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È buio. Non vedo niente. Le orecchie fischiano ancora per via dell’intonaco e del legno che mi sono crollati quasi addosso.
«Greg? Gary?» li chiamo, tossendo.
Man mano che mi riprendo, li sento. Le mie braccia li circondano ancora. Siamo seduti su un pavimento duro in uno spazio angusto. I loro corpicini tremano contro il mio.
Greg inizia a tossire. È come se fossimo coperti da una nuvola di polvere.
Caspita! Siamo vivi!
«State bene?» chiedo quando non li sento parlare.
Uno dei due fa cenno di sì, sento la testa muoversi contro il braccio. Sembra più piccolo, dev’essere Gary.
«Sì» risponde Greg dall’altro lato.
Sollevo le braccia ma restano entrambi stretti a me. Il buio è troppo fitto per vedere qualcosa e farsi un’idea dei danni.
Il seminterrato non è completamente distrutto, almeno non la sezione d’intercapedine accanto alla porta dove siamo noi. Anche l’area direttamente al di sopra sembra aver resistito. Allungo le braccia. Siamo circondati da macerie. L’unico spazio libero, da seduti, è quello subito sotto la botola, con una trentina di centimetri sopra la testa e forse una sessantina tutt’intorno. Non molto.
«Non vi preoccupate» dico «sanno che siamo qui dentro e arriveranno subito a portarci fuori.»
Spero.
C’è un attimo di silenzio. Il mio udito inizia a migliorare e tendo le orecchie per cogliere il suono di movimenti all’esterno, ma non sento niente. Cambio leggermente posizione sul gradino duro per capire fino a che punto posso divaricare le gambe. Non molto. I bambini seguono il mio movimento e nell’attesa cerchiamo una posizione quanto più comoda possibile.
«Pensi che dovremmo provare a scavare?» chiede Greg, facendosi più vicino a me.
«No» mi affretto a rispondere. «Non vogliamo che ci crollino addosso altre macerie. Sono sicura che stanno facendo di tutto per tirarci fuori. Per aiutarli, dobbiamo stare buoni buoni.»
«Ci lasceranno restare insieme, quando usciamo di qui?» chiede Gary.
Provo una fitta al cuore per lui.
«Spero di sì.» Ho un’idea che potrebbe funzionare, ma non voglio illuderli. «Lo sapremo solo una volta fuori.»
Restiamo in silenzio per un po’. Rannicchiati lì. In attesa. Mi sforzo di non pensare troppo allo spazio angusto che occupiamo e agli strati e strati di legno, terra e chissà cos’altro tra noi e la libertà. Spero arrivi aria a sufficienza da consentirci di continuare a respirare. Rabbrividisco.
«Ci manderanno in prigione» dice Greg dopo qualche istante.
«No!» Voglio che rimangano calmi, ma non posso mentire. «Cioè... un po’ nei guai per aver rubato lo siete, ma Jared mi ha detto che essendo ancora piccoli probabilmente finirete solo in libertà vigilata, o qualcosa di simile.»
«Che cos’è la libertà vigilata?» A giudicare dalla vocina è esausto.
«Niente di brutto. Significa che dovrete restare a casa per un po’ e potrete uscire soltanto per andare a scuola.»
«Magari» dice Gary. «Io voglio restare in qualche posto che sia una casa.»
Lo voglio anch’io, piccolo.
«Non sei arrabbiata con noi perché abbiamo rubato?»
«No, Gary, non sono arrabbiata. Ma come avete fatto a rubare la borsa alla signora della passeggiata senza che nessuno se ne accorgesse?»
A rispondere è Greg. «L’ho visto in TV. Abbiamo preso delle sacche da una vecchietta che dormiva. Ne aveva così tante che le usavamo anche come coperte. La signora bionda della passeggiata era distratta, così mi sono avvicinato e da dietro le spalle le ho messo la sacca in testa. Gary ha preso la borsa ed è tornato qui di corsa. È così piccolo che di solito la gente lo ignora o, comunque, non ci fa caso. Ma quella ha iniziato a urlare. Non la volevamo spaventare. Dopo quella volta non l’abbiamo più fatto.»
«E nella stazione di servizio come ci siete entrati?»
«Senza farci vedere.» Ancora Greg. «Siamo rimasti nascosti dietro gli scatoloni nella stanza di dietro finché non hanno chiuso.»
Ecco perché non c’erano segni di scasso.
«Perché avete rotto tutte le bottiglie?» chiedo, anche se penso di conoscere già la risposta.
Sempre Greg. «A nostro padre interessavano più quelle che noi.»
Seguono minuti di totale silenzio da parte di tutti e tre, poi: «E perché non avete chiesto aiuto a qualcuno?»
«Non vogliamo essere separati» dice Gary.
«Abbiamo sentito cosa succede ai bambini nella case di affido» continua Greg. «Vengono maltrattati. E poi noi non vogliamo andarcene da Castle Cove. E se papà tornasse a cercarci?»
Deglutisco. La mia testa non considera un ritorno del padre la migliore delle ipotesi, ma sono solo dei bambini.
Gary mi si addormenta accanto, abbandonandosi contro le mie braccia; il suo respiro mi accarezza i polsi.
Sto per assopirmi anch’io quando arriva una potente esplosione e della luce inizia a filtrare attraverso le fessure nella porta sulle nostre teste.
«Si stanno avvicinando» dico ai fratellini.
Il rumore sveglia Gary, che si mette a piangere, emettendo lievi singhiozzi e tirando su col naso.
Lo stringo più forte. «Non aver paura. Presto sarà tutto finito.» I loro corpi si fanno ancor più vicini al mio.
Altri rumori dall’alto e poi la porta si spalanca.
Un fascio di luce mi fa battere le palpebre. Non è il sole; non siamo rimasti qui troppo tempo. È una sorta di enorme riflettore.
«Grazie a Dio» dice una voce.
Braccia si tendono all’interno verso i bambini. Faccio del mio meglio per aiutarli a uscire, quindi arriva il mio turno. Non mi reggo quasi in piedi; dopo chissà quanto tempo su quel pavimento duro, le gambe sono intorpidite e indolenzite.
Forti braccia mi tirano fuori.
È Jared e mi sta stringendo a sé.
«State bene?»
«Sì, tutto bene.»
«Ho provato a inseguirti nell’edificio, ma mi hanno bloccato. Non farlo mai più.» Sembra incavolatissimo. Ma in una maniera strana, come fosse arrabbiato e al tempo stesso sollevato.
Il tempo trascorre in un susseguirsi di attività frenetiche. Qualcuno mi getta addosso una coperta e accompagna, sollevandoci quasi di peso, me e i bambini a un’ambulanza. Un soccorritore è in attesa e dopo i controlli dice che posso andare, ma sembra impiegarci un’eternità. Jared resta lì tutto il tempo, ora al mio fianco ora con i bambini, mentre le dita dell’uomo tastano e danno colpetti ai nostri corpi.
Quando finalmente ho un minuto, mi giro verso di lui. «I bambini» dico. «Vogliono restare insieme.»
«Lo so. Ho chiamato l’ufficio preposto, stanno mandando un dipendente. Sarà necessario un affido di emergenza...»
«Il signor Bingel.»
«Cosa?»
«Fidati. Chiama il signor Bingel.»
Mi guarda accigliato, la confusione ben evidente tra gli occhi, ma annuisce. «D’accordo.»
~*~
«Come facevi a sapere del signor Bingel?»
Jared e io siamo sulla veranda di casa. O meglio, lui è sulla veranda di casa mia. Ho aperto la porta, sono quasi all’interno e mi chiedo se Jared voglia entrare con me.
Per una varietà di ragioni è un’idea terribile, orrenda... meravigliosa.
Sono passate ore dal momento in cui siamo emersi dal seminterrato dello stabile abbandonato. I bambini sono al sicuro nella casa accanto. Il sole sta sorgendo e io ho lasciato che Jared mi riaccompagnasse solo dopo essermi accertata che la situazione dei fratellini fosse risolta.
Mi stringo nelle spalle. «Se non sei sicuro, leggi il futuro.» Dentro casa, poso la borsa per terra accanto alla porta e mi giro a guardarlo, appoggiandomi contro lo stipite.
«Divertente. Ma... sul serio. Non avevo idea fosse iscritto come affidatario.»
Mi limito a sorridere.
In piedi davanti a me, Jared resta in silenzio, senza congedarsi né entrare, sposta il peso da una gamba all’altra, come sempre fa quando è a disagio. Poi si schiarisce la gola. «A proposito di prima...»
«Sì?»
«Avrei dovuto... non intendevo approfittare della situazione.»
Non riesco a trattenere un sorriso. «Pensi di esserti preso delle libertà con me?»
«No, cioè, col fatto che lavoriamo insieme e tutto il resto, probabilmente non dovremmo far... lo.»
«Non dovremmo pomiciare nella mia lavanderia» puntualizzo io.
«Sì. Cioè, no. Insomma, non è la migliore delle idee...»
«Jared.»
«Sì?»
«Vuoi entrare?»
Mi fissa con quel suo sguardo penetrante. L’intensità è tale da farmi arrossire e...
Varca la soglia.
Continua...
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A proposito dell’autrice
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Mary Frame è madre e moglie a tempo pieno con un lavoro a tempo pieno. Non ha idea di come riesca a scrivere romanzi, sa soltanto che il processo comporta il consumo di copiose quantità di vino. Non le piace raccontare di se stessa in terza persona ma ama leggere, scrivere, ballare e danneggiare i timpani dei colleghi quando decide impulsivamente di mettersi a cantare.
Vive a Reno, nel Nevada, con suo marito, due figli e un border collie di nome Stella.
ADORA ricevere messaggi dai suoi lettori e non solo risponderà ma con tutta probabilità inizierà a stalkerarli e a gettar loro cuori, fiori e arcobaleni! Se la cosa non vi inquieta, scrivetele pure a: maryframeauthor@gmail.com
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