«Cesare combatté cinquantadue battaglie campali. Fu il solo a superare Marco Marcello, che ne combatté trentanove».
plinio il vecchio, metà del I secolo d.C.1
«Cesare aveva una straordinaria disposizione ed eleganza nello scrivere, ma anche la dote di saper illustrare in modo perfetto i suoi piani».
aulo irzio, 44 a.C.2
Cesare aveva quarantuno anni quando lasciò Roma per recarsi in Gallia. Sarebbero passati nove anni prima del suo ritorno in città. Si può dire, senza correre il rischio di esagerare, che trascorse in guerra quasi tutto il resto della sua vita. Da quel momento in poi, furono soltanto due gli anni in cui non partecipò a grandi operazioni militari: il 50 a.C., quando la Gallia era stata conquistata ed era occupato nel riassetto amministrativo della regione, e il 44 a.C., anno in cui fu assassinato, pochi giorni di partire per una nuova grande campagna in Dacia e in Partia. Quasi ogni anno Cesare ingaggiò guerre o assedi. Plinio sostiene che guidò il suo esercito in cinquantadue battaglie. Secondo Appiano, trenta di queste si svolsero in Gallia. È impossibile stabilire se queste cifre siano esatte, anche perché raramente gli storici sono d’accordo sui criteri da utilizzare per distinguere una vera e propria battaglia da uno scontro o una schermaglia. Resta il fatto che questi autori riflettono l’opinione diffusa che Cesare abbia combattuto più spesso e con maggior successo di qualsiasi altro generale romano. Alessandro Magno, cui viene spesso paragonato, prese parte solo a cinque battaglie campali e a tre grandi assedi, anche se partecipò a molti altri scontri di dimensioni minori. Annibale, che aveva di fronte un nemico totalmente diverso, combatté molte battaglie campali, ma non superò – e neppure eguagliò – il numero dei combattimenti cui prese parte Cesare. Fino all’epoca di Napoleone, durante la quale si registrò un notevole incremento delle attività belliche, nessun comandante affrontò campagne militari di durata paragonabile a quelle di Cesare o degli altri grandi generali dell’antichità3.
A partire dal 58 a.C., la vita di Cesare cambiò radicalmente. Fino a quel momento aveva trascorso, in totale, non più di nove anni fuori dall’Italia, la metà dei quali in operazioni militari di qualche tipo. Ciò era piuttosto comune per un senatore romano, forse persino leggermente al di sotto della media. Facevano eccezione solo quei casi di uomini come Cicerone, che basavano il loro successo solo sul talento come oratori. Vale la pena di ricordare, ancora una volta, che, nonostante la sua eccentricità, la vicinanza politica a personaggi sospetti e la natura controversa di alcune delle sue azioni durante il consolato, sino a quel momento Cesare aveva avuto una carriera convenzionale. Dato che era diventato console con due anni di anticipo rispetto all’età minima richiesta, come proconsole era solo di poco più giovane rispetto alla media. In confronto ad Alessandro Magno, Annibale o Pompeo, l’occasione della sua vita arrivò molto più tardi. Alessandro morì a trentuno anni e Annibale combatté la sua ultima battaglia a quarantacinque. Napoleone e Wellington avevano solo un anno più di Cesare quando si scontrarono a Waterloo, sebbene Blücher ne avesse settantatré. In compenso, Robert E. Lee aveva già più di cinquant’anni quando scoppiò la Guerra di Secessione, così come Patton all’inizio del secondo conflitto mondiale. Per gli standard romani, come per quelli moderni, Cesare non poteva essere considerato vecchio nel 58 a.C. Nessuno dei suoi contemporanei prevedeva però che sarebbe diventato uno dei più grandi comandanti di tutti i tempi. In passato, durante il servizio militare, aveva dimostrato talento, coraggio e determinazione, ma molti altri aristocratici ambiziosi possedevano simili qualità. Come sempre, nel ripercorrere la storia di Cesare, dobbiamo evitare di farci condizionare dal senno del poi e di considerare scontato il corso degli eventi. Le vittorie di Cesare furono straordinarie, tanto da suscitare stupore persino in una Roma ancora abbagliata dalle grandiose imprese di Pompeo. Tuttavia, il confine tra successo e fallimento era molto sottile. Cesare avrebbe potuto cadere in battaglia, o morire per un incidente o una malattia prima di rientrare a Roma. Inoltre, nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbe tornato nelle vesti di un ribelle per combattere contro il suo vecchio alleato e genero, Pompeo. Cesare partì per la Gallia con grandi progetti e ambizioni. Senza dubbio, aveva preso in considerazione varie possibilità, ma sapeva che il suo destino era nelle mani della sorte.
Cesare aveva lottato tenacemente per ottenere un comando così prestigioso. Si era indebitato fino al collo e aveva corso grandi rischi, facendosi molti nemici. I suoi sforzi sarebbero stati ripagati soltanto da enormi vittorie, ma doveva anche assicurarsi che fossero rese note a tutti, se voleva trarne un concreto vantaggio. Le campagne di Pompeo contro i pirati e Mitridate erano state documentate da Teofane di Mitilene, un erudito greco che aveva seguito l’esercito durante le operazioni militari. Cesare non aveva bisogno dei servigi di un letterato, e scrisse di suo pugno i resoconti delle campagne. Aveva già pubblicato un certo numero di orazioni e altri componimenti letterari, andati perduti. Più tardi, l’imperatore Augusto fece distruggere le sue opere giovanili, tra cui una tragedia intitolata Edipo, il poemetto Lodi di Ercole e una raccolta di massime. Delle sue orazioni si conservano solo pochi frammenti. I generali romani raccontavano le loro imprese scrivendo commentari, un genere letterario considerato diverso dalla storiografia, visto perlopiù come un materiale che gli storici avrebbero in seguito rielaborato. Cesare pubblicò dieci libri di commentari: sette riguardano le operazioni militari in Gallia dal 58 al 52 a.C. e altri tre la guerra civile contro Pompeo nel 49-48 a.C. Dopo la sua morte, alcuni ufficiali aggiunsero quattro libri riguardanti le operazioni condotte in Gallia nel 51 a.C., la campagna in Egitto e Oriente del 48-47 a.C., quelle in Africa nel 46 a.C. e in Spagna nel 45 a.C. Di altri commentari si sono conservati solo frammenti. Pertanto è difficile stabilire se i libri di Cesare rispettassero i canoni stabiliti per questo genere letterario4.
I Commentarii de bello Gallico furono subito accolti come una delle più grandi opere della letteratura latina. Cicerone, che aveva un profondo rispetto per l’ars oratoria di Cesare, li elogiò:
Sono degni di ammirazione […], schietti, semplici, belli, privi di ogni ornamento retorico, come un corpo che ha deposto le vesti. Se egli ha inteso fornire ad altri del materiale per la storia, solo a persone prive di gusto potrebbe venire in mente di ornare con fronzoli quelle pagine. Cesare, in verità, ha fatto desistere ogni uomo ragionevole dalla volontà di mettersi a scrivere su questo argomento. Nulla, nel racconto storico, è più gradevole di una concisione pura e luminosa5.
Queste parole furono scritte nel 46 a.C., quando Cicerone si era apertamente schierato contro la dittatura di Cesare. È quindi possibile una duplice lettura del riferimento all’aver dissuaso «ogni uomo ragionevole» dal riscrivere la narrazione delle sue imprese. Tuttavia, è evidente che l’elogio della qualità letteraria dei libri è schietto, soprattutto perché lo stile narrativo semplice e austero di Cesare costituiva l’esatto opposto della retorica ciceroniana. In un’occasione Cesare dichiarò che l’oratore doveva «evitare una parola inusuale come il timoniere di una nave schiva uno scoglio». Eccetto l’uso di termini tecnici o stranieri, quando necessario, nei Commentarii Cesare si attenne strettamente a tale principio, creando una narrativa dallo stile semplice e dal ritmo serrato, che raramente, se non mai, cade nell’emotività o nel gusto per il teatrale, ma lascia che i fatti salienti e più drammatici parlino da sé. Cesare, riferendosi a se stesso in terza persona e ai soldati come ai «nostri», racconta la storia dell’esercito del popolo romano, agli ordini del suo legittimo comandante, che combatte contro nemici feroci in luoghi la cui natura stessa è ostile. Cesare non perde occasione di ricordare, nel corso della narrazione, che le sue azioni sono state intraprese nell’interesse esclusivo della repubblica. Benché il lettore moderno possa, in certi punti, provare una comprensibile repulsione davanti all’imperialismo sfrontato dei Commentarii, con la sua sfilza di massacri, esecuzioni di massa e uomini ridotti in schiavitù, un romano dell’epoca non sarebbe rimasto affatto turbato da tali racconti. Anzi, sarebbe stato difficile persino per un avversario politico di Cesare non farsi trascinare dall’entusiasmo durante la lettura6.
Molti leader politici e militari hanno scritto la loro versione degli avvenimenti di cui furono protagonisti e testimoni, ma pochi hanno eguagliato la qualità letteraria dei Commentarii. In epoca più recente, forse Churchill è quello che si è avvicinato di più, per la chiarezza e l’efficacia della narrazione e per la rapidità con la quale ha pubblicato le sue memorie subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma c’è una differenza fondamentale. Churchill e quasi tutti gli altri famosi generali scrissero resoconti quando la loro carriera era già terminata, con l’intento di lasciare ai posteri la loro versione dei fatti. Al contrario, Cesare si rivolgeva ai suoi contemporanei, e scriveva per promuovere la propria carriera politica e crearsi, in futuro, nuove opportunità di gloriose imprese (ciò vale anche per Churchill, limitatamente ai suoi primi scritti). Non è del tutto chiaro quando furono composti e pubblicati i sette libri del De bello Gallico, ma l’opinione prevalente è che furono redatti tra il 51 e il 50 a.C. Si suppone – ma si tratta solo di un’ipotesi, nonostante venga spesso sostenuta come un fatto certo – che in quei mesi di tensione, che sarebbero culminati nello scoppio della guerra civile, Cesare li scrisse sperando di ottenere tutto l’appoggio possibile a Roma. Tuttavia, questo era stato il suo intento sin da quando era partito per la Gallia, nel 58 a.C. Nessun uomo che intendesse continuare la carriera pubblica poteva permettersi il lusso di essere dimenticato dall’elettorato e dai gruppi più influenti. Perciò sarebbe stato strano aspettare tanto tempo prima di divulgare le proprie vittorie. Inoltre, il modo variegato in cui, nei diversi libri, vengono presentati alcuni personaggi o le evidenti contraddizioni di alcuni dettagli, rendono molto probabile che ciascuno di essi sia stato pubblicato in tempi diversi.
In realtà, è molto più verosimile che ciascun libro sia stato scritto dopo l’anno di campagna cui si riferisce, durante i mesi invernali, in cui le operazioni militari venivano sospese. Persino coloro che sostengono che la pubblicazione avvenne più tardi e unitariamente ammettono che Cesare inviava un rapporto annuale al senato, che aveva un’ampia diffusione pubblica. Alcuni ritengono anche che questi resoconti fossero molto simili, per forma e contenuto, ai Commentarii come li conosciamo oggi. Non c’è ragione di credere che, durante i mesi invernali trascorsi in Gallia, Cesare non avesse abbastanza tempo per scrivere un libro. Irzio, uno dei suoi ufficiali, che aggiunse un ottavo libro ai Commentarii de bello Gallico, lodò, al pari di Cicerone, lo stile letterario di Cesare, aggiungendo che i resoconti erano stati scritti molto velocemente. Un altro ufficiale, Asinio Pollione, sostiene che Cesare avesse intenzione di riscriverli. Ciò suggerisce che furono redatti con una certa rapidità, dal momento che nascevano da esigenze politiche immediate. Nessuno dei due commenti dimostra che ogni libro fu pubblicato separatamente, ma è un’ipotesi molto più plausibile. Oltretutto, sarebbe stato un compito piuttosto gravoso scrivere tutti e sette i libri al termine delle campagne galliche7.
Un’altra opinione molto diffusa è che i destinatari principali dei Commentarii fossero i senatori e la classe equestre. Anche in questo caso si tratta di un’ipotesi che suscita alcune perplessità. Durante l’anno di consolato, Cesare aveva ordinato la pubblicazione di tutti i dibattiti del senato, una misura che non andava certo a vantaggio dei senatori. Non sappiamo quanti fossero i potenziali lettori che non appartenevano alle classi più abbienti, ed è difficile azzardare una stima del livello di alfabetizzazione nella società romana di allora. In generale, possiamo dare per assodato che, in un’epoca in cui ogni copia doveva essere trascritta a mano, il libro fosse un oggetto di lusso e costoso. Tuttavia, Cicerone notava con entusiasmo che uomini di estrazione sociale umile, come gli artigiani, erano avidi divoratori di libri di storia. Le fonti suggeriscono che si tenevano spesso letture pubbliche di libri e che, in alcuni casi, attiravano molta gente. Cesare era stato sempre un popularis, desideroso di conquistare il consenso di un’ampia fascia della popolazione. È probabile che guardasse con entusiasmo alla possibilità di coinvolgere un vasto pubblico. Senatori ed equites non giocano un ruolo da protagonisti nei Commentarii, e – cosa decisamente sorprendente – talvolta vengono anche messi in cattiva luce. Al contrario, i soldati sono sempre lodati per il loro coraggio e valore mentre, quando sono criticati, ciò accade quasi sempre per un eccesso di entusiasmo che li ha spinti a dimenticare la stretta osservanza della disciplina. Ancor più dei soldati semplici, i centurioni che li guidavano sono spesso dipinti come eroi. Anche se Cesare non li indica quasi mai per nome, sono loro, come collettivo, a mantenere la calma nei momenti di crisi e a combattere e morire per il proprio comandante. Forse questo ritratto così lusinghiero dei centurioni poteva appagare il patriottismo di cavalieri e senatori, ma certamente esercitava un fascino assai maggiore sul resto della popolazione. Cesare si era sempre preoccupato di mantenere buoni rapporti con ampie fasce di cittadini romani, non soltanto con l’élite. Forse alcuni gruppi erano per lui più importanti di altri, come ad esempio quelli inseriti nella lista di elettori della prima classe nei comitia centuriata, ma non possiamo esserne certi, data la quasi totale mancanza di informazioni riguardanti la vita a Roma al di fuori dei ristretti circoli dell’élite aristocratica8.
Dall’inizio delle campagne in Gallia fino alla fine della guerra civile, sappiamo molto di più delle attività di Cesare, ma la stragrande maggioranza delle informazioni proviene dai Commentarii. In particolare, per quanto riguarda le campagne in Gallia, le notizie contenute nelle altre fonti derivano quasi tutte dalla versione di Cesare. Il che equivale a dire che se mettiamo in dubbio la sostanziale aderenza al vero dei Commentarii, non abbiamo alcun elemento per una diversa ricostruzione dei fatti.
Napoleone era un grande ammiratore di Cesare. Lo considerava uno dei grandi comandanti le cui campagne dovevano essere studiate da chiunque aspirasse a diventare un generale. Nonostante ciò, dubitava della veridicità di alcuni dei suoi racconti, e durante l’esilio trascorse del tempo a criticarli. Ma, dato che lo stesso Napoleone, nei suoi bollettini di guerra e nelle sue memorie, aveva la tendenza ad alterare i fatti, probabilmente considerava la cosa come un fatto naturale. Cesare scriveva con un preciso fine politico: elevare la sua reputazione di fedele servitore della repubblica e dimostrare di meritare la posizione privilegiata che gli era stata assegnata. I Commentarii erano un’opera di propaganda, in cui le sue azioni dovevano essere presentate nel miglior modo possibile. Secondo Svetonio, «Asinio Pollione pensa che i Commentarii siano stati scritti con poca diligenza e scarso rispetto della verità, perché Cesare, nella maggior parte dei casi, era disposto ad accettare senza riserve tutto ciò che gli altri dicevano di aver fatto, e ha fornito una versione inesatta delle proprie azioni, di proposito o per mancanza di memoria…»9.
Pollione non fu al servizio di Cesare in Gallia, ma solo durante la guerra civile. È molto probabile quindi che il suo commento si riferisca ai Commentarii del secondo conflitto. L’opinione secondo cui Cesare fosse troppo propenso ad accettare i resoconti forniti da altri può anche essere un’amara nota personale, dal momento che Pollione fu uno dei pochi sopravvissuti a un disastroso sbarco in Africa, guidato da un comandante lodato da Cesare nei Commentarii. Ma se è vero che Cesare alterava alcuni fatti, in che misura lo fece? I ritrovamenti archeologici hanno in parte confermato alcuni resoconti delle campagne in Gallia, ma sono uno strumento poco adatto a ricostruire i dettagli delle operazioni militari e, ancor meno, la motivazione e le idee che le animavano. È certamente di maggiore ausilio la corrispondenza che, durante tutta la durata del conflitto in Gallia, numerosi cavalieri e senatori al seguito di Cesare tennero regolarmente con le loro famiglie e con gli amici. Alcuni anni più tardi, Quinto, il fratello di Cicerone, fu nominato legato di Cesare. La corrispondenza di quell’epoca che si è conservata contiene pochi dettagli militari, ma sorprende che Quinto potesse inviare una lettera al fratello durante i pochi mesi del 54 a.C. che l’esercito trascorse in Britannia. Ciò dimostra che esisteva un costante flusso di informazioni tra Roma e l’esercito. Nel 56 a.C. Cicerone criticò in senato il suocero di Cesare, Lucio Calpurnio Pisone, per la sua condotta come proconsole della Macedonia. Pisone aveva omesso l’invio dei dispacci informativi al senato ma, nonostante ciò, tutti erano al corrente delle attività e dei fallimenti del proconsole.
La maggior parte delle critiche all’attendibilità dei fatti narrati da Cesare si basa su dettagli estrapolati dal suo stesso racconto. Tuttavia nei Commentarii sono menzionate anche sconfitte e varie operazioni non del tutto riuscite. In realtà Cesare non poteva rischiare di riferire episodi inventati di sana pianta o di ricostruire in modo troppo distorto i fatti, perché il pubblico avrebbe potuto facilmente accorgersene. Ciò che poteva fare, e che ovviamente fece, era presentare la migliore versione possibile dei fatti, imputare ad altri la colpa delle sconfitte e giustificare le proprie azioni in modo sereno e distaccato, evitando di soffermarsi sulle operazioni meno riuscite. In definitiva, se voleva che i Commentarii riuscissero a colpire favorevolmente l’opinione pubblica, doveva attenersi strettamente ai fatti, in particolare a quelli che a Roma suscitavano maggiore interesse. Ovviamente, come ogni altra fonte, anche Cesare va preso con cautela, ma ci sono buone ragioni per credere che abbia descritto in modo veritiero gli avvenimenti fondamentali10.
L’esercito che presidiava la provincia di Cesare nel 58 a.C. contava circa il doppio dei legionari di quello che aveva comandato in Spagna. Col tempo, il numero delle truppe sarebbe raddoppiato e infine triplicato. Cesare aveva militato nell’esercito per cinque anni, ma era privo di esperienze militari nella regione. Come abbiamo già visto, non era una situazione inconsueta per un comandante romano. Cesare affrontò bene la sfida, ma sarebbe un errore supporre che, sin dal principio, abbia dimostrato quello straordinario talento che gli valse la fama di uno dei più grandi generali della Storia. Doveva imparare a conoscere il suo nuovo esercito e a sfruttarne al meglio le potenzialità, cosa che richiedeva del tempo. Ad ogni modo, gli ufficiali di più alto rango che aveva portato con sé nella provincia erano tutti uomini scelti da lui personalmente.
I più importanti erano i legati – la parola legatus significa ‘rappresentante’ ed era usata in riferimento sia agli ambasciatori che agli ufficiali di alto rango che agivano in nome di un governatore –, che erano sempre scelti tra i senatori. Da quel che sappiamo, nessuno di essi aveva più esperienze militari del loro comandante. Cesare aveva chiesto anche a Cicerone di accompagnarlo come legato. Ciò indica che, nella scelta dei legati, un utile contatto politico contava quanto il talento militare. L’oratore rifiutò la proposta ma, sin dall’inizio della campagna, Cesare poté contare su almeno cinque o sei legati, forse addirittura dieci. Il legato di più alto rango era Labieno, che deteneva l’imperium di propretore e non un mero potere delegato. Labieno era il tribuno che aveva collaborato con Cesare nel 63 a.C. e che lo aveva anche coadiuvato nell’accusa nel processo contro Rabirio. È il legato più menzionato nei Commentarii, poiché si dimostrò un soldato di eccezionale valore. Eppure, nel 58 a.C. non aveva più esperienze di guerra di Cesare, e dimostrò il suo talento solo a partire dall’arrivo in Gallia. Labieno aveva prestato servizio in Asia sotto il comando di Publio Servilio Vatia Isaurico durante gli anni Settanta del I secolo a.C. Forse Labieno conobbe già in quegli anni il suo futuro comandante, ma è anche possibile che fosse già partito per la provincia prima del ritorno di Cesare a Roma. È stato anche ipotizzato che avesse militato sotto il comando di Pompeo, ma non ci sono prove che lo confermino. Molti studiosi hanno sostenuto che Labieno rivestì la carica di pretore nel 60 o nel 59 a.C., ma anche in questo caso si tratta di un fatto plausibile, non dimostrato11.
Balbo era un alleato di Cesare di vecchia data e fu anche suo praefectus fabrum, ma sembra che non trascorse molto tempo in Gallia e fece presto ritorno a Roma per rappresentare gli interessi di Cesare in città. Un altro dei legati di Cesare fu Mamurra, originario di Formia, che divenne famoso per i metodi discutibili con cui accumulò un’immensa fortuna durante le campagne galliche. Sembra che anche Vatinio, il tribuno promotore della Lex Vatinia con la quale Cesare aveva ottenuto il comando quinquennale sulla provincia, abbia trascorso un periodo in Gallia, ma forse la sua presenza è da collocare in un periodo successivo nel corso del decennio. Quinto Pedio fu invece con lui sin dall’inizio. Non conosciamo l’identità degli altri legati di Cesare nel 58 a.C., ma sappiamo che molti, se non erano al suo servizio fin dall’inizio, si unirono presto a lui. Tra questi c’erano Aulo Irzio, l’autore dell’ottavo libro dei Commentarii, e Servio Sulpicio Galba, che aveva militato al comando di Pomptino durante la ribellione degli Allobrogi, e aveva già partecipato a operazioni belliche in Gallia. Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta probabilmente furono al suo fianco sin dal principio della campagna (nonostante il cognomen «Cotta», è improbabile che Lucio fosse un parente della famiglia della madre di Cesare, il cui nomen era Aurelio). Cotta aveva scritto un trattato sulla costituzione romana. In genere, gli uomini dello stato maggiore di Cesare possedevano una spiccata sensibilità letteraria; uno di loro, dal 58 al 56 a.C., fu anche il figlio più giovane di Crasso, Publio, che era un appassionato studente di letteratura e filosofia, e che per questo aveva stretto amicizia con Cicerone. La presenza del giovane Publio è indicativa della vicinanza politica di Crasso a Cesare in quegli anni. Evidentemente non era stato necessario cementare la loro alleanza tramite un matrimonio. Il venticinquenne Publio Crasso diede prova di essere audace e valoroso. Iniziò la campagna come comandante della cavalleria dell’esercito (praefectus equitum), prima di essere promosso a legato l’anno seguente. Un altro giovane di talento che servì Cesare fin dal principio della spedizione fu Decimo Giunio Bruto, figlio di Sempronia, nota per essere stata coinvolta nella congiura di Catilina. Cesare ebbe al suo servizio anche un questore di cui non conosciamo l’identità12.
Ciò che sorprende dei legati di Cesare è che si trattava di uomini relativamente poco conosciuti. Solo Crasso e, in misura minore, Bruto provenivano da famiglie illustri e i loro padri erano stati consoli. Labieno era un homo novus, la cui massima carica, sino ad allora, era stata il tribunato, così come Vatinio. Cotta apparteneva a una famiglia che non occupava posizioni importanti nella vita pubblica da diverse generazioni, e ancor meno si sa delle origini familiari di Sabino e di molti altri ufficiali. In sostanza, le grandi famiglie aristocratiche, specialmente quelle che avevano conquistato una posizione sotto la dittatura di Silla o nel periodo successivo, preferirono non mettersi al servizio di Cesare. Al contrario, una lista di nomi illustri aveva seguito Pompeo nella sua campagna contro i pirati. La maggior parte dei legati della Gallia erano uomini che aspiravano a recuperare o migliorare la loro posizione e quella della famiglia, e molti ci riuscirono. Lo stesso vale, probabilmente, per gli ufficiali di rango inferiore. Nel descrivere gli eventi del 58 a.C., Cesare parlava dei «tribuni militari, i prefetti e gli altri ufficiali che avevano seguito Cesare dalla capitale per amicizia, ma non avevano grande esperienza in fatto di guerra». In realtà, coloro che occupavano già una posizione di spicco nella vita pubblica non avevano bisogno di unirsi a Cesare nel 58 a.C. Non era prevedibile che avrebbe dimostrato di essere un grande comandante, e c’era sempre la possibilità che venisse sconfitto e morisse su qualche collina della Gallia. In caso di successo, ci si poteva però almeno aspettare che la ricompensa sarebbe stata cospicua, poiché la sua generosità era ben nota. Partire con Cesare era una scommessa che attirava soprattutto quelli che non avevano altre possibilità di carriera. Da quel che sappiamo, Cesare non aveva preclusioni di sorta nei confronti di nessuno. Era sempre disposto a fare quanti più favori poteva per conquistare nuovi sostenitori13.
Cesare scelse personalmente il suo stato maggiore, ma l’esercito che si apprestava a comandare esisteva già. Complessivamente, l’Illiria e la Gallia Transalpina e Cisalpina erano presidiate da quattro legioni: la Settima, l’Ottava, la Nona e la Decima. Non sappiamo da chi erano state reclutate, ma è molto probabile che esistessero da anni e fossero state già impiegate in operazioni militari. Sulla carta, una legione era composta a quell’epoca da poco meno di cinquemila uomini ma, come accade in tutti gli eserciti in ogni periodo della Storia, spesso le unità effettive impiegate nelle campagne militari erano di molto inferiori a quelle teoricamente disponibili. Sappiamo che durante la guerra civile una delle legioni di Cesare contava meno di mille soldati. La legione non aveva un comandante fisso, ma veniva guidata da sei tribuni militari, di solito appartenenti alla classe equestre. Alcuni erano giovani aristocratici non ancora entrati in senato, e altri ufficiali semiprofessionisti che prestavano servizio in modo continuativo, passando da una legione all’altra. Ogni anno il popolo romano eleggeva ventiquattro tribuni che, per tradizione, venivano destinati alle due legioni che costituivano l’esercito assegnato a ciascun console. Cesare aveva ricoperto questa carica in un’epoca in cui le legioni in servizio erano già aumentate, e il numero di tribuni era diventato insufficiente. Egli designò personalmente la maggior parte dei suoi tribuni, se non tutti, ma non possiamo escludere che qualcuno prestasse già servizio nelle quattro legioni prima del suo arrivo. Nei Commentarii non vengono mai menzionati tribuni posti al comando di legioni, dato che Cesare assegnava questo importante compito ai suoi legati o al questore. I tribuni conservavano però importanti funzioni amministrative e organizzative, e potevano comandare un distaccamento di parecchie unità14.
Dopo i tribuni seguivano, in ordine di importanza, i centurioni. È preferibile considerarli un grado militare, più che un reparto a se stante. In ogni legione c’erano sessanta centurioni, ognuno dei quali comandava una centuria di ottanta uomini (è probabile che la parola «centurione» significhi semplicemente «circa cento uomini»). Sei centurie formavano una coorte di quattrocentottanta uomini, l’unità tattica di base dell’esercito romano. In materia le fonti tacciono, ma è molto probabile che fossero i centurioni più esperti a guidare la coorte in battaglia. Ogni legione era composta da dieci coorti, e la prima coorte aveva più prestigio di tutte le altre perché proteggeva l’aquila d’oro o d’argento, che era il simbolo dell’intera legione. I centurioni della prima coorte godevano di un immenso prestigio e, probabilmente, insieme ai colleghi posti a capo delle altre coorti, formavano i «centurioni del primo ordine» (primi ordines), che spesso partecipavano anche alle riunioni convocate dal comandante. I centurioni sono stati talvolta descritti come «sergenti maggiori» dell’esercito, veterani brizzolati promossi a tale ruolo dopo anni di servizio nelle truppe, ma in realtà le prove a sostegno di questa teoria sono davvero poche. Nei Commentarii Cesare non fa mai riferimento alla promozione di un legionario a centurione, né tantomeno spiega in che modo venissero selezionati, dando evidentemente per scontato che il lettore lo sapesse. È probabile che molti fossero nominati direttamente, come accadrà in epoca imperiale, quando anche gli equites verranno reclutati come centurioni. Lo svolgimento di mansioni amministrative, che costituiva una parte importante del loro lavoro, richiedeva un buon livello di alfabetizzazione e nozioni di aritmetica, conoscenze che un soldato comune raramente possedeva. Una volta arruolati, i centurioni godevano di una posizione sociale e di un trattamento economico privilegiati rispetto ai semplici legionari, poiché la loro paga era fino a dieci volte superiore. La maggioranza dei centurioni proveniva forse dalle classi più agiate, a differenza della massa dei legionari, che veniva reclutata tra i cittadini più poveri. In tal caso, l’attenzione che viene loro dedicata nei Commentarii è ancora più interessante. È possibile che venissero reclutati tra i membri della prima classe, che svolgeva un ruolo decisivo nelle votazioni dei comitia centuriata. La nomina a quest’incarico, così come le successive promozioni, assumevano quindi un’importanza che andava al di là del semplice aspetto militare, soprattutto per un comandante come Cesare, sempre attento a coltivare la fitta rete di clientele alla base delle relazioni politiche nella società romana. A differenza degli ufficiali di alto rango, i centurioni prestavano servizio nell’esercito per lunghi periodi, e non sarebbe un errore considerarli come dei militari professionisti15.
Le legioni dei secoli precedenti, selezionate tra le classi di cittadini che possedevano mezzi a sufficienza per pagare il proprio equipaggiamento, a quell’epoca erano solo un lontano ricordo. Mario aveva reclutato in massa i capite censi, cittadini così poveri da contare semplicemente come numero nel censimento, ma forse, già prima di lui, seppure in modo non ufficiale, l’apertura dell’esercito ai nullatenenti era già una prassi. Sin da allora, arruolarsi nelle legioni era ben poco allettante per i cittadini più abbienti e istruiti. La disciplina poteva essere brutale. Le fustigazioni erano inflitte di frequente e per le infrazioni più gravi era prevista la pena di morte. Un legionario riceveva un salario annuale di centoventicinque denari (cinquecento sesterzi) – cifra che aiuta a comprendere quanto fosse astronomico l’indebitamento di Cesare – una somma inferiore a quella che guadagnava mediamente un contadino, anche se presentava il vantaggio di essere un’entrata sicura e regolare. I cittadini più poveri vedevano l’esercito come una carriera alla loro portata o come la speranza in una vita migliore. Come avevano dimostrato Mario, Silla e Pompeo, un comandante generoso nella spartizione del bottino o che prometteva l’assegnazione di terre ai suoi veterani poteva conquistare la fedeltà assoluta dei suoi legionari. I centurioni venivano spesso trasferiti da una legione a un’altra, ma non sappiamo se lo stesso accadeva anche per i soldati semplici. I legionari erano soldati professionisti che prestavano servizio per molti anni, ma non disponiamo di dati precisi sul periodo di permanenza massimo che era consentito nell’esercito all’epoca di Cesare. Più tardi, Augusto fissò a sedici anni la durata del servizio, e in seguito la estese a venti, più altri cinque per i veterani, che erano esentati da alcuni doveri e dai compiti più faticosi. La legione era la casa di questi uomini, e nelle unità più affiatate si sviluppava un forte sintonia e l’orgoglio di appartenere al reparto. Ogni legione contava un certo numero di soldati con abilità tecniche che, a loro volta, avevano il compito di formare altri. Non c’erano unità speciali o coorti di ingegneri o artiglieri. Gli specialisti si separavano dalle loro coorti solo per il tempo necessario a costruire ponti o macchine d’assedio. La capacità ingegneristica dell’esercito romano di quel periodo era eccezionale.
I legionari erano soldati della fanteria pesante che combattevano in gruppo, ma ai tempi di Cesare il loro aspetto era piuttosto diverso da quello rappresentato nei film di Hollywood o nelle ricostruzioni di certi documentari televisivi. La famosa armatura a fasce o segmentata non era stata probabilmente ancora adottata, dato che il più antico frammento rinvenuto è databile al 9 d.C. (tuttavia, dato che prima di questo ritrovamento si supponeva che questo tipo di armatura fosse stato introdotto non prima della metà del I secolo d.C., è ipotizzabile che fosse già conosciuto ai tempi di Cesare). I legionari indossavano una cotta di maglia e un elmo di bronzo, o talvolta di ferro, che lasciava liberi gli occhi e le orecchie e copriva ampiamente le guance, dando al resto del volto una qualche protezione. Gli elmi chiusi come quelli impiegati nei secoli precedenti dagli eserciti greci offrivano maggiore sicurezza, ma un legionario doveva vedere e sentire bene per eseguire prontamente gli ordini. Il grande scudo semicilindrico, lo scutum, costituiva un’ottima arma di difesa. Era alto più di un metro, con uno spessore tra i sessanta e i settantacinque centimetri, e aveva probabilmente forma ovale, ma non è da escludere che fosse stato già adottato quello rettangolare del classico legionario hollywoodiano. È anche probabile, benché non ci siano prove, che sugli scudi fossero dipinte, o incise, le insegne distintive delle legioni. Gli scudi erano formati da tre strati di legno incollati, ricoperti di pelle di vitello, ed erano rinforzati lungo i bordi da un rivestimento in bronzo. Nonostante il suo peso di circa dieci chili, lo scudo era un’arma versatile che offriva un’ottima protezione. Era sorretto da un’unica impugnatura collocata dietro la borchia centrale esterna, e poteva essere usato anche in maniera offensiva per colpire il nemico.
Le armi principali del legionario erano il pilum (giavellotto) e il gladius (spada). Il pilum era un’asta di legno lunga un metro e venti centimetri, sormontata da una parte in ferro di sessanta-novanta centimetri, che terminava con una piccola punta piramidale. Quando veniva scagliato, tutto il peso dell’arma si concentrava nella punta, perforando lo scudo del nemico e permettendo alla lunga asta sottile di penetrare oltre per ferire o uccidere. Contrariamente a una credenza diffusa, il metallo non aveva la proprietà di piegarsi. Nel I secolo a.C. il gladius usato dai legionari romani era piuttosto corto, con una lama lunga circa sessanta centimetri. Tuttavia, all’epoca di Cesare, si utilizzava una lama più lunga, di almeno settantacinque centimetri, o talvolta anche più. Era una spada piuttosto pesante, fatta di acciaio di alta qualità, molto adatta sia a tagliare che a trafiggere. La sua punta larga era concepita per penetrare l’armatura e la carne. Oltre ad avere un buon equipaggiamento, i legionari erano anche addestrati alla lotta corpo a corpo, ma era nella disciplina e nella tattica che risiedeva la vera forza dell’esercito romano e la sua grande efficacia come collettivo16.
Nelle legioni c’erano anche truppe ausiliarie, dette auxilia, composte in genere da soldati stranieri, molti dei quali erano alleati reclutati sul posto. Cesare attinse molto dalle tribù della Gallia, soprattutto per aumentare i contingenti della cavalleria. Nella maggior parte dei casi, queste truppe erano comandate dai loro stessi capitribù, ma sembra che almeno alcuni dei Galli fossero impiegati in unità comandate da ufficiali romani, ed è possibile che venissero addestrati ed equipaggiati dall’esercito. Nel De bello civili, Cesare riferisce che nel 49 a.C. aveva in dotazione «tremila cavalieri, che erano stati al suo fianco anche in tutte le guerre precedenti». La fanteria ausiliaria contava cinquemila uomini, ma non è chiaro se li avesse in forza sin dal 58 a.C. Nessun gruppo viene specificamente menzionato durante la descrizione delle campagne galliche; poteva perciò trattarsi di alleati, mercenari o anche di soldati regolari (questi ultimi prefigurano i reggimenti permanenti di ausiliari che saranno caratteristici del periodo imperiale). Vi sono però alcuni riferimenti a unità speciali, come gli arcieri cretesi e numidi e i frombolieri delle Baleari. I Cretesi e i Balearici erano famosi per l’abilità nell’uso delle loro rispettive armi e furono utilizzati per secoli come mercenari da molti eserciti. I Numidi erano più famosi per la cavalleria leggera, ed è possibile che alcuni di essi fossero stati assoldati da Cesare. Grazie a un unico commento, sappiamo che nell’esercito c’era un contingente di cavalieri proveniente dalla Spagna. Mentre il numero di soldati variava di anno in anno, è probabile che quello delle forze ausiliarie fosse più stabile. In alcune occasioni, i contingenti alleati erano più numerosi, ma anche in quei casi le legioni continuavano ad essere la base dell’esercito romano17.
Nel 58 a.C. non si sapeva ancora quali campagne avrebbe intrapreso Cesare. Gli erano state assegnate la Gallia Cisalpina e l’Illiria, riunite in una provincia, a cui era stata aggiunta la Gallia Transalpina solo dopo la morte improvvisa del suo governatore. Forse l’intento originario di Cesare era di condurre una campagna nei Balcani per stroncare il crescente potere del re della Dacia, Burebista, che stava creando un potente impero nella Transilvania. La regione era ricca e poco esplorata dai Romani e l’impresa prometteva una maggiore gloria, poiché si trattava di un popolo fino ad allora mai affrontato. È possibile che Cesare avesse progettato di dirigersi là, ma gli eventi del 58 a.C. e degli anni successivi continuarono a fornirgli continue opportunità di conquiste militari in Gallia, e la spedizione nei Balcani non ebbe mai luogo. In ogni caso, quel progetto non fu mai accantonato. Quando, nel 44 a.C., fu assassinato, stava preparando una campagna in Dacia18.
Nel I secolo a.C., la Gallia si estendeva dal Reno fino alla costa atlantica, e comprendeva l’attuale Francia, il Belgio e parte dell’Olanda. La Gallia non poteva in alcun modo considerarsi una nazione. All’inizio del De bello Gallico Cesare riferisce che la sua popolazione era divisa in tre gruppi etnici e linguistici. Il Sud-Est, al confine con i Pirenei, era occupato dagli Aquitani, che egli riteneva molto simili agli Iberi. Nel Nord, e in particolare nel Nord-Est, c’erano i Belgi, mentre al centro della Gallia erano stanziati i popoli che i Romani chiamavano Galli, che nella propria lingua si chiamavano Celti. A loro volta, questi gruppi si suddividevano in numerose tribù che, nonostante condividessero la stessa lingua e cultura, spesso erano ostili tra loro. L’unità politica di base era il clan (pagus), il cui insieme formava una tribù (civitas; nessuna parola della nostra lingua risulta del tutto adeguata: alcuni studiosi preferiscono parlare di «stato» invece che di «tribù», ma in realtà nessuno ha finora suggerito un termine migliore). Sembra che l’importanza delle tribù fosse notevolmente aumentata nel corso del secolo precedente l’arrivo di Cesare in Gallia e alcuni studiosi ritengono che la loro formazione fosse avvenuta in tempi relativamente recenti. È più probabile che alcuni cambiamenti del contesto politico ed economico della Gallia diedero semplicemente nuova importanza a vincoli flessibili di parentela e a rituali che già esistevano da parecchio tempo. Nonostante ciò, i clan all’interno di una stessa tribù avevano uno scarso livello di coesione, e in vari casi, durante le guerre in Gallia, i pagi agirono separatamente e in modo indipendente tra loro. Alcune tribù – e forse anche qualche clan – avevano un re, ma sembra che la maggior parte fosse governata da un consiglio o senato, mentre le funzioni direttive venivano affidate a magistrati eletti. Gli Edui, i più antichi alleati di Roma, avevano un magistrato supremo chiamato «vergobreto», che rivestiva la carica per un solo anno e non poteva essere eletto una seconda volta; inoltre, finché era in vita, nessun altro membro della sua famiglia poteva ricoprire la stessa carica. La somiglianza con gli ideali del sistema repubblicano di Roma è impressionante. Sotto molti aspetti, le tribù della Gallia ricordavano le città-stato mediterranee nello stadio precedente il loro pieno sviluppo19.
È ancora acceso il dibattito per tentare di stabilire fino a che punto i Galli e le popolazioni di lingua celtica potessero considerarsi parte di un unico popolo che condivideva stesse cultura e usanze, ma questo problema esula dalla tematica del presente libro. Cesare segnala sia similitudini che differenze tra le diverse tribù, ma mantiene una netta distinzione tra popolazioni galliche e popolazioni germaniche e indica il fiume Reno come la linea divisoria tra le due etnie; ammette anche, però, che talvolta il quadro non era così chiaro e che alcuni gruppi germanici si erano stanziati nelle terre a ovest del fiume. Gli scavi archeologici non hanno confermato una distinzione così netta tra i due gruppi. Al contrario, sono emerse forti similitudini negli insediamenti abitativi e nella cultura materiale – ceramica, metallo ecc. – della Gallia e della Germania centrale. Maggiori differenze si sono riscontrate tra le regioni centro-meridionali e quelle settentrionali della Germania dove sono stati ritrovati pochi insediamenti fortificati di dimensioni significative. Tuttavia sarebbe un errore rigettare la testimonianza di Cesare e degli altri storici antichi, perché l’archeologia è uno strumento poco adatto a ricostruire le frontiere etniche e politiche tra i popoli. Le lingue germaniche e celtiche erano differenti, e ciascuna di esse, a sua volta, contava al proprio interno moltissimi dialetti e varianti locali. Alcune tribù di lingua germanica probabilmente vivevano in insediamenti di dimensioni e caratteristiche paragonabili a quelle di alcune popolazioni galliche, e costruivano oggetti di forma e stile simile, ma ciò non significa che gli uni percepissero gli altri come popolazioni affini e non come stranieri. È molto più probabile, invece, che il sentimento di appartenenza a una stessa comunità si fosse sviluppato tra popolazioni che da molto tempo vivevano nella stessa area, parlavano la stessa lingua, adoravano le stesse divinità e praticavano riti simili, anche se tutto questo non era sufficiente a impedire ostilità tra tribù dello stesso gruppo etnico, né escludeva che potessero intrattenersi relazioni di amicizia con un popolo più «straniero». In ogni caso, né i Galli né i Germani si consideravano una nazione, e il senso di appartenenza e la lealtà erano vissuti nell’ambito più ristretto della tribù o del clan e, al suo interno, nella famiglia, nel vicinato o nel capo20.
La lunga storia delle relazioni tra le tribù galliche e i popoli dell’area mediterranea era stata spesso segnata da conflitti. Alcune tribù di Galli avevano saccheggiato Roma nel 390 a.C., mentre altre avevano invaso e occupato la Valle del Po, provocando una serie di guerre che terminarono all’inizio del II secolo a.C., con l’assoggettamento e l’assimilazione culturale dei vinti. Intorno al 125 a.C., i Romani intrapresero la conquista della Gallia Transalpina per creare un collegamento terrestre stabile con la provincia della Spagna. Uno dei proconsoli che partecipò a questa campagna fu Gneo Domizio Enobarbo, antenato dell’imperatore Nerone. Secondo la testimonianza di un suo contemporaneo, aveva «una faccia di ferro e un cuore di piombo», e impressionò i suoi nemici quando apparve in sella a un elefante. Il suo lascito più duraturo fu la Via Domizia, la grande strada che collegava la Gallia Transalpina con la Spagna. La Gallia fu teatro di numerosi scontri durante la migrazione dei Cimbri e dei Teutoni, ma non furono più pianificate nuove conquiste prima dell’arrivo di Cesare. Furono consolidati i confini con la costruzione di un avamposto fortificato. Nel 118 a.C. venne fondata una colonia a Narbona, che divenne più tardi un importante centro commerciale, quando i beni prodotti dai grandi latifundia dell’Italia iniziarono a invadere il mercato d’oltralpe. Il principale prodotto esportato era il vino, di cui conosciamo le rotte commerciali grazie alla scoperta dei frammenti delle anfore usate per il suo trasporto. La quantità immessa nel mercato era impressionante. Uno studioso ha stimato che durante il I secolo a.C. furono vendute approssimativamente quaranta milioni di anfore di vino nella sola Gallia, cifra che è forse persino inferiore a quella reale. Ogni anfora misurava circa un metro d’altezza e aveva una capacità tra i quindici e i venti litri. Le principali rotte commerciali passavano lungo le valli del Rodano e della Saona, o attraverso la costa atlantica risalendo i fiumi Aude e Garonna. In cambio del vino e di altri beni di lusso, i mercanti ricevevano materie prime, incluso stagno proveniente dal Sud-Est della Britannia, e soprattutto schiavi. Una fonte sostiene che un capo gallico cedette uno schiavo in cambio di una sola anfora di vino. Forse si trattò di un anfitrione che volle far sfoggio di ricchezza e potere davanti al suo ospite, offrendogli un dono molto superiore al valore del regalo ricevuto. Comunque sia, l’episodio esemplifica bene quale fosse l’importanza del vino per l’aristocrazia gallica. Si ritiene che parte di questo mercato fosse gestito da intermediari locali, ma la presenza di mercanti romani era comune in vaste aree della Gallia. In quell’epoca si aprirono ai Romani grandi opportunità per il commercio. Uomini d’affari intraprendenti si spinsero in territori in cui l’esercito romano non aveva mai messo piede. All’inizio del I secolo a.C., in una zona nel Norico sorse un insediamento di commercianti romani, che avevano creato un piccolo foro al di fuori delle mura di una città locale21.
Il commercio con i Romani aumentò la tendenza all’accentramento di molte tribù galliche. Tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. si moltiplicarono le città fortificate, chiamate da Cesare con il termine piuttosto vago di oppida. Molte tribù iniziarono a coniare monete di peso e dimensioni standard, sul modello di quelle ellenistiche, il che dimostra quanto si fossero ampliate le rotte commerciali. Alcuni siti mostrano tracce di attività manifatturiere su vasta scala e di agglomerati urbani ben organizzati. Entremont, una città collinare distrutta dai Romani intorno al 124 a.C. nel corso della guerra per la conquista della Gallia Transalpina, era costruita in pietra sul modello greco. Tuttavia, l’influenza culturale esterna non era soverchiante, giacché un tempio che ricalcava lo stile ellenistico era dotato di nicchie scavate nei muri, dove venivano appese le teste dei nemici. Le comunità stanziate lungo le principali rotte commerciali erano le più avvantaggiate e contavano il maggior numero di abitanti. Gli insediamenti degli Arverni erano situati lungo la rotta commerciale dell’Ovest, mentre Edui e Sequani si contendevano il controllo delle valli del Rodano e della Saona. La più importante città degli Edui, Bibracte (oggi Mont Beuvray), si estendeva su un’area di centotrentacinque ettari ed era fortificata da una cinta muraria. Gli scavi hanno rivelato la presenza nella città di una grande quantità di anfore di vino. Centri come questo tendevano ad attirare molte tribù, ma non arrivarono mai a conquistare un ruolo centrale come quello delle città greche. I capi che controllavano le zone rurali continuavano a mantenere il potere di comandare le proprie tribù22.
In definitiva, era l’aristocrazia che governava, in maniera più o meno incisiva, le tribù della Gallia. Cesare riteneva che i Galli fossero completamente soggiogati dai loro capi e li considerava poco più che schiavi. Divise la nobiltà in cavalieri (equites) e sacerdoti, conosciuti come druidi. Non si trattava di due caste separate, dato che all’interno di una stessa famiglia potevano esserci sia druidi che cavalieri. I druidi non erano guerrieri, ma erano potenti perché esperti in materia di religione, leggi e usanze tribali. Cesare riferisce che non annotavano nessuna delle loro conoscenze, poiché ritenevano che la parola scritta avrebbe indebolito la potenza della loro memoria e ridotto la loro autorità. Di conseguenza, sappiamo assai poco delle loro credenze religiose (un’assenza di conoscenze che, nel corso dei secoli, ha lasciato ampio spazio a una serie di invenzioni suggestive). I filosofi greci dell’epoca consideravano i druidi dei lontani antenati degli stoici. Secondo Cesare, la loro fede nell’immortalità dell’anima aiutava i guerrieri a non temere la morte in battaglia. Una volta all’anno, i druidi provenienti da gran parte della Gallia si riunivano in un santuario situato nel territorio dei Carnuti, ma ciò non favoriva, se non in modo limitato, un avvicinamento politico tra le varie tribù. I druidi presiedevano i riti religiosi e avevano l’autorità di escludere chiunque dal parteciparvi. Le offerte agli dèi erano di vari tipi, ma Cesare e le altre fonti antiche affermano categoricamente che i Galli, in certe occasioni, praticavano sacrifici umani. Cesare, in particolare, parla di grandi simulacri intrecciati di vimini nei quali introducevano uomini – di solito venivano scelti criminali o nemici ma, se questi mancavano, altri erano costretti a prendere il loro posto –, che venivano arsi vivi. Alcuni studiosi hanno manifestato delle perplessità su notizie di questo tipo, considerandole invenzioni propagandistiche dei Greci e dei Romani. Non dobbiamo però dimenticare che gli stessi Romani avevano sacrificato vittime umane agli dèi, quando i Cimbri e i Teutoni minacciavano l’Italia, e che solo nel 97 a.C. il senato aveva dichiarato illegale questa pratica. La società romana si divertiva a vedere morire uomini durante i giochi nelle arene, però rifiutava l’idea che si potesse uccidere durante un rituale religioso. Le ricerche archeologiche non hanno provato in modo incontrovertibile che i sacrifici umani fossero comunemente praticati nelle tribù galliche, sebbene la diffusione di tale usanza sia chiaramente attestata presso le popolazioni germaniche e britanniche. Tuttavia, è certo che durante alcuni rituali i Galli utilizzavano parti del corpo umano, ma nella maggioranza dei casi è impossibile stabilire se provenivano da uccisioni rituali. L’usanza di staccare le teste al nemico era comunemente praticata dai guerrieri gallici, come forse da molti altri popoli dell’Europa del Nord. Nel santuario di Entremont e in un altro simile nelle vicinanze di Roquepertuse, ci sono raffigurazioni di tale pratica23. Secondo Strabone:
Al ritorno dalla battaglia, attaccavano al collo dei cavalli le teste dei nemici e le appendevano come ornamento davanti all’ingresso delle loro case. Posidonio dice di aver visto in più luoghi tale spettacolo, e che sulle prime lo trovò ripugnante, ma poi, grazie alla forza dell’abitudine, riuscì a sopportarlo più facilmente. Mostravano agli stranieri le teste di nemici illustri imbalsamate con la resina di cedro, e non erano disposti a restituirle neppure a peso d’oro24.
Posidonio era un filosofo greco che viaggiò nel Sud della Gallia all’inizio del I secolo a.C., raccogliendo materiale per uno studio etnografico. Più tardi, si stabilì a Roma, dove probabilmente Cesare lo conobbe. Una moneta gallica della metà del I secolo a.C. ritrae un guerriero che sorregge con una mano una testa mozzata. Gli archeologi hanno inoltre scoperto a Ribemont-sur-Ancre un macabro trofeo, composto dai cadaveri di molti guerrieri armati e di alcuni cavalli, fissati a una struttura di legno in modo da rimanere in posizione eretta. Tutti erano privi della testa, ma non sappiamo con certezza se si trattasse di nemici decapitati o di una forma di offerta sacrificale. Cesare racconta che i Galli offrivano spesso in dono agli dèi il bottino di guerra, e lo ammucchiavano in cumuli visibili in molte zone del territorio. Nessuno però osava rubarlo, perché i Galli avevano un profondo rispetto per i riti religiosi. Sostiene anche che, prima del suo arrivo, le tribù andavano in guerra «quasi tutti gli anni, sia per attaccare che per difendersi». Strabone definisce i Galli una razza con la «passione per la guerra», comandata da un’aristocrazia di cavalieri. Lo status di un uomo si basava sul numero di guerrieri che manteneva a proprie spese e che erano legati a lui da un giuramento solenne. La forza e la fama del suo seguito costituivano un deterrente per chiunque, all’interno o all’esterno della tribù, fosse intenzionato ad attaccarli o minacciasse le comunità alleate che erano sotto la sua protezione25.
Le attività belliche dei Galli erano perlopiù incursioni e razzie, ma talvolta i conflitti tra le tribù potevano assumere proporzioni maggiori, come nel caso della guerra tra gli Edui e i Sequani per il controllo della rotta commerciale cha attraversava le valli del Rodano e della Saona. È poco probabile che sia stato l’intensificarsi dei rapporti commerciali con l’area mediterranea a trasformare i Galli in guerrafondai, ma senza dubbio si trattò di un fattore che provocò un’escalation dei conflitti. I prodotti importati in Gallia erano destinati essenzialmente agli aristocratici. Il vino svolgeva un ruolo di primaria importanza nei banchetti organizzati da capi e guerrieri. Gli articoli di lusso erano indice di un elevato status sociale e potevano essere usati come preziosi regali per ricompensare i propri seguaci. Le tribù che controllavano i territori attraversati dalle rotte commerciali avevano un accesso più facile a tali beni e potevano imporre pedaggi sul transito. L’aristocrazia ne traeva il maggiore vantaggio, procurandosi i fondi con cui mantenere gruppi sempre più numerosi di guerrieri. I leader tribali, oltre ad essere ricchi, dovevano godere di un’altissima reputazione militare per poter sperare di attirare i guerrieri più valorosi e mantenerli al proprio servizio. Le incursioni vittoriose erano uno dei modi migliori per accrescere il prestigio del capo, così come la conquista di un ricco bottino da distribuire ai seguaci per assicurarsi la loro lealtà. I capi e intere tribù erano disposti a usare la forza per controllare le rotte commerciali. Inoltre, la necessità di reperire schiavi, che, a quanto pare, venivano scambiati senza difficoltà con il vino, incentivava le razzie, durante le quali potevano essere catturati dei prigionieri. Un aristocratico con un forte seguito di guerrieri attaccava spesso le altre tribù nemiche, ma poteva anche essere tentato di conquistare un potere assoluto all’interno della sua tribù. In molte regioni centrali della Gallia i re non esistevano più, e anche in altre zone i loro poteri erano limitati, ma il sogno di diventare un monarca o un tiranno restava allettante per i leader più potenti, dato che le istituzioni della tribù, i magistrati e il consiglio senatorio non erano realmente in grado di controllarli26.
In confronto alle legioni romane, gli eserciti dei Galli erano piuttosto impacciati. Raramente possedevano capacità logistiche tali da poter sostenere una lunga campagna, ed erano difficili da gestire per il loro comandante. Presi singolarmente, i guerrieri erano coraggiosi ma, fatta eccezione per i corpi scelti al seguito dei grandi leader, raramente venivano addestrati collettivamente, poiché si tendeva a dare maggiore importanza alle prodezze dei singoli. I guerrieri semiprofessionisti al seguito di capi potenti erano relativamente pochi, e potevano bastare per un’incursione, ma non erano che un piccolo reparto all’interno dell’esercito della tribù, composto, in gran parte, da chiunque fosse in grado di procurarsi un’arma. Forse i Romani copiarono da modelli gallici la cotta di maglia e il loro elmo più caratteristico, ma certamente erano in grado di produrne quantità assai maggiori. Ogni legionario possedeva spada, scudo, corazza ed elmo, mentre è probabile che, tra i Galli, solo i più ricchi e i guerrieri semiprofessionisti avessero un equipaggiamento così completo. La stragrande maggioranza dei guerrieri combatteva solo con la protezione di uno scudo. Le spade, abbastanza comuni, erano più larghe di quelle romane – che erano ricalcate sullo stile di quelle spagnole – e più adatte a tagliare che per trafiggere. La maggioranza delle tribù allevava cavalli da monta di taglia più piccola rispetto a quelli attuali, ma di buona qualità. La cavalleria gallica era famosa e, più tardi, l’esercito romano ne copiò alcuni aspetti relativi all’equipaggiamento e addestramento, e mutuò anche una parte della sua terminologia. Tuttavia, benché fosse molto efficace nella carica, la cavalleria delle tribù era composta dai guerrieri più ricchi, che erano restii a svolgere altri compiti importanti come il pattugliamento27.
Quando Cesare arrivò in Gallia, la situazione era instabile. La provincia romana della Gallia Transalpina soffriva ancora le conseguenze della ribellione degli Allobrogi, che non avevano ricevuto nessuna ricompensa per l’aiuto fornito a Cicerone nel 63 a.C., e non avevano trovato altre alternative che la rivolta. La ribellione era stata repressa nel 63 a.C., ma il conflitto in corso tra gli Edui e i Sequani era un problema più grave, perché minacciava la sicurezza della provincia, mettendo a repentaglio la prosecuzione delle attività commerciali. Entrambe le tribù erano alleate di Roma, ma avevano cercato sostegno anche altrove per vincere la guerra. Intorno al 71 a.C., i Sequani avevano rivolto un appello al re germanico Ariovisto, chiedendogli di inviare i suoi guerrieri in loro aiuto. Dieci anni dopo, Ariovisto inflisse una severa sconfitta agli Edui, i cui nobili, in buona parte, caddero in battaglia. In cambio della vittoria, il re germanico ottenne delle terre da assegnare ai suoi guerrieri. Poco più tardi, gli Edui furono attaccati dagli Elvezi, provenienti dall’odierna Svizzera. All’incirca nello stesso periodo, Diviziaco, un druido che aveva rivestito la carica di vergobreto, si recò a Roma per chiedere aiuto. Il senato inviò una delegazione nella regione, ma non intraprese altre iniziative. Nel 59 a.C., durante il consolato di Cesare, Ariovisto fu riconosciuto re e «amico del popolo romano». Per il momento, questa mossa diplomatica aveva reso stabili le frontiere della Gallia Transalpina, ma è importante sottolineare che Cesare si inserì in un contesto politico in continua evoluzione. Gli equilibri di potere tra le diverse tribù, o all’interno di esse, cambiavano di continuo. Sarebbe errato considerare i Galli mere vittime e spettatori passivi dell’imperialismo romano. Senza dubbio, però, le tribù erano divise e in conflitto tra di loro, e Cesare sfruttò spietatamente questa debolezza28.