«Solo allora Titurio, che nulla aveva previsto, cominciò ad agitarsi, a correre qua e là, a disporre le coorti, ma sempre impaurito: sembrava che tutto gli venisse a mancare, come perlopiù accade a chi è costretto a decidere proprio mentre l’azione è in corso. Cotta, invece, che aveva pensato all’eventualità di un attacco durante la marcia e che, perciò, non era stato fautore della partenza, non risparmiò nulla per la salvezza di tutti e, chiamando e incoraggiando i legionari, durante la battaglia, svolgeva le funzioni di comandante e di soldato».
cesare1
Mentre Cesare era in Britannia, nell’agosto del 54 a.C., sua figlia Giulia morì durante il parto, e il neonato – secondo alcune fonti un bambino, secondo altre una bambina – visse solo pochi giorni. L’aristocrazia romana, come d’altronde quasi tutta l’umanità fino all’età moderna, considerava molto comune questo tipo di morte. Giulia era già rimasta incinta in precedenza, ma aveva subito un aborto spontaneo, sconvolta, a quanto pare, dalla vista del marito tornato dalle elezioni ricoperto di sangue (altrui, come si rivelò in seguito). Si può supporre che avesse una ventina d’anni quando morì, dal momento che non si conosce la sua data di nascita. Anche la madre di Cesare, Aurelia, morì nel 54 a.C. Le cause non sono note, ma a quell’epoca doveva avere circa sessant’anni ed era vedova da tre decenni. In un anno Cesare perse i due membri della famiglia che gli erano più vicini. Alla madre, che presiedeva anche le celebrazioni della Bona Dea nella sua casa, aveva dichiarato che non sarebbe tornato fino a quando non avesse raggiunto il titolo di pontifex maximus. Fu una donna formidabile, che ebbe una grande influenza sul suo unico figlio e visse abbastanza a lungo per condividere alcuni dei suoi grandi successi. Ora era scomparsa. La notizia di entrambe le morti giunse a Cesare per via epistolare. Non c’è alcuna testimonianza che egli avesse visto sua madre e sua figlia durante i quattro anni in cui fu assente da Roma. Furono dei momenti difficili, soprattutto per la perdita della figlia. Cicerone – che pure era molto legato, forse fin troppo, a sua figlia Tullia, e fu straziato dal dolore quando morì, qualche anno dopo – gli scrisse una toccante lettera di condoglianze. In circostanze simili non c’erano finalità politiche dietro gesti come questo, solo cordoglio e sentimenti sinceri. Anche Pompeo rimase profondamente addolorato dalla morte della sua giovane moglie. La coppia era stata molto affiatata nonostante la notevole differenza di età e l’origine politica della loro unione. Negli ultimi anni Pompeo era stato spesso criticato a causa del tempo che trascorreva con la moglie nelle sue grandi tenute, dedito al piacere e trascurando gli affari della repubblica. Plutarco afferma che non svolse alcun dovere mentre fu sposato con Giulia2.
A prescindere dai sentimenti del padre e del marito dopo la morte di Giulia, gli interessi di un senatore riguardo alla vita pubblica non venivano mai trascurati. Pompeo dispose che le ceneri dell’amata venissero sepolte in una delle sue tenute di Albano, vicino Roma ma, dopo la cerimonia pubblica nella capitale, la grande folla di spettatori portò le spoglie nel Campo Marzio e le cremò. Pare che tale mobilitazione dipese più dall’affetto che il popolo provava per Giulia, che dalla solidarietà nei confronti di Cesare e Pompeo, ma è difficile stabilire se fosse stata un’azione sincera o solo una messinscena. In seguito le fu dedicato un monumento che rimase visibile per secoli. Cesare annunciò che avrebbe organizzato dei giochi funebri in suo onore, ma ci vollero più di dieci anni, prima che venissero effettivamente realizzati. La morte di Giulia annullò lo strettissimo legame tra Pompeo e Cesare, e nei mesi successivi Cesare dovette cercare un’altra parente che potesse rinnovare l’alleanza matrimoniale. Propose a Pompeo di sposare sua nipote Ottavia, mentre lui, a sua volta, si sarebbe unito a Pompea, la figlia di Pompeo. Per instaurare tali unioni, Cesare, Ottavia e Pompea avrebbero dovuto divorziare dai rispettivi consorti (la figlia di Pompeo era sposata con Fausto, figlio di Silla). Pompeo rifiutò l’idea e non si mostrò disposto a risposarsi subito, nella speranza, forse, di poter approfittare di una situazione più vantaggiosa. Nonostante l’importanza degli interessi politici per un senatore romano, è possibile che anche i sentimenti abbiano influito su questa decisione. L’amore per Giulia era stato profondo e il dolore di Pompeo era grande e sincero.
Il legame tra Cesare e Pompeo si era indebolito, ma non spezzato, ed entrambi capirono che sarebbe convenuto rimanere alleati. Dal 54 a.C. tutti e tre i triumviri erano proconsoli, e quindi impossibilitati a tornare a Roma senza aver prima abbandonato la propria carica. Nel 55 a.C., durante il loro consolato, Pompeo e Crasso avevano steso con il tribuno Trebonio una proposta legge che garantisse loro un potere quinquennale nelle province allargate, molto simile a quello ricevuto da Cesare nel 59 a.C. A Pompeo vennero assegnate le due province spagnole, nelle quali sarebbe stato possibile guidare una campagna militare per estendere il dominio romano verso nord e verso le coste atlantiche, ma il proconsole cinquantunenne non era intenzionato a condurre nuove guerre, soprattutto mentre Giulia era ancora viva. Aveva già trionfato tre volte e credeva che nessun altro comandante avrebbe eguagliato la sua gloria, perciò inviò dei legati alla guida delle province e delle relative legioni, mentre lui rimase in Italia, risiedendo nei dintorni di Roma in una delle sue lussuose ville. Pompeo rimase l’addetto al rifornimento di grano e ciò si trasformò in una scusa per giustificare la sua condotta poco ortodossa, dal momento che nessun governatore romano si era mai comportato in quel modo3.
La posizione di Crasso era differente. Aveva combattuto in maniera egregia per Silla, ma riteneva di non aver ricevuto i giusti meriti per le sue gesta. La sconfitta di Spartaco, dopo la serie di umilianti disfatte romane, era stata un’azione considerevole, nella quale aveva dimostrato di essere un comandante valoroso. Eppure, una volta conclusa, la battaglia combattuta contro gli schiavi venne sminuita e il pericolo dimenticato con facilità. Nel 55 a.C. volle assumere una carica di rilievo e fu mandato in Siria. Il governatore di quella provincia aveva appena terminato una campagna in Egitto, quando Crasso prese il suo posto, privandolo di una sicura opportunità di gloria e profitto. Pianificò l’invasione della Partia, il grande regno che si estendeva oltre l’Armenia. Anche considerando le aspirazioni espansionistiche romane, non esisteva alcun motivo valido per attaccare i Parti. Sia Pompeo nelle sue campagne orientali, sia Cesare in Gallia, si erano spinti al limite dell’interpretazione di ciò che era giusto fare per gli interessi di Roma, ma non l’avevano mai oltrepassato combattendo guerre per motivi meramente personali. L’ambizione di Crasso, invece, era in palese contrasto con i bisogni della repubblica. Appena la voce dei suoi piani si diffuse, due tribuni protestarono apertamente, e uno dei due arrivò al punto di pedinare i rappresentanti di Crasso quando partì nel novembre del 55 a.C., maledicendolo per le sue intenzioni di coinvolgere la repubblica in una guerra inutile e ingiusta. Come osservato aspramente da Cicerone, tale spedizione non ebbe un avvio convincente e presentava numerose incongruenze.
Crasso aveva quasi sessant’anni, un’età poco idonea per un comandante romano; inoltre non era attivo su un campo di battaglia da sedici anni. In passato, uomini anziani erano stati richiamati per servire la repubblica in qualità di generali, ma ciò, di solito, accadeva esclusivamente durante i momenti di crisi. In questo caso non c’era alcuna minaccia imminente su Roma, e la condotta guerrafondaia di Crasso sembrava lenta e priva d’ispirazione. Nel 54 a.C. passò la maggior parte dell’anno in Siria, imponendo tributi per finanziare l’invasione programmata e, secondo voci maliziose, per incrementare la propria ricchezza. La prospettiva di una campagna redditizia era stata chiaramente uno dei motivi principali per i quali Crasso aveva desiderato il comando, ma c’era anche un elemento di equilibrio da considerare, dal momento che sia Cesare che Pompeo avevano province e legioni da controllare, e il terzo triumviro aveva bisogno di una carica importante per competere con loro ed evitare di trovarsi in una posizione di svantaggio. Crasso, infatti, sotto molti punti di vista aveva già raggiunto i suoi principali obiettivi – il prestigio, due consolati, una ricchezza immensa, una grande influenza e, come dimostrato dai dibattiti di Catilina, la libertà assoluta dagli attacchi politici e dalla persecuzione – ed è facile supporre che la rivalità con i suoi alleati politici sia stato il vero motivo per il quale volle un comando militare. Lui e Pompeo erano stati invidiosi l’uno dell’altro da quando entrambi erano stati al servizio di Silla, e Crasso non aveva mai tollerato la fama di cui aveva goduto il suo alleato. Ora che anche Cesare si stava dimostrando un grande generale, Crasso, il più anziano dei triumviri, non aveva alcuna intenzione di passare in secondo piano4.
Dal 54 a.C., dopo aver lasciato Roma, i triumviri si affidarono a un gran numero di rappresentanti che facevano le loro veci, perché, pur detenendo il potere, non potevano tenere tutto sotto controllo come in passato. Nello stesso anno, Lucio Domizio Enobarbo divenne console insieme ad Appio Claudio Pulcro, fratello maggiore di Clodio, mentre Catone fu nominato pretore. Entrambi i consoli si lamentarono perché non avevano la possibilità di assegnare cariche nemmeno riguardo a settori di minore importanza come quello dei tribuni militari. I triumviri comandavano oltre venti legioni, la schiacciante maggioranza dell’esercito romano esistente all’epoca. Appio viaggiò verso nord per far visita a Cesare nella Gallia Cisalpina e per assicurarsi la nomina a tribuno di uno dei suoi clienti. Pompeo viveva vicino Roma e non aveva validi motivi per assentarsi con regolarità alle sedute del senato, sebbene non fosse mai stato un oratore particolarmente dotato. L’influenza di Crasso fu esigua quando si allontanò dalla capitale, dal momento che non era mai riuscito ad avere una risonanza pubblica o a circondarsi di sostenitori elargendo favori. Cesare, invece, era più avvezzo ai problemi che la lontananza dall’Italia comportava per tutelare i propri interessi a Roma. I suoi rappresentanti, in particolar modo Balbo, furono molto attivi, e dalle lettere di Cicerone è possibile intuire la portata del flusso di corrispondenza che intercorse tra il quartier generale di Cesare e i suoi delegati romani. Il fratello dell’oratore, Quinto, era stato uno dei legati di Pompeo addetto alla supervisione del rifornimento di grano nella capitale, e poi, nel 54 a.C., divenne un legato di Cesare e lo seguì in Gallia. Tale fiducia testimoniava la considerazione che entrambi gli uomini avevano nei suoi riguardi. Cicerone, invece, era restio a lasciare Roma, dove la sua presenza era decisamente più utile per i triumviri. Così Quinto fu costretto, in un certo senso, a sacrificarsi per l’onore della famiglia. Nelle lettere al fratello, Cicerone cerca di avere costantemente notizie riguardo all’umore di Cesare e alla sua disposizione nei loro confronti. Accenna anche all’invio di componimenti poetici e letterari per avere il parere del proconsole. La maggior parte di queste comunicazioni, pur non essendo di natura prettamente politica, contribuì implicitamente a intensificare il loro legame. Sappiamo che durante la seconda spedizione in Britannia Cesare inviò a Roma almeno tre lettere destinate a Cicerone5.
Esistono anche numerose lettere scritte da Cicerone a uno dei suoi clienti, Gaio Trebazio Testa, che, su richiesta dell’oratore, ricevette un incarico nello stato maggiore di Cesare. Il ragazzo, che era già intento a perseguire la carriera forense, sarebbe poi diventato un celebre giurista. Esiste ancora l’originale lettera di raccomandazione inviata a Cesare, che assecondò la richiesta e favorì la nomina. Cicerone in seguito raccontò a Quinto di come Cesare «mi ha ringraziato in maniera acuta e gentile. Afferma che in tutto il suo seguito non c’è neanche una persona capace di redigere correttamente un documento di garanzia». Cicerone era riuscito a far diventare tribuno militare un altro suo cliente, ma a Trebazio non fu assegnata una carica simile, si occupò solo di questioni amministrative e legali. Tale incarico non lo entusiasmò e contribuì a rendergli più penosa la lontananza dalla capitale. Nell’agosto del 54 a.C. Cicerone gli scrisse per informarlo che Cesare gli aveva inviato una lettera «molto educata», nella quale si scusava per non aver ancora avuto l’occasione di conoscere Trebazio, ma che avrebbe provveduto il prima possibile. L’oratore, inoltre, gli scrisse che aveva fatto pressioni sul proconsole per favorirlo ulteriormente. In questa e altre lettere traspare la frustrazione derivante dall’impazienza e dalla mancanza d’iniziativa del suo cliente. Il prestigio di un uomo si incrinava se le sue raccomandazioni si rivelavano manchevoli e, sebbene Cesare fosse disposto ad assecondare le richieste di Cicerone per farlo sentire in obbligo nei suoi confronti, l’oratore fu comunque abile nel gestire una relazione tanto impari. Ciò che più colpisce è il fatto che entrambi gli uomini fossero in contatto e discutessero delle normali preoccupazioni dei senatori romani anche mentre Cesare era impegnato nelle campagne militari. La maggior parte delle loro lettere è andata perduta, nonostante fossero state anche pubblicate; ad ogni modo, si può desumere che Cesare abbia avuto simili e intensi scambi epistolari anche con numerosi altri senatori6.
Anche se Cesare non aveva mai trascurato le questioni politiche, nei mesi successivi ebbe poco tempo per fare qualche pausa dal servizio attivo. Una volta tornato dalla Britannia, convocò tutti i capi delle tribù galliche e gestì le manovre dell’esercito negli alloggiamenti invernali. Il raccolto era stato scarso e Cesare lo attribuì all’estate particolarmente secca, ma è anche probabile che le campagne militari degli anni precedenti avessero compromesso seriamente le coltivazioni di molte regioni. Ne conseguì che le sue otto legioni dovettero accamparsi in zone separate, sparpagliandosi su un’area molto vasta. La maggior parte si stabilì presso le tribù belgiche, la cui promessa di stipulare nuove alleanze con Roma rimaneva dubbia. Gli altri anni Cesare soleva trasferirsi nella Gallia Cisalpina molto presto, ma questa volta posticipò la sua partenza per accertarsi che l’esercito fosse al sicuro. Ogni legione fu affidata al comando di un legato o di un questore, tra i quali ci fu Marco, il figlio maggiore di Crasso. Uno dei nuovi legati fu anche lo stesso Trebonio che nel 55 a.C. aveva reso possibile il comando quinquennale di Pompeo e Crasso, e una dilazione simile per quello di Cesare (vedi pp. 306-307). Ad ogni ufficiale venne ordinato di inviare un rapporto una volta raggiunta la propria posizione e fortificato il relativo accampamento. A Quinto Cicerone fu permesso di scegliere dove accamparsi con la sua legione, ed è probabile che anche ad altri legati venne data una simile libertà d’azione. Mentre erano in corso tali operazioni, Cesare fu informato delle insurrezioni che si stavano diffondendo in alcune tribù. Fu costretto a cambiare i suoi piani e fece spostare una legione già stanziata tra i Belgi presso la tribù dei Carnuti, il cui re che lui aveva imposto era stato ucciso dagli altri capi7.
L’arrivo di Cesare in Gallia aveva avvantaggiato alcuni capi, ma di contro ne aveva infastidito altri restii ad accettare il potere concesso ai propri rivali. L’uccisione sommaria di Dumnorige aveva dimostrato a questi uomini la determinazione di Cesare nel disfarsi di chiunque non avesse obbedito ai suoi ordini. Il dominio romano, tuttavia, non aveva posto fine alle violente competizioni per il potere tra gli aristocratici delle tribù, e quelli che non beneficiarono dell’appoggio di Cesare gli si opposero, sperando di raccogliere consensi e potere presso le proprie genti. Nell’estate del 54 a.C., prima di partire per la Britannia, il proconsole era intervenuto in una disputa tra i capi rivali dei Treveri. L’uomo che si piegò al volere romano fu Induziomaro, che si rappacificò con Cesare consegnandogli oltre duecento ostaggi. Il capo trevero scorse l’opportunità di colpire i Romani quell’inverno in cui il loro esercito era diviso e quindi vulnerabile. Progettò di radunare tutti i Treveri a lui fedeli e di attaccare la legione guidata da Labieno, che si era accampata sui territori della tribù. Tuttavia, consapevole che i Treveri da soli non sarebbero riusciti a sconfiggere Cesare, incitò i capi delle tribù vicine, che non tolleravano la presenza romana, a unirsi a lui nella ribellione. Non fu una rivolta ben coordinata e condotta da un’unica guida, bensì una serie di attacchi separati e quasi simultanei che si alimentavano a vicenda grazie alla divisione delle forze romane. Il primo attacco non fu sferrato dai Treveri e da Induziomaro, ma dagli Eburoni che vivevano nell’odierna regione delle Ardenne. Questa tribù nominò due comandanti, Ambiorige e Catuvolco, che inflissero una delle tre importanti sconfitte subite dall’esercito di Cesare8.
Tra gli Eburoni erano accampate quindici coorti in un posto chiamato Atuatuca (forse l’odierna Liegi o Tongeren, ma l’esatta posizione è sconosciuta), tra le quali c’era tutta la Quattordicesima, ma non è chiaro se le restanti cinque coorti fossero unità indipendenti o appartenenti ad altre legioni (Cesare stava per arruolare almeno altre venti coorti nella Gallia Transalpina, dove le reclute, però, non avrebbero ricevuto lo status latino come quelle della provincia transalpina). Cesare afferma che c’erano alcuni cavalieri spagnoli insieme ai legionari, ed è probabile che ci fossero anche altri ausiliari: il numero degli uomini presenti, perciò, doveva aggirarsi tra i seimila e gli ottomila. Tale forza era guidata da due legati, Cotta e Sabino, che in passato avevano avuto entrambi dei comandi separati e si erano dimostrati ragionevoli e competenti, sebbene poco motivati. Nel 55 a.C. avevano anche combattuto insieme contro i Menapi. Cesare non specifica se uno dei due legati avesse un’autorità superiore; dal suo racconto si deduce che erano insieme al comando. Il primo attacco al loro accampamento fu respinto senza difficoltà, ma poi Ambiorige si recò dai Romani per negoziare, affermando di essere stato costretto dal suo popolo a combattere. Raccontò ai legati della cospirazione ordita in tutta la Gallia, secondo la quale ogni tribù avrebbe attaccato le legioni in un determinato giorno. Per ricambiare i favori che aveva ricevuto in passato da Cesare, offrì il proprio appoggio per far marciare i Romani e farli unire alle altre due legioni accampate a ottanta chilometri di distanza. In piena notte i legati discussero su cosa fare. Sabino era propenso ad accettare l’offerta, mentre Cotta sosteneva che non avrebbero dovuto disobbedire agli ordini di Cesare e abbandonare l’accampamento, dove avevano abbondanti provviste e potevano sperare di resistere fino a quando fossero giunti i rinforzi. Alla fine prevalse il parere di Sabino e all’alba del giorno seguente le forze romane si misero in marcia. Gli Eburoni conoscevano il territorio e si imboscarono in un punto in cui il percorso attraversava un burrone. I Romani vennero circondati e trucidati. Cotta rimase subito ferito da un dardo, ma continuò a incoraggiare gli uomini e cercò di organizzare la resistenza. Sabino, disperato, cercò di negoziare con Ambiorige, ma fu braccato e ucciso. Cotta morì quando l’ultima carica nemica annientò il blando accerchiamento di uomini che aveva disposto come estrema resistenza. Pochissimi sopravvissuti riuscirono a raggiungere l’accampamento di Labieno nei giorni successivi. Le quindici coorti erano state sterminate9.
Nei Commentarii Cesare attribuisce la colpa del disastro a Sabino, mentre Cotta viene esaltato per la sua ragionevolezza e per il suo comportamento degno di un aristocratico romano in un momento di crisi. Nessuno dei due uomini proveniva da famiglie particolarmente influenti, perciò Cesare non si preoccupò molto di aver compromesso degli equilibri importanti nel senato. Sostiene di aver ricostruito la dinamica degli eventi attraverso le testimonianze dei sopravvissuti e gli interrogatori dei prigionieri catturati in seguito. La versione riportata nei Commentarii è plausibile, nonché simile ad altri disastri militari accaduti in epoche differenti (basti pensare a Elphinstone e Macnaughten a Kabul, nella prima guerra afghana. Probabilmente è andata proprio in questo modo, ma la narrazione doveva comunque mitigare l’effetto del disastro e scagionare Cesare da ogni responsabilità. Il resoconto è molto dettagliato, descrive la discussione avvenuta tra i comandanti e la confusione che si venne a creare dopo che fu tesa l’imboscata. A parte gli emozionanti ma futili tentativi di Cotta di tenere gli uomini uniti, si possono leggere altri passaggi eroici, come quello del centurione morto mentre cercava di salvare il figlio, o dell’aquilifero – che questa volta viene nominato, a differenza di quello dello sbarco in Britannia – che mise al sicuro l’insegna prima di essere ucciso (si può presumere che l’aquila venne catturata comunque quando tutti i sopravvissuti che si erano rifugiati nell’accampamento si suicidarono durante la notte). Cesare cercò di imputare la colpa al suo legato, ma nessuno dei contemporanei si fece trarre in inganno e tutte le fonti la considerano una sua sconfitta. Essendo un proconsole con imperium, era responsabile di tutto l’esercito ai suoi ordini (da cui deriva la convenzionale formula di apertura di tutte le lettere inviate da un governatore romano al senato, «Io sto bene, così come l’esercito»). Sia Sabino che Cotta erano suoi legati, o «rappresentanti», che lui aveva scelto e che eseguivano i suoi ordini. Se fu Cesare a permettere che entrambi fossero al comando, allora fu anche sua la colpa della conseguente situazione contraddittoria che si venne a creare. Secoli dopo, Napoleone affermò che era meglio avere un comandante mediocre, piuttosto che due validi ma con la stessa autorità. Sabino potrebbe aver disobbedito agli ordini di Cesare quando decise di abbandonare l’accampamento, ma anche questa eventualità evidenzia come il proconsole non sia riuscito ad essere abbastanza chiaro o a educare i suoi legati all’obbedienza. Alla fine il responsabile era comunque lui e, anche se gli errori erano stati commessi dai suoi subordinati, la sconfitta rimaneva sua. Una consistente parte del suo esercito era stata trucidata da una delle meno influenti tribù galliche. Era la prima volta che succedeva una cosa simile, e mise in discussione l’illusione dell’invincibilità romana che i costanti successi avevano contribuito a creare fino a quel momento10.
La prima avvisaglia di tale cedimento ci fu quando Ambiorige e i suoi seguaci si recarono nelle terre degli Atuatuci, loro vicini, e poi in quelle dei Nervi. Quasi tutti gli Eburoni erano sparpagliati e, come solevano fare gli eserciti tribali o irregolari, tornavano a casa solo per portare i bottini dei saccheggi. La notizia del loro successo incitò le altre tribù e convinse i Nervi ad attaccare i Romani che si erano accampati per l’inverno sui loro territori. Questa legione era guidata da Quinto Cicerone, al quale era stato assegnato il ruolo di legato grazie ai buoni rapporti che intercorrevano tra suo fratello e Cesare. Quinto aveva fatto il possibile per il bene della famiglia, ma non eccelleva nell’arte della guerra. Nelle lettere spedite a casa si lamentò spesso delle dure condizioni che la vita durante le campagne militari imponeva, e pare che non fosse mai del tutto concentrato sulle sue responsabilità. Nell’autunno del 54 a.C., mentre guidava la legione verso l’accampamento invernale, scrisse al fratello di aver completato quattro tragedie in soli sedici giorni. Tuttavia, quando i Nervi attaccarono all’improvviso il suo accampamento, Quinto Cicerone reagì adeguatamente. Non essendo stati informati della strage, non avevano preso alcuna precauzione ma, nonostante la sorpresa, respinsero il primo attacco. I Nervi, con l’appoggio di altre tribù alleate, numerosi Atuatuci e alcuni Eburoni, si stanziarono per assediare l’accampamento. Durante la notte gli uomini di Cicerone costruirono centoventi torrette per rafforzare la palizzata del loro accampamento. Il materiale per questo lavoro era già stato ammassato nell’accampamento, ma evidentemente le fortificazioni non erano state ancora completate, perciò la costruzione progredì con un ritmo forsennato. Il giorno successivo fu respinto un altro attacco. A prescindere dalle sue inclinazioni e abilità personali, Quinto si comportò come un senatore romano, incoraggiando gli uomini durante i combattimenti diurni e dando loro direttive mentre la notte si affannavano per fortificare ulteriormente le difese e per produrre nuovi proiettili. Le sue condizioni di salute erano precarie e alla fine venne persuaso dai soldati a ritirarsi nella tenda. Probabilmente, mentre Cicerone a volte fu solo d’intralcio, i suoi ufficiali furono i veri fautori della strenua difesa. Cesare, comunque, voleva rimanere in buoni rapporti con Quinto, e soprattutto con il suo fratello maggiore, per questo motivo fece sì che dai Commentarii ne venisse fuori un ritratto positivo. Ad ogni modo, nonostante la sua esperienza e le sue capacità limitate, Quinto Cicerone si dimostrò davvero coraggioso e fece tutto il possibile per contrastare l’attacco. Rifiutò fermamente anche una tregua che gli fu offerta per permettere ai suoi uomini di mettersi in salvo. L’assedio continuò, i Belgi circondarono la fortificazione romana con un canale e una palizzata e costruirono mantelletti e altri strumenti d’assedio. Fino a pochi anni prima, tecniche d’assedio di questo tipo erano sconosciute in Gallia, ma le tribù avevano osservato gli uomini di Cesare all’opera e avevano appreso da loro. Le guarnigioni romane furono lentamente logorate, molti uomini rimasero feriti e quelli incolumi dovettero affrontare quasi tutte le cariche. I Galli erano molto più numerosi dei Romani – Cesare sostiene che i Nervi avessero sessantamila uomini, dimenticando però la sua precedente affermazione sul massiccio numero di vittime che avevano subito nel 57 a.C. – e quindi avrebbero rischiato di capitolare, se non fossero stati raggiunti da altri rinforzi11.
Quinto Cicerone aveva inviato dei messaggeri a Cesare appena era stato attaccato, ma nessuno di questi uomini era riuscito a oltrepassare le linee nemiche. Numerosi emissari furono riportati sotto le mura dell’accampamento romano e giustiziati davanti ai legionari. L’assedio durava da più di una settimana, quando un uomo riuscì finalmente a superarlo. Il messaggero era lo schiavo di un nobile gallico leale ai Romani, che era rimasto con Cicerone. La notizia giunse a Cesare in tarda serata mentre si trovava nell’accampamento di Samarobriva (l’odierna Amiens). Leggendo il messaggio di Cicerone, Cesare presagì lo sterminio degli uomini di Cotta e Sabino. Fino ad allora era stato ignaro della ribellione, a riprova della fiducia che aveva riposto negli aristocratici suoi alleati delle varie tribù. Fu un trauma terribile, ma decise di agire in fretta. La guarnigione di Quinto Cicerone doveva essere aiutata il prima possibile per evitare la disfatta. Una seconda vittoria avrebbe dato ulteriore slancio alla ribellione, incoraggiando altri capi e altre tribù a unirsi alla battaglia. Con sé, a Samarobriva, aveva solo una legione che presidiava il convoglio principale dell’esercito, con le sue salmerie, i suoi registri, la cassa con i salari e le provviste di grano fatte pervenire da tutta la Gallia, oltre alle centinaia di ostaggi catturati dal 58 a.C. Trebazio, il cliente di Cicerone, era lì insieme a numerosi altri ufficiali e amministrativi. Cesare non poteva spostarsi velocemente con tutti quei civili e quegli impedimenti, ma non poteva neanche lasciarli senza protezione, perciò ordinò immediatamente al questore Marco Crasso, accampato con la sua legione a una quarantina di chilometri di distanza, di abbandonare la posizione a mezzanotte e marciare di corsa verso Samarobriva. Crasso, probabilmente, inviò subito i suoi avamposti e poi si avviò con la legione appena fu pronta per marciare. A metà mattinata del giorno successivo, le pattuglie anteriori della legione di Crasso – forse uomini a cavallo – raggiunsero Cesare e lo informarono che la forza principale non era molto distante12.
Dopo aver lasciato il suo questore a proteggere Samarobriva e i suoi preziosi averi, anche Cesare partì, percorrendo trentadue chilometri il primo giorno. Aveva pianificato di radunare quattrocento cavalieri ausiliari e alleati da aggiungere alla sua unica legione, e sperava di essere raggiunto da altre due legioni durante la marcia. Un messaggero era stato mandato a Gaio Fabio, che si trovava tra i Morini, per comunicargli di marciare attraverso i territori degli Atrebati, affinché si incontrasse con Cesare nella stessa regione. Un altro ordine fu inviato a Labieno, nel quale gli si diceva di provare a congiungersi con la forza principale sui confini dei Nervi, ma di rimanere dove si trovava qualora la situazione locale lo avesse richiesto. Fabio tardò, ma si unì a Cesare. Labieno rispose che era impossibilitato a muoversi perché i Treveri avevano raggruppato un esercito e si erano accampati a soli cinque chilometri dalla sua posizione. Inoltre, confermò la sorte subita da Cotta e Sabino, fornendo dei dettagli avuti dai sopravvissuti che lo avevano raggiunto. Cesare convenne con la motivazione del suo legato, ma rimase con sole due legioni, che erano entrambe notevolmente stremate a causa del lungo periodo di campagne militari che avevano da poco terminato. Compresa la cavalleria, aveva poco più di settemila uomini, e le speranze di riuscire a radunare ulteriori rinforzi in poche settimane erano minime. Se avesse aspettato ancora, l’accampamento di Cicerone avrebbe ceduto e un’altra legione sarebbe stata annientata, incitando ulteriormente la ribellione. Cesare e i suoi uomini avevano marciato con pochi bagagli ed esigue provviste di cibo e, poiché era autunno, le possibilità di trovare cibo e foraggio nelle terre che attraversavano erano molto scarse. I Romani dovevano vincere velocemente, non potevano permettersi una campagna strategica cauta e prolissa. Cesare insisté per aiutare la guarnigione assediata. La decisione era sensata e conforme allo spirito militare romano, basato sempre sull’aggressione, ma di sicuro era anche rischiosa. Ci fu un’altra questione, più personale, a motivare ulteriormente Cesare: i suoi legionari erano in pericolo, e la fiducia che si era instaurata man mano tra l’esercito e il comandante era basata fondamentalmente sulla fedeltà reciproca. Cesare non poteva lasciar morire i suoi uomini, se esisteva una possibilità di salvarli. Aveva già dimostrato la sincerità dei suoi sentimenti quando, dopo la perdita delle quindici coorti, fece il giuramento di non farsi la barba e non tagliarsi i capelli fino a quando non le avesse vendicate. Fu un gesto particolarmente significativo da parte del vanitoso proconsole. Con la barba incolta, Cesare costrinse i suoi settemila uomini a proseguire la marcia13.
Le pattuglie catturarono dei prigionieri che confermarono che gli uomini di Cicerone continuavano a resistere. Un cavaliere gallico fu persuaso ad attraversare le linee nemiche per portare un messaggio ai Romani scritto in greco, affinché non potesse essere letto dai Belgi. Non riuscendo a raggiungere l’accampamento, legò il messaggio a una lancia e la scagliò al suo interno, così come gli era stato indicato. Per due giorni nessuno si accorse dello strano allegato sulla lancia conficcata nella parete di una torretta, fino a quando fu notato e portato da Cicerone. Il legato radunò i suoi uomini e lesse il contenuto della lettera, nella quale c’era scritto che Cesare stava arrivando. La conferma giunse quando avvistarono le colonne di fumo in lontananza (il segnale consueto che una forza romana stava avanzando, appiccando il fuoco alle fattorie e ai villaggi «nemici» che incontrava sul suo percorso). Le pattuglie belgiche riferirono la stessa cosa e l’esercito abbandonò l’assedio per affrontare la nuova minaccia. Pur non essendo in sessantamila come riportato da Cesare, i Belgi erano comunque molto più numerosi dei soldati romani. Cicerone, convocando sempre lo stesso aristocratico gallico, perché gli desse un altro uomo capace di superare le linee nemiche, scrisse a Cesare, informandolo che l’esercito belgico si stava spostando contro di lui. A mezzanotte l’emissario arrivò nell’accampamento del proconsole, che subito lesse a tutti il messaggio. Svetonio scrive che di solito era lo stesso Cesare a dare le cattive notizie ai propri uomini, parlandogli con un tono così spontaneo e naturale da dare l’impressione che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi. A volte, invece, ingigantiva il pericolo. Per tutti questi motivi veniva considerato un comandante prudente. Fino a quel momento aveva sempre marciato in piena notte, ma il giorno successivo aspettò l’alba prima di fare avanzare le sue legioni per sei chilometri. In questa stagione, nell’Europa settentrionale, le ore di luce sono molto poche. I Nervi e i loro alleati li stavano aspettando su una cresta dietro il letto di un fiume. Nel 57 a.C. i Belgi avevano già utilizzato due volte una posizione simile, ed è probabile che in entrambi i casi si fossero appostati sulle principali vie dei loro territori, quelle che venivano spesso percorse nelle guerre tra tribù14.
Cesare e i suoi uomini erano in netta minoranza rispetto agli avversari, e la scarsità di cibo non permetteva un attento studio strategico. Se avesse attaccato il nemico con il fiume alle spalle e scalando il fianco della collina, avrebbe messo i propri uomini in una posizione di svantaggio e ne sarebbe conseguito un disastro. Doveva quindi persuadere i Belgi ad abbandonare la loro posizione sulla cima del colle e ad attaccare. A tal fine fece costruire di proposito un accampamento molto piccolo, simile a quello di un’esigua forza senza salmerie, con le stradine che intersecavano le file delle tende più strette del solito. Voleva che i Nervi sottovalutassero il suo esercito, nella speranza di convincerli ad attaccare ma, qualora tale tattica non avesse funzionato, inviò delle pattuglie alla ricerca di altre vie lungo il fiume, per capire se ci fosse la possibilità di aggirare il nemico. Durante il giorno i due eserciti si osservarono a vicenda dai lati opposti della valle e solo la cavalleria si lanciò in qualche schermaglia. All’alba del giorno successivo successe la stessa cosa, ma Cesare ordinò ai suoi ausiliari di fingere di essere sopraffatti dal nemico. I Nervi avevano pochi cavalieri, che non godevano di buona reputazione, perciò fu di sicuro incoraggiante il fatto che riuscirono a rimandare indietro nell’accampamento la cavalleria di Cesare. Per rafforzare la sensazione di paura, i Romani costruirono delle fortificazioni più grandi del solito e bloccarono ognuno dei quattro cancelli con un muro di erba tagliata. I Nervi caddero nel tranello e attraversarono il fiume per dirigersi con calma contro l’accampamento nemico, raggirati dalle finte ostentazioni di panico. I legionari abbandonarono perfino le mura, fingendosi terrorizzati dai guerrieri in avvicinamento. I Belgi mandarono avanti dei messaggeri, i quali proclamarono che qualunque uomo di Cesare intenzionato a disertare, poteva farlo liberamente fino a una determinata ora, mentre verso tutti gli altri non ci sarebbe stata alcuna pietà. Dopo un po’ i Nervi si avviarono verso le fortificazioni e alcuni cominciarono ad abbattere i muri d’erba davanti ai cancelli. In quel momento Cesare ordinò l’attacco. La colonna di truppe che era in attesa dietro ogni cancello andò alla carica, facendo cadere l’esile barriera. I Nervi, in preda al panico, fuggirono e furono inseguiti dai legionari e dalla cavalleria chiamata in aiuto. Alcuni furono uccisi, altri abbandonarono le armi e gli scudi durante la fuga, ma Cesare richiamò in breve i suoi uomini, nel timore che, se si fossero allontanati troppo inseguendo il nemico, avrebbero rischiato di finire in qualche imboscata nelle foreste e nelle paludi dei dintorni15.
Con l’esercito nemico disperso, Cesare avanzò per aiutare Cicerone. Si premurò di elogiare il suo legato, e separatamente ispezionò e lodò gli ufficiali e gli uomini della guarnigione, dei quali solo un decimo era rimasto indenne durante l’assedio, sebbene la maggior parte dei feriti fosse abbastanza in forma per combattere. Il giorno successivo ci fu un’altra ispezione, nella quale il proconsole parlò della sconfitta di Cotta e Sabino, facendo di quest’ultimo il capro espiatorio e incoraggiando le truppe per il futuro. Quando la notizia della vittoria romana giunse ai Treveri, il loro esercito si allontanò dall’accampamento di Labieno. Cesare fece tornare Fabio e la sua legione nel loro accampamento presso i Morini e portò Cicerone e i suoi uomini a Samarobriva. Durante tutto l’inverno tenne entrambe le unità e la legione di Crasso vicino alla città per avere un concentramento di forze pronte alla battaglia, qualora ci fossero state ulteriori ribellioni. Il proconsole rimase con loro, e per la prima volta non passò l’inverno a sud delle Alpi. La situazione in Gallia era troppo irrequieta e non poteva andarsene. Forse quello fu anche l’unico anno in cui non venne pubblicato un libro dei Commentarii sull’ultima campagna. Molto probabilmente i libri quinto e sesto uscirono insieme nell’inverno del 53-52 a.C. Cesare era troppo occupato, e fino a quando non avesse spento del tutto le fiamme della rivolta, difficilmente avrebbe inviato il resoconto di un conflitto in corso. Le notizie dei cruenti combattimenti in Gallia erano già giunte a Roma nel 54 a.C., quando Cicerone scrisse a Trebazio che aveva saputo della «situazione difficile» che avevano avuto negli ultimi tempi16. Durante l’inverno Cesare tenne sotto stretto controllo le tribù: «Infatti, una volta diffusasi la notizia della sconfitta e della morte di Sabino, quasi tutti i popoli della Gallia si consultavano sulla guerra, inviavano messi in tutte le direzioni, s’informavano sulle decisioni degli altri e da dove sarebbe partita l’insurrezione, tenevano concili notturni in zone deserte»17.
In Armorica (l’odierna Bretagna) alcuni membri di una tribù si erano radunati vicino all’accampamento di Lucio Roscio e della Tredicesima legione, ma furono dispersi. Un altro degli uomini designati da Cesare, Cavarino, il re dei Senoni, fu attaccato dai suoi capitribù e per un soffio riuscì a salvarsi la vita e a raggiungere Cesare a Samarobriva. Durante l’ultima parte dell’inverno, l’unica vera battaglia fu combattuta da Labieno. Induziomaro aveva tentato di allearsi con i Germani, ma non ci era riuscito e, nonostante ciò, si diresse ancora una volta verso l’accampamento di Labieno, seguito dai suoi uomini. Per giorni i Treveri si schierarono in assetto da combattimento nella pianura all’esterno della fortificazione romana, sfidando i legionari in battaglia. Labieno rifiutò ripetutamente, fino a quando un giorno, mentre i Treveri si dividevano per tornare nel proprio accampamento, li fece attaccare dalla cavalleria alleata. Ordinò agli uomini di uccidere Induziomaro e di ignorare tutti gli altri. Venne catturato e la sua testa fu portata al legato. Senza il loro capo, i guerrieri si dispersero nuovamente18.
Durante l’inverno Cesare non solo si prodigò per coprire le perdite, ma raddoppiò anche il numero delle truppe affinché i Galli si convincessero che le risorse romane erano inesauribili. Furono reclutate altre tre legioni nella Gallia Cisalpina, una nuova Quattordicesima per rimpiazzare quella massacrata, la Quindicesima e la Prima. Quest’ultima, in realtà, sebbene fosse stata arruolata in una delle province di Cesare, era stata destinata all’esercito di Pompeo in Spagna, al quale aveva già prestato giuramento; da ciò deriva l’irregolarità nella sequenza. Non avendo pianificato alcuna grande campagna militare, Pompeo fu d’accordo nel «prestare» la nuova legione a Cesare «per il bene della repubblica e a prescindere dall’amicizia personale». Cesare ormai aveva dieci legioni, ma anche le tribù in rivolta si stavano organizzando militarmente. Ambiorige stava giocando un ruolo fondamentale nel fomentare la sedizione e aveva stretto un’alleanza formale con i Treveri. I Nervi, gli Atuatuci e i Menapi, inoltre, erano tutti in guerra contro Roma, mentre altre tribù come i Senoni e i Carnuti avevano rifiutato i capi favorevoli a Cesare e si stavano opponendo alle sue richieste di conciliazione. Il proconsole decise di anticipare le operazioni militari rispetto al normale avvio delle campagne che solitamente avveniva agli inizi della primavera. Voleva riprendere l’iniziativa che, chiaramente, allo scoppio di una rivolta era prerogativa dei ribelli. L’esercito romano avrebbe attaccato e dimostrato che Roma continuava ad essere forte a prescindere da una singola sconfitta, e che le conseguenze di una sua opposizione sarebbero state atroci. Le tribù non avevano un comandante, né risorse, e difficilmente si sarebbero adunate in un unico campo di battaglia. La sconfitta di una, inoltre, non avrebbe portato all’inevitabile capitolazione delle altre; ogni tribù doveva essere vinta singolarmente. In mancanza di tali condizioni, Cesare decise di attaccare le case e le fattorie dei guerrieri. Le abitazioni sarebbero state incendiate, le coltivazioni e gli allevamenti saccheggiati o distrutti, e le persone uccise o schiavizzate. I Romani avevano un termine specifico per questo tipo di attività, vastatio (da cui deriva la parola «devastazione») e anche un verbo, vastare, per il procedimento. Tale pratica era estremamente brutale, ma anche efficace, terrorizzava il nemico e lo costringeva ad ammettere la sconfitta e ad arrendersi. Durante tutta la Storia numerose forze occupanti hanno utilizzato simili metodi, ma poche sono riuscite a eguagliare le legioni di Cesare nella loro applicazione spietata ed efficiente19.
Prima della fine dell’inverno il proconsole radunò quattro legioni – forse nei pressi di Samarobriva – e attaccò i Nervi. Serviva sempre molto tempo per riunire un esercito tribale e i Nervi ebbero poche possibilità sia per difendersi che per fuggire. La sorpresa fu anche maggiore perché nessun grande esercito gallico avrebbe potuto combattere in quella stagione (nel 57 a.C. il potente esercito belgico era stato costretto a dileguarsi dopo aver terminato le scorte di cibo nei mesi estivi). Solamente l’organizzato sistema di provviste dell’esercito romano rendeva possibile una simile campagna invernale. Gli uomini di Cesare catturarono numerosissime persone, radunarono le loro greggi e mandrie e incendiarono i villaggi. Travolti dalla violenza di un simile attacco, i Nervi si arresero e consegnarono gli ostaggi ai Romani. Cesare si ritirò con l’esercito e inviò messaggi a tutte le tribù per convocarle in un consiglio che si sarebbe tenuto agli inizi della primavera. Ancora una volta i Senoni e i Carnuti rifiutarono l’invito, così come i Treveri, che erano guidati da alcuni membri della famiglia di Induziomaro. Il consiglio si sarebbe tenuto per la prima volta a Lutezia, sulla Senna, il principale centro della tribù dei Parisi, il popolo che avrebbe poi dato il nome all’odierna capitale della Francia. Prima che il consiglio poté riunirsi, Cesare mandò le sue legioni contro i Senoni, che furono sorpresi ancor prima di riuscire a rinchiudersi tra le mura della loro città e si arresero subito. Gli Edui mediarono in loro favore e Cesare li trattò in maniera abbastanza clemente. In parte ciò avvenne perché Roma voleva dimostrarsi rispettosa nei confronti dei suoi vecchi alleati, ma soprattutto perché il proconsole voleva proseguire le operazioni contro le altre tribù ribelli. Un centinaio di ostaggi vennero deportati nell’accampamento romano, ma non ci fu alcuna schiavizzazione di massa della popolazione. Capendo che sarebbero stati l’obiettivo successivo dei Romani, i Carnuti inviarono immediatamente degli emissari, accompagnati da alcuni rappresentanti dei Remi. Il proconsole accettò la loro resa. Come di consueto, durante il consiglio chiese alle tribù dei contingenti di cavalleria, ma in realtà aveva già deciso di tenere quelli che gli erano stati consegnati dai Senoni per poter controllare il loro comandante Cavarino20.
La Gallia centrale era ormai «pacificata» e Cesare volse la sua attenzione verso la parte nord-orientale. Ambiorige era il capo più influente e carismatico dei suoi oppositori, ma il proconsole pensò che difficilmente avrebbe rischiato una battaglia aperta, perciò decise di privarlo di tutti gli alleati potenziali o reali della regione. Il convoglio con le provviste e i bagagli dell’esercito venne inviato a Labieno scortato da due legioni. Cesare, invece, guidò cinque legioni contro i Menapi, dotate solo del minimo indispensabile di cibo ed equipaggiamenti pesanti (pare che in quel momento solo una delle tre nuove legioni avesse raggiunto l’esercito principale). Come al solito, i Menapi evitarono uno scontro diretto e si ritirarono nei boschi e nelle paludi inaccessibili delle loro terre per proteggersi. Quella volta, tuttavia, i Romani erano preparati. Cesare divise la sua forza in tre colonne indipendenti, ognuna delle quali cominciò ad avanzare nel territorio tribale, costruendo ponti e lastricando strade dove necessario. Grazie all’abilità ingegneristica delle legioni, erano pochi i posti in cui queste non sarebbero potute arrivare se guidate con determinazione. Quando si resero conto che non erano al sicuro come credevano e videro il fumo dei loro villaggi in fiamme, i Menapi, sgomenti, inviarono dei messaggeri e si arresero. L’esercito principale continuò la sua marcia e lasciò dietro di sé Commio, capo degli Atrebati, e il suo seguito di guerrieri per assicurarsi che i Menapi non cambiassero idea. Mentre era in atto questa operazione, i Treveri si erano scagliati contro Labieno. Sfoggiando la sua consueta abilità, il legato li indusse in una posizione di svantaggio e li attaccò e, secondo quanto riportato, incitò i suoi uomini a «tirar fuori lo stesso coraggio che spesso avevano dimostrato al loro generale». Le sue tre legioni – la propria più le due di rinforzo che scortavano il convoglio dei bagagli giunto poco prima dell’assalto – annientarono i Treveri. Dopo tale sconfitta, i capi nemici fuggirono attraversando il Reno e il potere all’interno della tribù fu affidato all’uomo designato da Cesare, Cingetorige21.
Ambiorige e Induziomaro avevano entrambi cercato degli alleati tra le tribù germaniche della riva orientale del Reno, ma senza esito, perché, secondo Cesare, i Germani erano ancora intimoriti dalla fine che avevano fatto Ariovisto, gli Usipeti e i Tencteri, e solo sparuti gruppi di guerrieri erano andati in loro aiuto. Nonostante ciò, Cesare decise di attraversare il Reno una seconda volta, sia per dissuadere le tribù locali dal prestare aiuto ai suoi avversari in Gallia, sia per evitare che Ambiorige potesse rifugiarsi sulla riva opposta del fiume. L’esercito romano marciò verso il Reno e costruì un ponte a poca distanza da quello che avevano eretto e distrutto nel 55 a.C. Cesare non descrisse il progetto in ogni dettaglio, ma evidenziò come, avendolo già fatto in passato, i suoi legionari furono molto veloci nel completare la costruzione. La creazione di un ponte nel 55 a.C. era stata motivata anche dall’eccitazione di un territorio inesplorato, ma la seconda volta fu solo una questione di routine. Fu essenzialmente quello l’obiettivo dell’operazione, rendere del tutto palese che il fiume non costituiva una barriera per i Romani e che Cesare avrebbe potuto attaccare i Germani nei loro territori in qualunque momento. Come nella prima occasione, non ci fu alcuna battaglia. Gli Ubi inviarono subito dei messaggeri ribadendo la loro fedeltà all’alleanza con Roma. I Suebi si ritirarono nei loro territori centrali e Cesare fu informato dagli Ubi che essi stavano adunando l’esercito, qualora il proconsole li avesse invasi. Fece accordi per assicurarsi sufficienti provviste di cibo, ordinò agli Ubi di nascondere le loro stesse scorte e le mandrie per evitare che il nemico potesse trovarle e appropriarsene, e avanzò. Quando ne vennero a conoscenza, i Suebi arretrarono e decisero di combattere in un luogo più interno del loro territorio. È probabile che l’entità delle forze di Cesare li avesse sorpresi e che quindi avessero bisogno di più tempo per radunare un maggior numero di guerrieri per contrastarlo. Cesare decise di non allontanarsi ulteriormente dal Reno, affermando che sarebbe stato difficile sostentare l’esercito, dal momento che i Germani erano fondamentalmente nomadi e quindi avrebbero potuto non trovare fattorie nell’entroterra. L’archeologia ha dimostrato che la descrizione di Cesare riguardo ai Germani è inesatta poiché esisteva già una lunga tradizione agricola nella regione. Tuttavia è probabile che tali territori fossero meno popolati e la quantità di grano e orzo prodotta fosse minore, se paragonata a quella della maggior parte della Gallia. L’approvvigionamento dell’esercito sarebbe stato possibile, ma di sicuro molto più difficile in una regione in cui non c’erano molti alleati capaci di provvedere a tali bisogni grazie alle loro riserve. Incontrare e sconfiggere i Suebi non era importante per Cesare. Aveva dimostrato nuovamente la propria forza e aveva fatto indietreggiare il loro esercito dalla posizione iniziale. Entrambe le parti nutrivano un guardingo rispetto per il potere dell’altro ed erano restie ad attaccarsi l’un l’altra, specialmente in quel momento in cui sia Cesare che i Suebi avevano nemici più vicini e più deboli da contrastare22.
Cesare esagerò l’importanza del Reno in quanto confine e le differenze tra Galli e Germani, ma lo fece per giustificare una chiara strategia. A prescindere dalla sua volontà di sfruttare tutte le possibilità di nuovi conflitti sin dal 58 a.C., egli non aveva alcuna intenzione di perseguire un sogno di conquiste infinite come Alessandro Magno. Sapeva che sarebbe stato al comando solo per un periodo limitato e aspettava ansiosamente il suo eventuale ritorno a Roma con tutti i benefici che la gloria e la ricchezza ritrovate gli avrebbero portato. Sin dagli inizi delle campagne, aveva deciso di focalizzare l’attenzione sulla Gallia e di portare l’intera regione sotto il dominio romano. Era un obiettivo che ragionevolmente poteva sperare di portare a termine (è probabile che il primo pensiero gli venne nei primi cinque anni di comando, ma sicuramente si rafforzò con la proroga del 55 a.C.). La conquista della Germania era un’aspirazione troppo grande per i suoi fini, e le operazioni a est del Reno diventavano sempre una distrazione, seppure inevitabile, per vincere in Gallia. Credette probabilmente di riuscire ad annettere la Britannia alla Gallia, o almeno la parte sud-orientale, ma le sue supposizioni iniziali in merito a tale scopo erano basate su concetti molto vaghi della geografia dell’isola. Qualora avesse avuto l’intenzione di compiere l’impresa, Cesare non ebbe mai il tempo di instaurare un controllo più stabile dopo la seconda spedizione. Col passare degli anni furono abbandonati anche tutti i piani di operazioni militari incisive nell’Illiria. Il proconsole concentrò le sue attenzioni sulla Gallia, e tutto il resto fu collegato a tale obiettivo dal punto di vista strategico. Il fiume Reno costituiva un confine immediatamente comprensibile per il pubblico italico, un limite oltre il quale a nessuno sarebbe stato permesso di sfidare il dominio romano sulla nuova provincia della Gallia23.
Dopo essere ritornato sulla riva occidentale, Cesare fece abbattere un’ampia parte del ponte e lasciò una guarnigione a presidiarlo. L’estate stava ormai volgendo al termine e il raccolto era maturo, permettendo agli eserciti di sostentarsi più facilmente. Cesare si diresse verso gli Eburoni e Ambiorige, la cui roccaforte si trovava nelle foreste delle Ardenne. La cavalleria fu mandata davanti all’esercito principale e le fu ordinato di non accendere fuochi durante la notte, per evitare che la luce o il riflesso sulle nuvole potesse rivelare la propria posizione. La loro apparizione improvvisa sorprese il nemico e riuscirono a fare numerosi prigionieri, che subito rivelarono dove si trovava Ambiorige, e il capotribù fu quasi catturato quando la cavalleria piombò in un villaggio. La maggior parte dei suoi beni, cavalli e bottini dei saccheggi, furono ritrovati dai cavalieri alleati, ma Ambiorige fuggì e insieme al suo seguito si nascose nella fitta boscaglia della zona. Catuvolco – l’uomo con il quale aveva gloriosamente sconfitto Cotta e Sabino – si sentì troppo vecchio per continuare a nascondersi e si impiccò a un albero di tasso (Cesare non commenta l’episodio, ma si può supporre una sorta di rito in tale suicidio, un re che si uccide dopo il fallimento per evitare ulteriori guai alla sua gente). Cesare guidò l’esercito verso Atuatuca, il luogo del disastro dell’inverno precedente, dove fu raggiunto anche dalle altre due legioni arruolate da poco. Lasciò lì i suoi bagagli, protetti dalla nuova Quattordicesima guidata da Quinto Cicerone, e divise il resto delle sue forze in varie unità indipendenti per scovare il nemico. Lo stesso proconsole condusse tre legioni verso il fiume Schelda, Labieno ne guidò altre tre contro i Menapi, e Trebonio, con un numero di forze simile, si diresse verso gli Atuatuci. La velocità era fondamentale, e le truppe marciarono con il minimo indispensabile, dal momento che tutte sarebbero dovute ritornare ad Atuatuca una settimana dopo. Nessuna legione si trovò a fronteggiare una resistenza organizzata, ma chi rimase indietro o si separò dagli altri subì delle imboscate. Cesare pensò che i suoi legionari fossero troppo valorosi per essere esposti al continuo stillicidio di vittime derivanti dai saccheggi, così decise di promulgare un decreto in tutta la Gallia che permetteva a chiunque di razziare gli Eburoni e i loro alleati. Molti guerrieri ne approfittarono e numerosi popoli gallici si accanirono subito contro la tribù24.
Prima che Cesare tornasse ad Atuatuca, l’accampamento di Cicerone fu attaccato da un gruppo di Germani, che si erano riversati in Gallia per depredare anch’essi gli Eburoni, ma avevano poi deciso che il convoglio dei bagagli romani era un bottino troppo lauto per lasciarselo sfuggire. L’attacco fu respinto, ma un paio di coorti colte di sorpresa all’esterno dell’accampamento furono trucidate. Nei Commentarii Cicerone viene un po’ redarguito per aver disobbedito agli ordini di Cesare facendo allontanare troppo i suoi uomini, ma l’ammonimento è estremamente gentile, poiché non voleva inimicarsi né il legato, né suo fratello. Ad ogni modo fu un colpo imbarazzante, soprattutto perché avvenne vicino al luogo della strage dell’inverno precedente, anche se l’entità fu decisamente minore. Durante il resto dell’anno Cesare continuò a dar la caccia ad Ambiorige senza riuscire però a catturarlo. Divenne una questione delicata perché arrivarono molti alleati gallici per approfittare dei saccheggi:
Tutti i villaggi, tutti gli edifici isolati, appena scorti, erano dati alle fiamme, gli animali venivano sgozzati, si faceva razzia ovunque, il grano non lo consumavano solo i moltissimi giumenti e soldati, ma cadeva anche nei campi per la stagione avanzata e le piogge. Così, se anche qualcuno, al momento, era riuscito a nascondersi, sembrava tuttavia destinato, dopo la partenza dell’esercito romano, a morte sicura, per totale mancanza di sostentamento25.
Cesare fu impegnato nella campagna militare per quasi tutto il 53 a.C.; cominciò prima della fine dell’inverno e proseguì fino agli inizi dell’autunno, ma non combatté alcuna battaglia. L’unica azione significativa fu combattuta e vinta da Labieno in sua assenza. Durante l’anno i Romani avevano disseminato distruzione e terrore – più terrore, dato che gli eserciti distruggevano solo ciò che trovavano sul loro cammino – in un’area molto vasta. La Gallia nord-orientale fu duramente colpita, ed è impressionante notare il calo della quantità di oro e altri metalli preziosi rinvenuti nei luoghi della zona dopo il passaggio di Cesare. Gli studi archeologici hanno evidenziato soprattutto il marcato declino subito dalla qualità e dalla quantità della cultura materiale, e dimostrano che la regione impiegò almeno una generazione per riprendersi del tutto. L’aspetto negativo di una tale politica intimidatoria risiedeva nell’istigazione al risentimento futuro, ma Cesare era convinto che il ricordo della sconfitta di Sabino poteva essere eliminato solo con la brutalità spietata. Non viene menzionato il momento in cui stabilì che il giuramento di vendetta per i suoi soldati caduti fosse stato onorato e si fece sbarbare e tagliare i capelli dai suoi schiavi. Alla fine del periodo di campagna militare si ritirò con l’esercito e convocò i capi gallici in un altro consiglio a Durocortorum (l’odierna Reims), una delle città principali dei Remi. All’inizio dell’anno aveva tralasciato il problema delle agitazioni tra i Senoni e i Carnuti, ma ora volle approfondire la questione e scoprì che l’uomo che fomentava i disordini era l’aristocratico senone Accone. Cesare decise di infliggergli una punizione più dura del solito e lo fece frustare pubblicamente e poi giustiziare. Tale gesto sconvolse i capi tribali anche più dell’uccisione di Dumnorige, e avrebbe avuto importanti conseguenze. Potrebbe essere stata una decisione attentamente ponderata da parte di Cesare, ma è anche probabile che egli fosse solo impaziente di partire per la Gallia Cisalpina. L’uccisione di uno dei suoi designati e l’esilio di un altro da parte dei suoi rivali lo resero ancora più severo, poiché Cesare enfatizzava sempre la lealtà e la premura verso i suoi «amici», a prescindere se fossero romani o stranieri. Qualunque fosse il suo pensiero, Cesare diede disposizioni affinché due legioni passassero l’inverno vicino ai Treveri per controllarli, altre due presso i Lingoni e le rimanenti sei alle porte di una delle città principali dei Senoni26.
Dopo aver passato l’ultimo anno e mezzo a nord delle Alpi, c’erano indubbiamente molte questioni da risolvere nella Gallia Cisalpina e nell’Illiria. Fu probabilmente in questi mesi che scrisse e pubblicò i libri quinto e sesto del De bello Gallico, tra il 54 e il 53 a.C. Il libro quinto descrive dettagliatamente la sconfitta di Cotta e Sabino, evidenziando non solo l’opposizione tra i comportamenti dei due legati, ma anche la successiva e valorosa difesa dell’accampamento da parte di Quinto Cicerone e l’eroismo dei suoi centurioni e soldati. Nel libro sesto sono presenti lunghe digressioni riguardo alle culture galliche e germaniche, arricchite da un resoconto sulle spedizioni punitive in cui ci furono pochi combattimenti reali e il ritmo diventa più piatto. Alcuni dettagli sembrano presi da altre opere etnografiche già esistenti e fanno pensare a un espediente per velocizzare la fine del componimento. Ripete numerose storie strane, come per esempio quella riguardante un animale simile a un alce, che viveva nelle fitte foreste della Germania e non aveva le ginocchia, cosicché dormiva appoggiato agli alberi. Credeva che i cacciatori catturassero questi animali segando quasi del tutto il tronco di un albero, in maniera tale che quando l’alce vi si appoggiava per dormire, cadevano sia l’albero che l’animale. I Greci e i Romani ebbero grandi difficoltà nel reperire informazioni accurate su terre molto lontane, ma è difficile credere che un uomo intelligente e colto come Cesare prendesse sul serio simili assurdità. Le si possono immaginare come una nota di umorismo nell’altrimenti piatto resoconto dei Commentarii, ma non è facile stabilire se i suoi lettori ne fossero consapevoli o meno27.
Erano successe molte cose dall’ultima volta che Cesare era stato a sud delle Alpi, e la vita pubblica di Roma aveva continuato ad essere turbolenta, ma il fatto più eclatante stava avvenendo sull’estremità orientale del mondo romano. Alla fine del 54 a.C. Crasso era stato raggiunto dal suo elegante figlio Publio, che aveva portato con sé dalla Gallia un contingente di mille cavalieri. Padre e figlio avevano poi dato avvio all’invasione della Partia lungamente attesa, nonostante avessero realizzato pochi risultati prima della fine della campagna militare. Nella primavera del 53 a.C. ripresero l’offensiva. Avendo una forza di circa sette legioni, erano fiduciosi nella vittoria, dal momento che in passato Lucullo e Pompeo avevano dimostrato la facilità con la quale i Romani potevano sconfiggere gli eserciti asiatici anche più grandi. Anche i Parti erano sicuri di se stessi, poiché anche loro non avevano mai avuto difficoltà nel vincere contro i popoli vicini, perciò entrambe le parti ebbero una sorta di trauma quando capirono che il nuovo nemico era diverso da quelli che avevano sempre fronteggiato. Nonostante avesse la cavalleria alleata e la fanteria leggera, l’esercito romano rimaneva comunque una forza di fanteria. I Parti, invece, avevano due tipi di cavalleria: i forti catafratti che brandivano le lance, caratterizzati dall’armatura che proteggeva sia gli uomini che i cavalli, e i celeri arcieri a cavallo armati di molteplici e potenti archi. Quando le due parti si scontrarono per la prima volta a Carre, la cavalleria partica si dimostrò superiore, sebbene non così tanto come spesso si è affermato. Publio Crasso fu separato dalla forza principale e venne ucciso insieme ai suoi uomini, ma la battaglia si risolse in uno stallo tattico e nessuna fazione riuscì a sconfiggere l’altra. I Romani di sicuro subirono pesanti perdite ed erano molto distanti dai loro territori. Crasso aveva dato prova delle sue grandi capacità militari durante la battaglia, ma la notte successiva il suo animo si rabbuiò e così quello dell’intero esercito. Ripiegarono, ma la ritirata non fu semplice, dal momento che i Romani erano a piedi e i Parti a cavallo. L’esercito romano fu praticamente annientato durante l’inseguimento. Crasso venne ucciso mentre tentava di negoziare con il nemico e la sua testa fu portata al re partico. Fu un disastro umiliante, che in proporzione superava la perdita delle quindici coorti avvenuta sulle Ardenne solo qualche mese prima. Il primo dei triumviri era morto, e la scomparsa di uno degli uomini più ricchi e influenti di Roma alterò inevitabilmente gli equilibri politici della repubblica. Casualmente la campagna partica rese famoso il questore di Crasso che riuscì a riportare in Siria un gruppo di sopravvissuti e a respingere gli assalti dei Parti nella provincia. Il suo nome era Gaio Cassio Longino, e nove anni dopo sarebbe stato uno dei due capi degli assassini di Cesare28.