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CAPITOLO VENTIDUE

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Arrivati a casa, mi accompagna fino alla porta.

«Non occorre che entri» dico, ancora un tantino stizzita con lui per la bontà da cavaliere senza macchia. Al suo confronto, il mio passato torbido e burrascoso pesa come un gigantesco macigno. E poi, non ho bisogno di una... una cosa a senso unico. Ma perché lo voglio adesso e subito, questo poliziotto? È una decisione terribile. Se non va via immediatamente finirò col dire o fare qualcosa di stupido.

«Voglio assicurarmi che sia tutto a posto.»

Apro ed entro con passo pesante.

«Tutto bene?» Mi segue all’interno, chiudendosi la porta alle spalle.

«Sì.» In cucina spalanco il frigo e passo in rassegna il contenuto, in cerca di qualcosa che mi faccia sentire meglio, ma non vedo alcolici. Solo limonata. Dovrò accontentarmi. Tiro fuori la brocca e la poso sul ripiano.

«Da come ti comporti non si direbbe. Perché non mi dici cos’è che non va?»

Ignorandolo, apro il pensile con i bicchieri alti, ma sono tutti sullo scaffale superiore. Mi sforzo di arrivarci, pur sapendo che è inutile e lo sgabello è sul lato opposto, accanto a Jared che mi fissa con quei suoi occhi scuri.

Non mi arrendo né mi giro e continuo a sollevarmi sulle punte dei piedi allungando il braccio verso il bicchiere.

Lui si avvicina fermandosi alle mie spalle, prende il bicchiere dallo scaffale e lo posa davanti a me sul ripiano della cucina.

Le sue mani scendono ai lati del mio corpo.

«Ruby» dice a voce bassa.

Piantala di chiamarmi Ruby. Non è quello il mio nome! penso, ancor più incavolata.

Faccio per guardarlo in viso ed è così vicino che nel girarmi gli sfioro il petto con il braccio.

Non si scosta.

«So perché sei arrabbiata.»

«Ah sì?!»

«A me puoi dirlo.»

Uh, non credo.

Lo fisso negli occhi. Qualunque cosa pensi di sapere, si sbaglia. Se conoscesse la verità, non mi guarderebbe così, come se potesse salvarmi allo stesso modo in cui salva i residenti del posto. Dovrebbe arrestarmi.

Scuoto la testa. «Sarebbe meglio se te ne andassi.»

«Puoi fidarti di me.»

«Infatti, mi fido.» La bugia vien fuori senza ritegno. Mi fido davvero di qualcuno?

Lui scuote la testa in segno di frustrazione, i suoi occhi due lame sottili. «Allora dimmi la verità.»

Il cuore fa un rumore sordo nel petto. «Che vuoi dire?»

Sa qualcosa? Non è possibile.

Parlare non parla, si limita a un’occhiata enigmatica. Lo conosco, questo stratagemma. La gente non sopporta il silenzio e se riesci a innervosirla abbastanza, inizierà a parlare. Ma io non ci casco.

«Non sai un bel niente» dico, sperando che sia così. «Dovresti andartene.» Gli passo sotto il braccio e mi allontano verso il corridoio.

«Ruby» chiama lui.

«Rappresenterai anche la legge, ma non sei il mio capo.»

Gesù mio, sembro una mocciosa.

Entro nel locale lavanderia in cerca di qualcosa da fare, qualunque cosa per tenermi lontana da lui e che lo induca ad andarsene.

Ma non molla. Mi trova intenta a trasferire il bucato dalla lavatrice all’asciugatrice.

Si appoggia alla mostra della porta e resta lì a fissare i miei movimenti rabbiosi.

Una volta finito, sbatto lo sportello della lavatrice e avvio l’asciugatrice. Il ronzio riempie la stanza e lui è di nuovo nel mio spazio.

«Da cosa scappi?»

Sento lo stomaco scivolare sotto i piedi e ancora una volta mi chiedo cosa sappia, o pensi di sapere, e quanto vicino sia alla verità! Ma a ripensarci, forse si riferisce al fatto che scappo da lui.

Potrei tranquillamente superarlo e uscire dagli stretti confini della stanza piccola e calda. È a meno di mezzo metro da me, ma c’è spazio a sufficienza per passare, e so che non me lo impedirebbe.

Invece, faccio qualcosa che non ho mai fatto prima. Lo tocco.

Gli poso la mano sulla guancia e con il palmo sfioro l’accenno di barba ispida sulla mascella.

Lui chiude gli occhi, il respiro improvvisamente più profondo. Senza preavviso, mi attira a sé con forza e mi bacia.

Non un delicato incontro di labbra, bensì un violento scontro di bocche, come se mi desiderasse con un’intensità che lo rende furioso.

Beh, caro il mio stronzo, la cosa è reciproca.

Rispondo con la stessa avidità, tirandogli i capelli e mordendogli le labbra. È incredibile quanto lo trovi frustrante. E buono. Gentile. La sua bontà è allettante quanto un portafogli, voglio rubarla, nasconderla, ammucchiarla, come se attraverso il bacio quell’innata integrità potesse radicarsi in me.

Mi solleva sulla lavatrice, con le dita che affondano nei fianchi e la bocca che mi divora.

Intreccio le caviglie intorno alla sua vita, attirandolo ancor più vicino. Il sottile vestito di Ruby non costituisce alcuna barriera tra i nostri corpi e la pressione del suo membro mi manda in estasi.

Prende a baciarmi il collo, ansimante mi aggrappo ai suoi capelli, pronta ad attirarlo nuovamente verso la bocca, ma in quell’istante arriva un suono. Forte, intermittente.

Lui si ritrae, con la mano sui pantaloni pronta a estrarre il... telefono.

Preme un tasto e lo zittisce. Inspira a fondo un paio di volte, poi si porta l’incriminato oggetto all’orecchio.

«Reeves» dice, con voce profonda e un po’ roca.

I suoi occhi incontrano i miei. Ha le labbra gonfie e i capelli arruffati.

Non riesco a guardarlo. Mi eccita troppo. Abbasso la fronte sul suo petto e chiudo gli occhi, ansimante.

La mano libera mi stringe la spalla.

«Ehi, Ben.»

Apro gli occhi. Sul pavimento del mio locale lavanderia c’è un paio di scarpe da ginnastica sporche di terra. Sono troppo piccole per essere mie, o persino di Paige. Sotto il fango ormai incrostato sono rosse. Le ho già viste da qualche parte.

Così distratta da Jared non le avevo ancora notate. Deve averle lasciate qui l’altro giorno uno dei due fratellini.

«Sai come diventa quando perde al gioco, di qualsiasi natura. Le passerà.»

Faccio una risatina. Dopo essere stata buttata fuori dal centro anziani, Tabby dev’essere andata ad annegare i dispiaceri da Ben.

«D’accordo, passo a prenderla io. Fammi sapere appena raggiunge il limite dell’insopportabilità.»

Dovrei essere preoccupata per lei. Magari andare io stessa a recuperarla, ma quelle scarpe sul pavimento...

Mentre Jared continua a parlare con Ben, lo spingo leggermente da parte e scivolo giù dalla lavatrice, piegandomi a esaminarle. Le stringhe sono infilate all’interno, ma una ha un pezzo mancante.

E all’improvviso tutto si fa chiaro.

I bambini. Il padre non è un semplice squattrinato. Sono costretti a rubare per vivere. Se la passano tanto male?

Chiudo gli occhi con un sospiro.

Intanto, Jared finisce con Ben e mi giro a guardarlo, lasciando la scarpa sul pavimento.

Non c’è tempo per atti spettacolari o un consulto fasullo. «Greg e Gary» dico. «Dietro i furti ci sono loro. Sai niente del padre? Io non l’ho mai visto.»

«Eh, cosa?» Mi guarda sorpreso, confuso dall’improvviso cambio di argomento. «Greg e Gary?»

«Sì. Sono loro. Quelli che rubano oggetti e aggrediscono la gente.»

«Come fai a...» Scuote la testa, corrugando la fronte. «Da dove arriva quest’informazione?»

«Lo so e basta, va bene? Così come sapevo dei dolcetti, ma questa volta ho pienamente ragione. Devi credermi.» Gli prendo le mani nelle mie e lo fisso negli occhi, esortandolo a darmi retta. «Dobbiamo trovarli. Sai niente del padre?»

E se si fossero cacciati in qualche situazione davvero pericolosa? I furti si sono fatti sempre più rischiosi. Sono fin troppo piccoli per andare in giro a spaccare vetrine e rubare. Se si infilassero nella casa sbagliata, potrebbe accadergli qualcosa di serio. Molto peggio che essere separati o finire in affidamento.

«Non so niente dei genitori» dice infine Jared.

Dubito mi creda del tutto, ma mi dà una stretta alle mani ed estrae il telefono.

Lo seguo nella stanza sul davanti della casa. Parla, andando avanti e indietro. «Due bambini. Greg e Gary. Sai il cognome?»

Impiego un minuto buono ad accorgermi che lo ha chiesto a me e non alla persona dall’altro capo della linea.

Ci penso un po’ su. Me lo hanno mai detto? Quel giorno della passeggiata in cui ho comprato Graffio...

«Sullivan.»

Lo riferisce al suo interlocutore e continua a misurare la stanza con i passi. Sembra che l’altro sappia qualcosa sulla famiglia.

«Sì, l’ho incrociato, ma non lo vedo da un po’. Pensavo se la fosse svignata. Non sapevo avesse figli» gli dice. Segue un momento di silenzio, quindi: «Quando è stato licenziato? Niente dalla scuola?»

Un minuto dopo riattacca.

«Hai ragione» dice. «A quanto pare, il padre lavorava per una fabbrica fuori città. È stato licenziato più di un mese fa e se l’è battuta.»

«Lasciandosi dietro i bambini?»

Non risponde. Con le labbra strette in una linea sottile, si gira e corre quasi verso la porta d’ingresso, con me alle calcagna.

Sul punto di uscire, si gira a guardarmi. «Tu resta qui.»

«Col cavolo!»

«Devo andare all’ultimo indirizzo conosciuto. Potrebbero verificarsi scene poco belle.»

«Me ne infischio.»

Non ho tempo di prendere la borsa o qualunque altra cosa, riesco giusto a chiudere a chiave la porta e corrergli dietro fino all’auto.

Accorgendosi della mia presenza sbuffa, lievemente frustrato, ma apre comunque la portiera del passeggero. «Durante il tragitto voglio risposte sui bambini.»

Quel tono autoritario non mi piace affatto, ma al tempo stesso voglio essere presente in caso accada qualcosa, perciò non discuto. «Bene.»

Chiude la mia portiera e corre alla sua.

«Quand’è stata l’ultima volta che li hai visti?» chiede, spingendo sull’acceleratore ma restando poco al di sotto del limite.

«Sono venuti da me lunedì. Dovevano fare dei lavoretti con il signor Bingel e si sono fermati a salutare Graffio e a darsi una ripulita perché erano tutti inzaccherati. Hanno usato il locale lavanderia.» Scuoto la testa.

«Le bottiglie rotte hanno più senso, adesso» dice Jared.

«Il padre beve?»

«Così mi hanno detto. Io l’ho visto giusto qualche volta da Ben. Ma non avevo intuito fosse il padre dei bambini.» La sua voce è colma di autorecriminazione e rimorso.

«Non è colpa tua. Non puoi tenere d’occhio ogni singolo residente di questa cittadina in ogni istante della giornata. Sei un semplice essere umano.»

In un silenzio carico di tensione, parcheggiamo davanti a una casamobile in una zona degradata ai limiti di Castle Cove. Le finestre sono scure. Niente macchine nelle vicinanze. Nella luce fioca e tremolante di un lampione, vedo fogli di carta affissi alla porta sventolare nella brezza.

«Resta qui.»

Questa volta non faccio storie. Si dirige a passo spedito verso la porta e bussa, ma è evidente che non si aspetti alcuna risposta, perché va immediatamente a scrutare l’interno attraverso le finestre. Stacca i fogli dalla porta. Prova a girare la maniglia e dopo qualche sforzo riesce ad aprire. Scompare all’interno.

Voglio seguirlo, ma non lo faccio. Seduta nell’auto buia, aspetto quasi un’eternità prima di vederlo ricomparire.

Torna in macchina. «Non c’è nessuno» dice, allacciandosi la cintura di sicurezza, quindi mi passa i fogli di carta. Notifiche di sfratto, lettere di sospensione di erogazione dell’acqua, avvisi di interruzione della corrente elettrica... mi concentro sulle date.

«Questo avviso di sfratto è di un mese fa.»

Jared impreca. «Perché non lo hanno detto a nessuno?»

«Sono bambini, cosa vuoi che ne sappiano.» Una potente scintilla di panico mi scocca dentro. «Dobbiamo assolutamente trovarli.»

«Sono certo che stanno bene. Tutto questo tempo da soli, si faranno vivi.»

Annuisco, ma qualcosa mi turba. Il mio stomaco è vessato dall’ansia e ho la sensazione di ignorare qualcosa di molto importante.

«Dove pensi stiano vivendo?» chiede lui, continuando a guidare ma più piano di prima, insicuro su dove andare o da che parte cominciare.

Le scarpette infangate sul pavimento della lavanderia non vogliono abbandonare la mente. So di averle già viste da qualche altra parte, solo che allora non erano inzaccherate. Erano di un rosso vivo che spiccava nell’ambiente circostante.

«L’edificio!»

«Quale edificio?»

«Il vecchio emporio di calze, sulla passeggiata, quello vuoto che dicesti era condannato. È lì che vivono.»

«Ne sei sicura?» Me lo chiede ma sta già accelerando e svoltando su una strada che porti lì. Intanto, tira fuori il telefono.

«Sì. Ti ricordi quel giorno? Quando mi hai urlato contro perché ero lì dentro?»

«Non ti ho urlato contro, ma sì.»

«Li ho sentiti. Pensavo di averlo immaginato. Ma ho visto la scarpa.»

«La scarpa di chi?»

«Di Gary; spuntava da dietro uno scaffale. Sarei andata a controllare, ma tu mi hai detto di uscire.»

Non credo ascolti tutta la frase, perché prende ad abbaiare ordini a qualcuno dall’altra parte del telefono. «Chiama l’unità più vicina alla passeggiata e mandala al vecchio emporio di calze. Subito.»

L’altra voce dice qualcosa.

«Stanotte? Sicura? Beh, digli di fermarsi.» Mette giù e impreca, accelerando lungo la strada buia.

«Chi era? Chi deve fermarsi?»

«Ho chiamato la centrale operativa. Maggie diceva che l’edificio sarà demolito stanotte.»

Un pugno nello stomaco. È vero, Tabby mi aveva detto la stessa cosa. «Di notte?»

«Necessariamente, per evitare disagi alle altre attività commerciali.»

«Forse non sono lì. Forse lo sanno e sono andati da qualche altra parte.»

«Forse. Prima di procedere, l’impresa edile è obbligata a controllare che all’interno non ci sia nessuno, ma sono bambini, piccoli. Potrebbero essere nascosti dovunque in quel vecchio stabile.»

«A che ora inizia la demolizione?»

«In teoria alle dieci, ma Maggie sta provando a contattare l’impresa per fermare i lavori e un’unità è già per strada. Che ora è?»

«Abbiamo dieci minuti» dico. «Dobbiamo sbrigarci.»

Jared accelera al punto da sfiorare i novanta e li mantiene fino al molo. Guida persino sulla passerella di legno. Arrivati, corriamo verso l’estremità della passeggiata. Lui è più veloce e io lo incito a proseguire senza aspettarmi per coprire più in fretta la distanza finale.

Non sento rumori da parte dell’impresa, perciò dobbiamo avercela fatta, o così spero. Quando raggiungo l’edificio, Jared sta urlando qualcosa alla squadra di lavoro, agitando le braccia come un invasato.

Sembra che non abbiano ancora iniziato a demolire lo stabile, ma una macchina dal lato opposto corre in quella direzione, un po’ troppo vicina.

Uno degli operai annuisce e dice qualcosa a Jared, quindi entrambi si precipitano all’interno dello stabile vuoto.

Quando raggiungo la porta per seguirli, Jared sta già uscendo, da solo.

«Non sono lì?» chiedo.

«Sì» risponde lui, accigliato. «Ma non vogliono venir fuori.»

«Cosa?»

«Sono dabbasso, nel seminterrato. La porta dell’intercapedine è chiusa a chiave. Li ho chiamati e mi hanno risposto, ma non vogliono aprire.»

«Perché no?»

«Hanno un elenco di richieste.»

«Stai scherzando?»

«In effetti, ha senso. Spiega chiaramente la ragione per cui non hanno rivelato a nessuno che il padre era scomparso. Greg dice che sa cosa succede quando intervengono i servizi di tutela dei minori, e lui non ha intenzione di lasciare il fratello.»

Alcuni tipi della squadra di smantellamento ci passano accanto, ridendo di qualcosa, un suono alquanto sgradevole considerate le circostanze.

«Oh mio Dio. Possono stare con me? Li prendo entrambi.»

A dire il vero non potrei, non a lungo termine. Non se ho in mente di andarmene, e so che a un certo punto sarò costretta a farlo. Ma potrei tenerli con me fino a quando non avrò trovato una soluzione migliore.

«Devi superare i controlli ed essere inserita nelle liste della contea perché ti concendano i bambini in affido. E Greg è preoccupato di finire nei guai per i furti.»

«Ma non succederà, vero?» Gli metto una mano sul braccio. «Sono solo bambini. Cercavano di mantenersi. Non puoi permettere che si perdano all’interno del sistema.»

«Farò tutto quello che posso per loro.»

Annuisco, ma forse la mia espressione tradisce l’ansia che provo, perché lui mi attira a sé in un abbraccio.

«Sono minorenni, la pena non sarà severa» dice, parlando al di sopra della mia testa. «Con tutta probabilità verranno affidati ai servizi sociali, ma non posso garantire che finiscano insieme. Il padre è scomparso, ciò nonostante proveremo a rintracciarlo. Devo chiamare il comune perché vengano affidati per la notte a qualcuno che sia già stato approvato. Ma hanno ragione. A seconda dei posti disponibili, è possibile che vengano separati.»

«Cosa succede adesso?»

«Un tipo della squadra sta provando a capire se possiamo sfondare la porta e tirarli fuori senza abbattere tutt’intorno. Hanno già iniziato dall’altro lato e, in termini strutturali, potrebbe rivelarsi pericoloso.»

Il telefono squilla e Jared si allontana di qualche passo per rispondere.

All’improvviso, sento la terra tremare sotto i piedi. Un istante.

Che diam...?! Un terremoto? No, è lo stabile.

Sono circondata da urla.

«Sta per crollare!» grida qualcuno.

E i bambini?

Senza aspettare che Jared prenda una decisione o termini la conversazione, mi fiondo nell’edificio.

Lui mi urla dietro, ma non mi giro neanche.

Trovo l’intercapedine senza fatica. Nella polvere ci sono le impronte lasciate dai bambini durante gli spostamenti.

Busso sul legno.

«O fate come ho chiesto io, oppure andatevene.» Greg. Le parole sono dure, ma il tono è spaventato.

«Greg, sono io.»

«Ruby?»

«Sì.»

«Sei venuta ad aiutarci?» La vocina di Gary mi stringe il cuore.

«Farò tutto quello che posso, lo prometto. Ma adesso dovete uscire di lì. Sta per crollare tutto.»

«Non possiamo» dice Greg. «Non permetterò a nessuno di portarmi via mio fratello.»

«È pericoloso.» Provo ancora. «Questo edificio sta già venendo giù. Qualcuno dei due potrebbe farsi male e allora davvero non sareste più insieme. Non avete sentito la scossa?»

Silenzio, poi si bisbigliano qualcosa. Una macchina sferraglia all’esterno, con il cuore in gola mi lambicco il cervello alla ricerca di una soluzione.

La terra torna a tremare e un angolo dello stabilimento alle mia spalle inizia a vacillare.

Dal soffitto vedo cadere cartongesso e polvere, strillo.

«Sta venendo giù!» Urlo contro la porta.

Il chiavistello si muove.

In preda al panico, vedo la porta sollevarsi. L’afferro e mi precipito nel buco insieme a loro, chiudendola con forza dietro di me. Li copro entrambi con braccia e corpo proprio mentre il mondo inizia a crollarci intorno.