto fuori dal negozio e non avrà problemi.» Sorride.
Un’ondata di sollievo mi sommerge. «Splendido.»
Chiude la ventiquattrore con uno scatto. «E allora tolgo il disturbo.» Mi porge un biglietto da visita. «I miei numeri sono tutti qui. Non si faccia scrupoli a chiamarmi per qualsiasi cosa che non sia una piccola riparazione.»
«Lo farò» dico io, leggermente stordita mentre lo accompagno nell’ingresso.
Non siamo che a metà strada, quando un sonoro colpo alla porta mi fa gelare.
Il cuore, che aveva appena iniziato a calmarsi, riprende a battere frenetico. Chi è? Non ci posso credere, non adesso, non quando Jackson sta per andarsene.
«Tutto bene?»
Oh cacchio, è ancora alle mie spalle.
«Ehm, benissimo! Io... vado a vedere chi è.»
Vorrei che non mi seguisse, ma cos’altro dovrebbe fare? Sta cercando di andarsene. Non posso certo chiedergli di nascondersi.
Questo potrebbe essere il momento in cui tutto mi crolla addosso e affogo in un mare di vergogna.
Incrocio le dita, pregando che si tratti di un’altra consegna, e apro la porta.
Jared.