«I capi della Gallia si riuniscono in zone boscose e appartate, si lamentano della morte di Accone, spiegano che la stessa sorte poteva toccare anche a loro. Deplorano la situazione comune a tutto il territorio: promettendo premi d’ogni sorta, chiedono con insistenza qualcuno che apra le ostilità e renda libera la Gallia a rischio della vita».
cesare1
Il successo delle potenze imperiali si è sempre basato tanto sulla forza militare quanto, se non più, sulla diplomazia e gli accordi politici. Gli eserciti sono sempre stati in grado di annientare le forze che si opponevano e di tenere sotto controllo gli atti di guerriglia, pur non riuscendo del tutto ad annientarli. Tuttavia, per evitare un prolungamento eccessivo delle operazioni militari, è sempre stato necessario trovare un accordo con le popolazioni occupate, soprattutto con quelle potenti e influenti. Tutti questi uomini sono stati soldati di talento che hanno vinto grandi battaglie, ma hanno anche compreso la precarietà di tali vittorie senza una diplomazia efficace e un’amministrazione competente. Sotto alcuni aspetti, la stretta connessione tra guerra e politica nella repubblica romana preparava i senatori al ruolo che avrebbero svolto come governatori nelle province. Era inoltre importante che l’espansione di Roma oltre i confini dell’Italia non comportasse solo una politica di sradicamento e sostituzione delle popolazioni indigene con coloni romani, e neanche la semplice imposizione di un’élite romana che sfruttasse i popoli sottomessi. Nonostante tutti i massacri e le schiavizzazioni di massa causati dall’imperialismo di Roma, la provincia della Gallia creata da Cesare continuò ad essere abitata dalle tribù che vivevano lì al suo arrivo. La gestione delle questioni ordinarie veniva in gran parte affidata a capi provenienti dall’aristocrazia locale. Una conquista duratura si basava sul persuadere le tribù e i loro capi che era più conveniente accettare le regole romane che opporsi ad esse2.
Cesare comprese sin dal principio che le campagne militari dovevano essere impostate all’interno di un contesto politico. I suoi primi interventi in Gallia furono motivati dalle richieste di aiuto provenienti da tribù alleate. Gli invasori vennero cacciati, ma le popolazioni galliche ostili furono trattate in maniera molto più clemente rispetto a quelle germaniche, diventando alleate dei Romani e meritevoli di protezione. Cesare incontrò spesso i vari capitribù, veniva convocato regolarmente almeno un consiglio ogni anno, e spesso anche due o più. Era molto attento agli equilibri di potere all’interno di ogni tribù e cercava di comprendere la personalità e le aspirazioni di ogni singolo leader. Ne favorì alcuni, rafforzando il loro prestigio nelle tribù per poter fare affidamento su capi che gli fossero fedeli. Uno di questi fu Diviziaco, che per alcuni anni diventò il capo degli Edui e riuscì anche ad accrescere il suo prestigio presso altre tribù ottenendo per loro favori dal proconsole. Commio, che fu l’inviato di Cesare in Britannia, fu nominato re della sua tribù, gli Atrebati, e signore dei Menapi. Sarebbe errato considerare questi uomini dei meri collaborazionisti, o dei semplici strumenti nelle mani degli imperialisti Romani. Ognuno di loro nutriva delle ambizioni e l’arrivo delle legioni di Cesare in Gallia non poteva essere ignorato. Le altre potenze – gli Elvezi, Ariovisto e i migranti germanici – erano state cacciate e non potevano più controbilanciare il peso delle forze romane. Ottenere l’appoggio di Cesare garantiva importanti vantaggi ai capitribù, che erano convinti di servirsi di lui almeno quanto lui si serviva di loro. Nonostante l’influenza del proconsole fosse notevole, l’episodio dell’espulsione dei re che aveva scelto tra i Senoni e i Carnuti dimostrò che non poteva controllare anche tutte le dispute interne alle tribù. L’aristocrazia gallica non era affatto cambiata dall’arrivo di Cesare e i capi continuavano a contendersi il potere. L’alleanza con Roma portava dei vantaggi, ma questi erano pur sempre relativi, perché esistevano anche altre fonti di prestigio e di ricchezza. La posizione del re era precaria in molte tribù, così, anche quando Cesare poneva un uomo a capo di un regno, non c’era la certezza che sarebbe riuscito a rimanervi3.
Cesare aveva sempre compreso a fondo e manipolato le politiche interne delle tribù, ma dopo l’inverno del 53-52 a.C. la sua linea politica fallì miseramente. Tale fallimento dipese da vari fattori, ma il principale fu la crescente percezione che la sua presenza avesse alterato gli equilibri preesistenti. Il cambiamento fu avvertito in particolar modo dai popoli celtici/gallici della Gallia centrale e meridionale, uno dei tre grandi gruppi nei quali i Commentarii dividono «la Gallia nel suo complesso». Queste tribù non avevano ancora avuto scontri significativi con Cesare, nonostante le campagne contro gli Elvezi e Ariovisto fossero state combattute sui loro territori. Avendo il controllo delle rotte commerciali con il mondo romano, tribù come quelle degli Edui, dei Sequani e degli Arverni erano più ricche e politicamente evolute rispetto ai popoli del Nord. Avevano aiutato Cesare, che in cambio aveva favorito le tribù e i capi che gli erano più congeniali e combattuto per loro – o almeno così sosteneva – contro Ariovisto e gli Elvezi. Nel corso dell’anno successivo, però, si ribellarono praticamente tutte. Non fu una semplice rivolta guidata da coloro che non avevano ricevuto alcun favore dal proconsole e avevano assistito all’ascesa al potere dei loro rivali. Tra i ribelli, anzi, ci furono molti capi che avevano goduto dei vantaggi apportati dal dominio romano. La causa di tale cambiamento fu la comprensione che Cesare e le sue legioni si trovavano in Gallia per rimanervi e non si sarebbero ritirati nella provincia transalpina dopo poche e veloci campagne militari. Roma, ormai, attendeva che il suo potere fosse riconosciuto incontestabile in tutta la Gallia. L’alleato era diventato conquistatore senza dover neanche fronteggiare una vera resistenza da parte dei popoli celtici.
Alcune azioni di Cesare avevano palesato brutalmente quella nuova realtà. L’uccisione sommaria di Dumnorige, unita alla fustigazione e alla decapitazione di Accone – forse ritenuta particolarmente umiliante, dal momento che la testa era considerata una parte importante nella religione gallica –, aveva dimostrato che il proconsole non si faceva scrupoli a sbarazzarsi dei leader accusati di tramare contro di lui. Era sconvolgente vedere dei grandi capitribù eliminati in quel modo, e ciò indicava che nessuno era del tutto al sicuro. Col senno del poi, le azioni di Cesare possono essere giudicate errate, ma non è semplice valutare in quale altro modo tali situazioni avrebbero potuto essere gestite in maniera più efficace. L’esecuzione di Accone, alla fine, fu solo la scintilla che fece esplodere la rivolta, perché l’insurrezione stava già maturando da tempo. Nei Commentarii Cesare riconosce apertamente che molti suoi avversari combattevano per la propria libertà, e che egli era costretto ad annientarli nell’interesse di Roma. La maggior parte dell’aristocrazia gallica capì che la dominazione romana avrebbe comportato più svantaggi che vantaggi. I Romani parlavano di pace come una conseguenza inevitabile della vittoria, ma in realtà tale pace era stata imposta alle tribù attraverso l’uso della forza. La guerra, inoltre, aveva sempre avuto un ruolo centrale nella cultura e nella società gallica, e i capitribù erano innanzitutto dei condottieri, il cui potere si basava sul numero di soldati che avevano al seguito. Le tribù non erano più libere di affrontarsi, e l’onore militare poteva essere raggiunto solo combattendo come alleati dell’esercito romano. I potenti capitribù sapevano che se fossero stati eletti re dai loro popoli avrebbero provocato l’immediata reazione del governatore romano, nel caso non fosse stato d’accordo. Inoltre era molto difficile creare una rete di amici, alleati e clienti all’interno delle élite delle altre tribù. Il mondo era cambiato, e i leader tribali avevano ormai capito che non erano più liberi di governare come avevano sempre fatto. Anche se Cesare interveniva solo occasionalmente nelle questioni quotidiane, era comunque evidente che poteva farlo. La libertà politica era stata limitata da una presunta alleanza, e insieme ad essa era sparita anche la libertà di razziare e decapitare i popoli vicini, o di giungere al potere nella propria tribù con l’uso della forza. I capi venivano giudicati in base alla grandezza della loro corte, ma tale seguito di guerrieri era difficile da mantenere senza guerre e saccheggi costanti. Il risentimento era ormai diffuso in tutta la Gallia, e durante i mesi invernali ci furono degli incontri segreti in cui si discusse e si pianificò la rivolta. Molte riunioni furono organizzate nel territorio dei Carnuti, forse perché lì erano presenti luoghi di culto sacri a tutti i popoli gallici. I leader non potevano scambiarsi ostaggi per saldare l’alleanza, perché avrebbero attirato l’attenzione dei Romani, così unirono simbolicamente i loro stendardi e fecero giuramenti di ogni tipo4.
Il crescente risentimento causato dalla presenza romana incoraggiò i cospiratori, che intuirono anche un’opportunità. Cesare era andato nella Gallia Cisalpina e loro sapevano per esperienza che i suoi legati non erano inclini ad agire aggressivamente in sua assenza. Le indiscrezioni sulla situazione caotica a Roma fomentavano la speranza che non sarebbe riuscito a tornare affatto. Tali voci erano fondate, dal momento che da quando Crasso e Pompeo si erano diretti verso le rispettive province, la vita pubblica nella capitale era diventata turbolenta. Alle elezioni consolari del 53 a.C. era stata smascherata una corruzione di proporzioni così ampie da risultare sconcertante anche per la media della repubblica e, dopo ripetute interruzioni, all’inizio dell’anno le elezioni non erano ancora state indette. Clodio si era candidato alla pretura nel 52 a.C., promettendo una riforma che avrebbe giovato ai liberti, e molti di questi si erano uniti ai gruppi che usavano la violenza per appoggiare la sua campagna elettorale. Il suo vecchio nemico Milone, che pure agognava il consolato, aveva schierato la propria banda di criminali e gladiatori per contrastare l’avversario, e la violenza che ne conseguì rese nuovamente impossibili le elezioni, così all’inizio del nuovo anno la repubblica continuò a non avere né consoli né magistrati di rango superiore. Il 18 gennaio del 52 a.C. le fazioni rivali si incontrarono sulla Via Appia appena fuori Roma e Clodio venne ucciso nello scontro che ne derivò. Il giorno successivo i suoi sostenitori portarono il corpo nel Senato, vi costruirono una pira e lo cremarono, bruciando anche parte dell’edificio. Ancora una volta fu valutata l’ipotesi della dittatura di Pompeo per ripristinare l’ordine con la forza. Fu anche decretata la leva obbligatoria per tutti i cittadini maschi in età militare che vivevano in Italia, qualora fossero state necessarie delle forze d’emergenza. Cesare eseguì tale compito nella Gallia Cisalpina e osservò con acuto interesse ciò che stava succedendo a Roma. Una nota casuale di una lettera scritta oltre due anni dopo afferma che Cicerone viaggiò verso Ravenna per incontrare Cesare nella provincia cisalpina. Sicuramente l’oratore non fu l’unico visitatore, ed è probabile che proprio in quel periodo Cesare avanzò le sue proposte per rinnovare il legame matrimoniale con Pompeo. I Galli sbagliavano nel credere che le vicissitudini della capitale avrebbero impedito il ritorno di Cesare, ma avevano di sicuro ragione nel supporre che non sarebbero stati al centro della sua attenzione durante quei mesi. Se i suoi legati in Gallia avevano avuto qualche sospetto sul progetto di ribellione, lo avevano allora ignorato o ritenuto poco plausibile, dal momento che l’assalto colse totalmente di sorpresa i Romani5.
I Carnuti si impegnarono a sferrare il primo attacco. Due dei loro capi guidarono i rispettivi guerrieri verso la città di Cenabo (l’odierna Orléans) e massacrarono i mercanti romani che vivevano tra le sue mura. Fu ucciso anche un eques che era stato incaricato da Cesare di provvedere al rifornimento di grano. Le notizie del massacro si diffusero rapidamente nei Commentarii è scritto che a mezzanotte si sapeva già a più di duecentocinquanta chilometri di distanza. L’attacco successivo fu guidato da un giovane aristocratico arverno di nome Vercingetorige. Suo padre, per un periodo, aveva dominato su gran parte della Gallia, ma era stato ucciso dai capi della propria tribù quando aveva cercato di proclamarsi re. Cesare conosceva Vercingetorige, e pare fosse stato uno di quei giovani aristocratici gallici che lo avevano affascinato. L’amicizia passata era stata ormai accantonata e il gallo aveva cominciato a radunare un esercito, ma suo zio e altri uomini a capo della tribù lo esiliarono da Gergovia (a pochi chilometri dall’odierna Clermont), la principale città degli Arverni. Senza demoralizzarsi, reclutò altri uomini (Cesare sostiene che fossero nomadi e banditi, ma probabilmente erano solo guerrieri privi di un capo che li sostenesse). Tornò a Gergovia con il suo nuovo esercito, cacciò gli avversari e si fece proclamare re dai suoi uomini. Praticamente tutte le tribù occidentali, fino alla costa atlantica, si unirono subito a lui, e i vari capi lo riconobbero come loro comandante. Sin dall’inizio, il suo atteggiamento fu decisamente diverso rispetto alla maggior parte dei condottieri gallici, e cercò di imporre la disciplina al suo esercito e di organizzare l’approvvigionamento. Cesare afferma che la disobbedienza veniva punita con la morte o la mutilazione6.
Vercingetorige in poco tempo fu pronto ad attaccare, puntando innanzitutto alle tribù alleate con i Romani. Mentre un altro capo si diresse contro i Remi, egli guidò l’esercito principale contro i Biturigi, che vivevano a nord del suo popolo ed erano alleati degli Edui, ai quali chiesero subito protezione. Gli Edui, a loro volta, si consultarono con i legati di Cesare, dai quali ricevettero il consiglio di inviare un esercito in aiuto dei Biturigi. È strano che gli stessi ufficiali romani non siano intervenuti subito, e ciò lascia intendere che non si erano ancora resi conto dell’entità dell’insurrezione.
A eccezione di Labieno, i legati di Cesare sembravano uomini di modesto talento e privi d’iniziativa. Era ancora inverno e le operazioni militari risultavano difficili (sebbene non impossibili, come aveva dimostrato Cesare l’anno precedente). All’inizio le rivolte furono molto deboli, mentre numerose potenziali reclute aspettavano per capire se ci fosse o meno la possibilità di avere successo. Di solito i comandanti romani cercavano di colpire subito al primo cenno di rivolta, ma in quel caso reagirono con indifferenza. Anche gli Edui esitarono nella reazione. Il loro esercito raggiunse la Loira, che marcava il confine con i territori dei Biturigi, e dopo essersi fermati lì per alcuni giorni si ritirarono, sostenendo che i Biturigi si erano alleati con Vercingetorige e avevano pianificato di attaccarli non appena avessero attraversato il fiume. Cesare afferma che anche dopo la ribellione non fu sicuro se i capi edui avessero davvero creduto a tale piano o stessero già complottando il tradimento. Dopo il loro ritiro, i Biturigi furono chiaramente costretti a unirsi alla rivolta7.
Probabilmente a quel punto gli ufficiali di Cesare cominciarono a capire che stava succedendo qualcosa di importante, e il loro rapporto su questo episodio fu sufficiente a convincerlo che bisognava radunare l’esercito. La situazione a Roma si era ormai stabilizzata, Pompeo era stato nominato console invece che dittatore, e aveva portato le sue truppe in città per ristabilire l’ordine con la forza. Cesare attraversò le Alpi diretto verso la Gallia Transalpina. Numerose tribù si erano ormai unite a Vercingetorige e ai ribelli (alcune volontariamente, altre con la coercizione). La rivolta stava guadagnando slancio. Le tribù leali a Roma o i suoi più stretti alleati venivano sistematicamente attaccati, e molti stavano cambiando fazione. Cesare si trovava in una delle situazioni peggiori per un generale, separato dal suo esercito da centinaia di chilometri nel momento in cui il nemico era in guerra contro di lui. Se avesse ordinato alle sue truppe di marciare per raggiungerlo, le legioni avrebbero potuto incontrare la forza principale dell’avversario durante il viaggio e sarebbero state costrette a combattere senza la sua guida. Tale ipotesi avrebbe significato una sconfitta, o nel migliore dei casi una vittoria il cui merito sarebbe andato a Labieno o a qualche altro legato. Se avesse raggiunto le legioni, d’altronde, non avrebbe corso meno rischi, dal momento che la sua scorta era esigua e non poteva sapere di quali capi fidarsi, dato il numero di tribù che si erano unite ai ribelli. Sicuramente impiegò molto tempo per prendere una decisione. Cesare preferiva mettere in pericolo se stesso, piuttosto che il suo esercito. Nonostante i sei anni di vittorie costanti, sapeva che una terribile sconfitta avrebbe offerto ai nemici romani tutte le argomentazioni per distruggere la sua reputazione. Sapeva anche che se avesse raggiunto le legioni piuttosto che il contrario sarebbe stato più semplice per lui, per i suoi uomini e per la sua scorta composta da quattrocento cavalieri germanici. Prima della sua partenza, fu minacciata la stessa provincia transalpina. Numerose tribù che vivevano sui confini si erano unite ai rivoltosi, e una forza ribelle aveva invaso la provincia e si stava avviando verso la colonia di Narbona8.
Cesare si diresse velocemente verso la città e ne organizzò la difesa. Non c’erano legioni nella provincia, ma dai dintorni furono radunate alcune coorti che si unirono ai contingenti di nuove reclute che aveva portato dalla Gallia Cisalpina. Probabilmente ricevette anche delle forze di cavalleria dalle tribù locali. Alcune di queste furono schierate in una linea difensiva per respingere gli attacchi e costrinsero gli assalitori a ripiegare subito, ma Cesare ordinò ai suoi uomini di concentrarsi nei territori degli Elvi, una tribù gallica che viveva nella provincia. Da lì, guidò questa forza improvvisata e del tutto inesperta attraverso il Passo delle Cevenne, per attaccare gli Arverni. La sorpresa fu totale, poiché era ancora inverno e anche le persone del luogo credevano che le strade fossero impraticabili per la neve. Gli uomini di Cesare avevano lavorato duramente per scavare un sentiero nella neve alta quasi due metri e poi erano avanzati verso il territorio degli Arverni. Una volta raggiunto, il proconsole divise la cavalleria in piccoli distaccamenti e li fece partire affinché coprissero un’area molto ampia bruciando e uccidendo tutto quello che avrebbero trovato sul loro cammino. I danni inflitti furono probabilmente lievi, ma l’attacco fece pensare all’inizio di un’invasione totale. I messaggeri raggiunsero Vercingetorige, che era accampato con il suo esercito principale presso i Biturigi, a circa centocinquanta chilometri di distanza, e il leader gallico si mise subito in marcia, diretto a sud per rassicurare il suo popolo. Dopo due giorni di saccheggi nelle campagne circostanti, Cesare lasciò l’incarico a Decimo Giunio Bruto, al quale ordinò di continuare a inviare la cavalleria in spedizioni predatorie. Il proconsole disse che doveva andare di nuovo nella provincia per radunare altre reclute e cavalieri alleati, ma che sarebbe ritornato entro tre giorni. Sembrava fiducioso che tali notizie sarebbero giunte velocemente all’orecchio del nemico poiché, dopo aver riattraversato le montagne, si diresse rapidamente verso Vienne, nella Valle del Rodano. In precedenza aveva lasciato lì una forza di cavalleria ad attenderlo. Senza fermarsi neanche per una notte, avanzò con la sua unità, attraversando rapidamente i territori degli Edui, fino a quando raggiunse le due legioni che stavano trascorrendo l’inverno a nord, presso i Lingoni, dove si fermò e tramite dei corrieri inviò dei dispacci alle altre legioni, in cui gli ordinava di adunarsi ad Agendico (probabilmente vicino l’odierna Sens). Fu coraggioso nell’attraversare dei territori potenzialmente ostili (Svetonio racconta un aneddoto su Cesare che si travestì da gallo per raggiungere il suo esercito durante una ribellione; se vero, potrebbe riferirsi a questo episodio). Il comandante si era riunito con l’esercito, ora bisognava solo riprendere l’iniziativa9.
Vercingetorige era stato spiazzato dall’attacco delle Cevenne e gli ci vollero molti giorni per capire che quella era soltanto una finta, poi riprese il suo piano di colpire le tribù leali a Roma. Ritornò a nord e attaccò i Boi, che nel 58 a.C. avevano appoggiato gli Elvezi e ai quali era stato permesso di insediarsi sui loro territori su richiesta degli Edui. L’esercito gallico assediò una delle loro principali città in un luogo chiamato Gorgobina. Siccome era ancora inverno, sarebbe stato difficile sostentare le legioni se fossero scese in battaglia, non ci sarebbe stato il tempo di preparare le operazioni militari creando riserve di cibo e trasportando gli animali. Se Cesare avesse tardato, però, i Boi sarebbero stati costretti a cedere e a unirsi alla rivolta. Vercingetorige sarebbe poi stato libero di attaccare le altre tribù alleate con gli Edui, dimostrando a tutti che perfino gli Edui, la tribù più vicina ai Romani, non erano capaci di proteggere i popoli amici. Se ciò fosse successo, allora alle tribù non sarebbe più convenuto rimanere fedeli a Roma. Piuttosto che accettare una simile «vergognosa umiliazione», Cesare inviò dei messaggeri ai Boi, informandoli che lui e i suoi uomini stavano accorrendo in loro aiuto, e ordinò agli Edui di raccogliere riserve di grano sufficienti a soddisfare i bisogni dell’esercito. Dopo aver lasciato due legioni ad Agendico per proteggere il convoglio dei bagagli, guidò le restanti otto in soccorso dei Boi. La colonna era accompagnata solo dalla cavalleria leggera, dal momento che Cesare non aveva avuto la possibilità di radunare i soliti contingenti di rinforzi dalle tribù alleate. La scarsità di cibo, inoltre, non avrebbe permesso ai Romani di affrontare una lunga battaglia, a meno che non fossero riusciti a trovare ulteriori fonti di approvvigionamento. Era un rischio, ma l’alternativa sarebbe stata assistere inerti alla rivolta che acquisiva sempre più forza e slancio. L’immobilità sarebbe stata interpretata come un segno di debolezza, solo uno schieramento e un contrattacco azzardati avrebbero fermato i capi e le tribù esitanti, almeno temporaneamente10.
In un giorno Cesare raggiunse Vellaunoduno, una delle città dei Senoni. Le legioni cominciarono ad assediare la fortificazione e dopo tre giorni gli abitanti si arresero, promettendo di consegnare le armi, seicento ostaggi e – cosa più importante per le immediate necessità dell’esercito – il bestiame. Le legioni si diressero rapidamente verso la città di Cenabo, il luogo in cui il massacro dei mercanti romani aveva dato avvio alla rivolta. Cesare impiegò solo due giorni per arrivarci, cogliendo di sorpresa i cittadini che non avevano ancora terminato i preparativi per resistere all’assedio. L’esercito giunse in serata, e il proconsole decise di posticipare l’assalto al mattino successivo, tuttavia ordinò a due legioni di sorvegliare le uscite della città, per evitare che la gente fuggisse verso la riva opposta della Loira. La supposizione si rivelò fondata, e verso mezzanotte le sentinelle romane riferirono che orde di cittadini si stavano riversando verso il ponte sul fiume. Non ci fu alcuna particolare resistenza quando inviò le due legioni nella città, mentre la congestione che si venne a creare sul ponte evitò che molte persone sfuggissero alla cattura. Cesare dispose che la città venisse saccheggiata e incendiata, e che la maggior parte dei prigionieri fosse schiavizzata. In seguito attraversò la Loira e si diresse contro i Biturigi. I Romani avevano ripreso l’iniziativa, costringendo Vercingetorige a rispondere ai loro attacchi. Quest’ultimo aveva già abbandonato l’assalto ai Boi e stava accorrendo in aiuto dei Biturigi. L’esercito gallico arrivò proprio nel momento in cui i Romani stavano accettando la resa della città di Noviodunum, e incitò i cittadini a riprendere i combattimenti e a cacciare i centurioni e i piccoli gruppi di soldati che avevano varcato le mura. Nei campi all’esterno della città ci fu una battaglia tra le cavallerie avversarie e alla fine, grazie ai quattrocento cavalieri germanici guidati da Cesare, vinsero i Romani. Questo piccolo successo, unito al fatto che i Romani fossero così vicini alle mura della città mentre la gran parte dell’esercito gallico era ancora lontana, spinse i cittadini a cambiare nuovamente idea e si arresero per la seconda volta, consegnando gli uomini che avevano fomentato la rottura della tregua. Cesare riprese la sua avanzata, dirigendosi verso Avarico (l’odierna Bourges), una delle principali città dei Biturigi, nonché la meglio difesa. Avendo ripreso l’iniziativa, era importante preservarla e non permettere al nemico di recuperare11.
Sin dall’inizio Vercingetorige fu scettico in merito alla propria capacità di sconfiggere in battaglia le legioni, e la velocità con la quale i Romani avevano assaltato tre città aveva solo corroborato il suo rispetto per la loro potenza militare e la loro strategia d’assedio. Così progettò di pedinare il nemico, tendendo imboscate a piccole unità, senza rischiare uno scontro campale. Voleva privare i Romani della possibilità di approvvigionarsi e per farlo disse al suo seguito di comportarsi in maniera del tutto spietata: «[…] Era necessario trascurare i beni privati; occorreva incendiare villaggi e case in ogni direzione, dove sembrava che i Romani si sarebbero recati in cerca di foraggio»12. Dovevano essere distrutte anche tutte le città che non potevano essere protette dal nemico, per evitare che le legioni romane si appropriassero delle provviste di cibo immagazzinate al loro interno. I Biturigi obbedirono a tale ordine incendiando venti grandi insediamenti. Vercingetorige sosteneva che, per quanto terribile fosse tale soluzione, l’alternativa sarebbe stata la morte per i guerrieri e la schiavizzazione per le loro famiglie. La sua strategia fu decisamente più elaborata rispetto a quelle utilizzate dai precedenti avversari di Cesare, e Vercingetorige avrà avuto di sicuro un notevole carisma e una forte personalità, per riuscire a convincere i suoi seguaci della necessità di tali drastiche misure. È notevole il modo in cui le tribù accettarono il sacrificio, ma non sorprende il fatto che in alcuni casi rifiutarono di acconsentire. In seguito agli appelli di vari capi dei Biturigi, la città di Avarico non fu distrutta. Vercingetorige accettò con riluttanza tale eccezione, sebbene non fosse convinto come loro che le difese naturali e artificiali della città la rendevano inespugnabile13.
Avarico presentava decisamente più difficoltà rispetto alle altre città conquistate così facilmente nelle settimane precedenti. Circondata dal fiume e dalle paludi su quasi tutti i lati, aveva un’unica via adatta a un assalto, ed era praticamente impossibile erigere una solida barricata. L’esercito di Cesare si accampò ai piedi del pendio e cominciò a costruire una rampa che avrebbe permesso di raggiungere le mura. I legionari costruirono anche mantelletti e ripari per proteggere gli uomini che lavoravano mentre si avvicinavano sempre più al nemico, e due torri d’assedio per salire sulla rampa una volta terminata. Le otto legioni di Cesare erano tutte all’opera: di fatto poteva contare su venticinquemila o trentamila uomini, a cui si aggiungevano un paio di migliaia di ausiliari e numerosi altri schiavi e individui che vivevano nell’accampamento. Era molto difficile sostentare una simile quantità di gente durante gli spostamenti, e quando si stabilirono per assediare Avarico il compito divenne pressoché impensabile. Andare alla ricerca di foraggio era inutile e pericoloso, dal momento che Vercingetorige si era accampato a una ventina di chilometri di distanza e seguiva ogni distaccamento che i Romani mandavano fuori, uccidendo tutte le unità che rimanevano vulnerabili. Il proconsole inviò ripetuti messaggi ai Boi e agli Edui, chiedendo di mandare dei convogli di provviste, ma ne arrivarono pochissimi. Gli Edui non si mostrarono entusiasti di tale compito, sebbene – o forse era proprio questo il motivo – fossero stati una delle principali fonti di approvvigionamento dal 58 a.C. I Boi erano ancora grati del suo aiuto, ma erano una popolazione troppo piccola per avere sufficienti riserve di grano disponibili. La tattica della «terra bruciata» di Vercingetorige cominciava a mostrare i suoi effetti. A un certo punto le provviste di cereali dei Romani si erano esaurite del tutto, ma per fortuna i foraggiatori riuscirono a trovare e a macellare abbastanza bestiame da fornire a tutti una razione di carne. Cesare lodò i suoi uomini per la tenacia che continuavano ad avere nel lavoro, nonostante venissero ricompensati solamente con un’esigua e monotona quantità di cibo (il mito ricorrente che i legionari romani fossero vegetariani è basata su un’erronea interpretazione di questo e altri simili episodi. Di norma avevano una dieta equilibrata composta da carne, cereali e verdure. Ciò che risulta eccezionale in questo caso è che ricevettero solo carne, non che mangiassero esclusivamente quella)14.
Nonostante la carenza di scorte e la pressante minaccia dell’esercito gallico – poiché Vercingetorige era in costante comunicazione con i difensori della città –, i legionari continuarono a lavorare duramente per costruire gli strumenti d’assedio. Cesare visitava i luoghi di lavoro, controllando i risultati e incoraggiando gli uomini. Più volte propose loro di abbandonare l’assedio e ritirarsi se non si fossero sentiti all’altezza del compito. Era un modo astuto per sfruttare l’orgoglio dei legionari e della loro unità, dal momento che nessuno voleva essere considerato un codardo. Gli uomini lo pregarono di lasciargli finire il lavoro, piuttosto che subire la vergogna della resa. Il ricordo del massacro dei Romani a Cenabo era ancora nitido e continuava a procurare rabbia. Cesare racconta che i soldati chiesero ai propri ufficiali di esaltare in sua presenza la loro determinazione ad andare avanti e la loro fede assoluta nel conseguimento della vittoria finale. La rampa era ormai diventata così grande da far sì che le torri potessero essere avvicinate alle mura, sebbene non così vicine da permettere agli arieti al loro interno di aprire un varco.
Non furono solo i Romani a dover fronteggiare i problemi delle scorte alimentari anche nell’accampamento gallico cominciò a pesare seriamente la scarsità di provviste. In parte era dovuta alla stagione e alla necessità di stazionare in un posto, ma ciò evidenzia anche la mancanza di organizzazione logistica all’interno degli eserciti tribali. Vercingetorige fu uno dei migliori comandanti delle tribù galliche e il suo esercito fu più flessibile e preparato rispetto alla media delle forze tribali, ma non era ancora all’altezza degli eserciti romani. L’avanzamento dei lavori per l’assedio lo spinse probabilmente a cercare di ottenere una nuova vittoria per incoraggiare i suoi uomini. Dopo aver fatto avvicinare ulteriormente alla città l’esercito, guidò personalmente le forze di cavalleria e la fanteria leggera, sperando di tendere un’imboscata ai foraggiatori romani. Cesare venne a conoscenza di tale intenzione, sia dalle pattuglie che dai prigionieri o dai disertori, e si avviò con quasi tutto l’esercito per minacciare l’accampamento gallico. Il nemico si schierò per affrontarlo, ma il proconsole si trovava in una posizione troppo svantaggiosa per sferrare un attacco senza subire pesanti perdite. I legionari erano pronti a combattere, animati dalla loro stessa invincibilità e spinti dalla frustrazione dovuta al duro lavoro e alle razioni scarse, ma Cesare disse loro che non voleva che si ferissero inutilmente, dal momento che «le loro vite erano più importanti dei suoi interessi». I Romani osservarono il nemico per un po’ e poi ritornarono verso l’accampamento. La minaccia spinse Vercingetorige a cambiare i suoi piani e a tornare alla sua forza principale. Cesare gli aveva dimostrato che, se non fosse stato intenzionato a combattere, non avrebbe dovuto avvicinarsi troppo. Per un momento ci furono delle manifestazioni di dissenso nell’esercito gallico: alcuni uomini erano perfino convinti che Vercingetorige avesse stretto un patto con i Romani sperando di essere proclamato re con l’appoggio di Cesare. È molto probabile che in passato i due uomini si fossero incontrati e che Vercingetorige avesse ricevuto dei favori dal proconsole mentre quest’ultimo cercava di comprendere le dinamiche dell’aristocrazia arverna. Alla fine riuscì a placarli, mostrando gli schiavi romani catturati e affermando che si trattava di legionari, i quali avevano avuto l’ordine di raccontare una storia lamentosa riguardo alle difficoltà e alle carenze nell’accampamento romano, se fossero stati presi dal nemico. Dopo aver convinto i suoi uomini della ragionevolezza del piano, insieme agli altri capi scelse diecimila guerrieri e li mandò a rinforzare la difesa di Avarico15.
Gli assedi erano prove tanto di ingenuità, quanto di grande determinazione. Parte dell’importanza di Avarico era dovuta alla presenza di miniere di ferro nella zona e, di conseguenza, abili minatori provarono in tutti i modi a danneggiare la rampa romana. Altri uomini lavorarono per erigere rapidamente delle torri di legno che rafforzassero le mura, e continuarono a ingrandirle così come i Romani ingrandivano le loro. Nel momento in cui l’assediante o l’assediato conquistava un vantaggio, l’altro cercava di escogitare un sistema per annullarglielo. Le capacità ingegneristiche dei Romani, tuttavia, erano decisamente maggiori e, nonostante i frequenti sabotaggi atti a demolirla, dopo venticinque giorni la rampa fu quasi pronta. In totale era larga cento metri e alta ventiquattro, e aveva quasi raggiunto le mura cittadine, permettendo agli arieti nelle torri di essere alla portata della cinta difensiva. Quella notte gli assediati incendiarono i sostegni di legno della loro miniera, sperando che il fuoco facesse collassare anche la rampa o la distruggesse. Nelle prime ore del mattino le sentinelle romane notarono del fumo che proveniva dalla loro rampa. Quasi immediatamente si levò un urlo dalle mura e due gruppi di guerrieri difensori attaccarono da due diverse uscite trasportando torce, materiale incendiario e armi. Come al solito, due legioni erano di picchetto durante le ore notturne, e furono raggiunte da altre truppe mandate in loro aiuto mentre la furia della battaglia oscillava da una parte all’altra. Alcuni legionari respinsero il nemico, mentre altri portarono al sicuro le torri d’assedio, anche se non riuscirono a salvare alcuni mantelletti e ripari che si trovavano davanti alla rampa. Il combattimento fu cruento, e nei Commentarii Cesare fa uno dei rari riferimenti a un episodio marginale cui aveva assistito. Un guerriero gallico si trovava vicino a una delle porte della città e continuava a lanciare pece e sego sulle strutture dei Romani. Venne ucciso da un colpo dello scorpione, un’arma dell’artiglieria leggera romana che scagliava il suo proiettile in maniera precisa e con una forza spaventosa. Appena morì, un altro uomo prese il suo posto, e poi un altro e un altro ancora, ed ognuno veniva abbattuto da un colpo della stessa balista. Cesare, ovviamente, rimase impressionato dal loro coraggio, una caratteristica che nei Commentarii non ha mai negato ai Galli, sebbene tendesse a descriverlo come qualcosa di imparagonabile rispetto al disciplinato eroismo dei legionari16.
Dopo un’aspra battaglia e dopo il fallito tentativo di ostacolare i Romani danneggiando i loro strumenti d’assedio, i difensori vennero respinti dentro le mura della città. Il giorno successivo Vercingetorige li esortò ad abbandonare la città e loro obbedirono volentieri. Con l’aiuto dell’oscurità, i guerrieri cercarono di uscire di soppiatto dalle mura e di raggiungere l’esercito principale attraversando le paludi. Il tentativo fallì quando le loro famiglie capirono ciò che stava succedendo ed emisero delle grida così acute da far temere che i Romani potessero scoprire le loro intenzioni. Il giorno successivo – il ventisettesimo dall’inizio dell’assedio – i legionari terminarono la rampa. Pioveva abbondantemente e Cesare, pensando che le sentinelle avessero abbandonato le loro postazioni di guardia, decise di sferrare un attacco immediato. Vennero disposti gli ordini per l’assalto e i preparativi necessari, poi le truppe romane si schierarono dietro i ripari e i capanni utilizzati per i lavori dell’assedio, cercando di celare il loro proposito. I generali romani furono sempre astuti nello stimolare l’audacia individuale, e il proconsole promise grandi premi ai primi uomini che fossero riusciti a varcare le mura. Al segnale, gli uomini proruppero allo scoperto e attaccarono, superando le guardie nemiche colte di sorpresa ed espugnando velocemente la fortificazione. Alcuni gruppi di Galli si schierarono in spazi aperti come il foro cittadino, ma il loro coraggio si incrinò quando videro le mura brulicanti di Romani. Nel corso della Storia, le truppe che hanno assaltato una postazione fortificata sono spesso state inclini a perdere il controllo, una volta entrate. Gli assedi sono sempre stati operazioni difficili e rischiose, e l’assalto vero e proprio era anche più pericoloso. Gli uomini che riuscivano a sopravvivere non riuscivano a placarsi, dopo aver superato le mura, soprattutto perché nelle strette stradine non erano più sotto il diretto controllo dei loro ufficiali. Quando una città veniva assaltata, era normale uccidere chiunque opponesse la minima resistenza e stuprare le donne. In quell’occasione i soldati erano anche più inferociti rispetto ad altri episodi simili. Cesare scrive che i legionari, «aizzati dalla strage di Cenabo e dalla fatica dell’assedio, non risparmiarono né i vecchi, né le donne, né i bambini. Insomma, del numero totale dei nemici, circa quarantamila, appena ottocento, che ai primi clamori fuggirono dalla città, raggiunsero salvi Vercingetorige»17.
Circa un secolo prima, Polibio aveva descritto il modo in cui i Romani a volte massacravano deliberatamente gli abitanti di una città conquistata, uccidendo anche gli animali che trovavano al suo interno, in maniera tale che i futuri nemici, terrorizzati, si convincessero ad arrendersi subito e a evitare un inutile assedio. Non c’è alcun motivo per il quale Cesare non ha scritto se l’ordine di uccidere la popolazione di Avarico fosse un avvertimento per gli altri popoli. Era stato sincero riguardo ad altre stragi ed esecuzioni di massa, e nessun romano si sarebbe scandalizzato leggendo la sorte subita dai nemici stranieri. Pare che le cause del massacro fossero riscontrabili nella rabbia accumulata dai legionari, frustrati e logorati dall’assedio nel gelo invernale e stremati dall’esiguità delle scorte di cibo. La carneficina degli abitanti – anche nel caso in cui non fossero stati uccisi tutti come sostenuto da Cesare, il numero delle vittime fu comunque elevato – era contro i loro interessi da un punto di vista pragmatico, dal momento che ogni cittadino morto rappresentava uno schiavo in meno da vendere e da cui trarre profitto. Detto ciò, sembra che Cesare non abbia fatto alcuno sforzo per frenare i suoi uomini, sebbene sia opinabile che ci sarebbe riuscito, qualora ci avesse provato18.
Dopo il sacco di Avarico, Cesare fece riposare il suo esercito per molti giorni. All’interno della città furono scoperti grandi depositi di grano e di altre provviste, che risolsero ampiamente i problemi di approvvigionamento. Inoltre, stava cominciando la primavera, e il foraggiamento sarebbe stato più semplice. Le due legioni lasciate a controllare il convoglio dei bagagli si riunirono con l’esercito principale. Cesare era ansioso di ricominciare l’offensiva, per evitare che Vercingetorige riprendesse l’iniziativa, ma ricevette una richiesta dagli Edui che non poteva permettersi di ignorare. Due uomini reclamavano entrambi di essere stati eletti vergobreti, la suprema magistratura della tribù. Il dissenso tra i capi della tribù alleata più grande e importante costituiva chiaramente un pericolo durante un periodo di rivolta, dal momento che una delle due fazioni avrebbe probabilmente cercato l’appoggio di Vercingetorige. Perciò Cesare si diresse a sud per incontrare i due rivali (il vergobreto non poteva uscire dal territorio tribale durante l’anno del suo incarico, cosicché tale restrizione, unita alla ritrosia a offendere un alleato durante un periodo delicato come quello, impedì al proconsole di convocarli nel luogo in cui era accampato). Cesare, dopo aver scoperto che la legge tribale era chiara in merito a tale incarico, stabilì quale fosse il legittimo magistrato. Chiese poi alla tribù di fornirgli quante più forze di cavalleria possibili e diecimila fanti per difendere la fornitura di provviste. Una volta tornato dall’esercito, decise di dividerlo in due colonne. Quattro legioni, condotte da Labieno, si sarebbero dirette a nord contro i Senoni e i Parisi, mentre lui avrebbe guidato le restanti sei verso sud per attaccare gli Arverni. Era chiaramente pericoloso dividere le sue forze in questo modo ma, data l’esitazione dei rivoltosi ad affrontare una battaglia aperta, considerò accettabile tale rischio. Dal momento che i ribelli non avevano una singola base e non erano uniti, la sconfitta del loro esercito li avrebbe convinti ad arrendersi. Nonostante il suo carisma, Vercingetorige continuava a guidare molte tribù del tutto indipendenti che i Romani dovevano assolutamente reprimere. Se avessero ignorato una zona in rivolta, come conseguenza i ribelli avrebbero acquisito fiducia in se stessi e sarebbero aumentati, incoraggiando o costringendo le popolazioni vicine a unirsi a loro19.
Il breve periodo di calma aveva permesso a Vercingetorige di riprendersi dalla disfatta di Avarico. In un certo senso, la sconfitta aveva rafforzato il suo prestigio, perché lui era stato contrario sin dall’inizio a difendere la città e aveva ceduto con molte esitazioni. Il suo piano rimaneva sempre identico: disturbare Cesare e il suo esercito, piuttosto che affrontarli direttamente, e cercare di persuadere altri capi e altre tribù a unirsi alla rivolta. Mentre i Romani marciavano lungo il fiume Allier, Vercingetorige li seguiva dalla riva opposta e inviava uomini ad abbattere tutti i ponti e a controllare tutti i punti in cui avrebbero potuto costruirne di nuovi. Cesare doveva attraversare il corso d’acqua, se voleva minacciare Gergovia, la città in cui il comandante gallico si era dichiarato capo degli Arverni, ma in quel periodo dell’anno il fiume non poteva essere guadato da un esercito. Quel giorno i Romani si accamparono nei boschi vicino a uno dei ponti distrutti. Quando l’esercito si rimise in marcia il giorno successivo, Cesare e due legioni si tennero a distanza, nascosti dagli alberi. Le altre quattro legioni «divisero le loro coorti affinché il numero delle unità sembrasse inalterato». I Galli non sospettarono nulla, dal momento che la colonna romana continuò la marcia e costruì l’accampamento come aveva fatto nei giorni precedenti, e a loro volta avanzarono per contrastare ogni possibilità di attraversamento del fiume da parte del nemico. In serata, quando immaginò che la forza principale si fosse ormai fermata, Cesare uscì con le sue due legioni e ordinò la costruzione di un ponte. Una volta terminato, lo attraversarono e cominciarono a costruire un fossato e un accampamento fortificato, e alcuni messaggeri raggiunsero l’esercito per farlo tornare indietro. Quando Vercingetorige capì ciò che stava succedendo era ormai troppo tardi per fare qualunque cosa, così si allontanò dal fiume per mantenere la distanza dai Romani. Il suo piano era ancora quello di evitare uno scontro diretto. Cesare lo seguì e in cinque giorni raggiunse Gergovia20.
Il proconsole avanzò per studiare la posizione del nemico e si rese subito conto che era vantaggiosa. La città si trovava sulla cima di un colle e Vercingetorige si era accampato con il suo esercito sulle alture circostanti, con ogni contingente tribale collocato in una posizione specifica. Un assalto diretto sembrava infattibile e avrebbe comportato numerose perdite. Il nemico poteva essere costretto alla fame e alla sottomissione, ma i Romani non potevano sperare di erigere una palizzata senza prima essere sicuri delle loro stesse riserve di cibo. Il convoglio di provviste inviato dagli Edui non era ancora giunto. Nell’attesa, Cesare sferrò un attacco notturno per impossessarsi di uno degli avamposti gallici, dal quale avrebbe potuto controllare l’approvvigionamento d’acqua e l’accesso al foraggio del nemico. In quel punto fu costruito un accampamento più piccolo, occupato da due legioni e collegato all’accampamento principale da una via fiancheggiata da profondi fossati. Entrambe le fazioni si fermarono per studiare attentamente l’avversario, e inviavano le cavallerie e le fanterie leggere in brevi schermaglie, senza voler rischiare una battaglia campale. Vercingetorige incontrava quotidianamente i vari capitribù e continuava a imporre una disciplina insolita per un esercito tribale21.
La lealtà degli Edui stava cominciando a vacillare. Convictolitave – l’uomo che era stato appoggiato da Cesare nella carica di vergobreto – era segretamente in contatto con gli Arverni, dai quali aveva ricevuto anche dei doni, e convinse un capo chiamato Litavicco, che guidava i diecimila guerrieri di scorta al convoglio di cibo diretto verso le legioni, a ribellarsi contro gli alleati romani. Dopo aver fatto fermare il convoglio a una cinquantina di chilometri da Gergovia, disse ai suoi uomini che la cavalleria edua che aveva accompagnato Cesare era stata giustiziata dai Romani perché accusata di essersi alleata con il nemico; la loro unica scelta, perciò, era quella di unirsi a Vercingetorige per non fare la stessa fine. Litavicco disse che, oltre al capo arverno, aveva incontrato i superstiti del massacro che gli avevano raccontato una storia terribile sul tradimento dei Romani. Lo stratagemma funzionò e gli Edui si avventarono immediatamente contro i Romani che accompagnavano il convoglio, li torturarono a morte e saccheggiarono il cibo che stavano scortando. Quando le notizie di tale episodio giunsero ai capi edui che guidavano la cavalleria nell’esercito romano, uno di loro andò dal proconsole per riferirgli ciò che aveva appreso. Cesare uscì immediatamente con quattro legioni e dopo aver percorso quaranta chilometri vide gli uomini di Litavicco. Il proconsole mandò avanti la cavalleria edua, affinché si facesse vedere dai compagni della stessa tribù e smentisse le bugie di Litavicco. I guerrieri della scorta si arresero immediatamente, mentre Litavicco e i suoi seguaci fuggirono per raggiungere Vercingetorige. Dopo aver fatto riposare i legionari per tre ore, Cesare costrinse gli uomini stremati a riprendere la marcia per tornare nelle loro postazioni vicino Gergovia. Durante il tragitto incontrarono i corrieri inviati da Fabio, il legato alla guida delle due legioni rimaste nei pressi della città. Riferì che avevano subito pesanti attacchi durante tutto il giorno e, con due legioni costrette a proteggere le postazioni costruite per sei, a stento erano riusciti a mantenere le proprie, aiutati dalla forza dell’artiglieria. Cesare affrettò la marcia per riuscire a tornare negli accampamenti prima dell’alba. La sua presenza sarebbe bastata a dissuadere Vercingetorige dallo sferrare un altro attacco alle postazioni romane22.
Cesare inviò dei messaggeri per rassicurare gli Edui, ma i corrieri mandati da Litavicco arrivarono prima e spinsero Convictolitave a far sollevare il suo popolo contro i Romani. A Cavilluno, un tribuno militare e alcuni mercanti romani furono costretti ad abbandonare la città e vennero linciati dalla folla inferocita. Mentre arrivavano sempre più guerrieri gallici desiderosi di spartirsi il bottino, giunsero anche i messaggeri romani, informandoli che il loro contingente di cavalleria e i diecimila fanti si trovavano nell’accampamento di Cesare e che, oltre ad essergli ancora fedeli, erano a tutti gli effetti sotto la sua autorità. I capi edui si rammaricarono ufficialmente per l’accaduto, imputando la colpa alla gente della tribù e alla sua grossolanità. Per il momento Cesare si accontentò solamente di ricordargli i suoi passati favori nei loro confronti e di sollecitarli a rinnovare l’alleanza, ma in cuor suo sapeva che questa era appesa a un filo sottilissimo. La sua posizione non era più delle migliori. Nonostante l’offensiva gli avesse permesso di riprendere brevemente l’iniziativa, in quel momento si trovava bloccato all’esterno di Gergovia e privo di mezzi per respingere l’esercito di Vercingetorige e conquistare la città. Se fosse rimasto lì dov’era, non avrebbe sortito risultati, ma se si fosse ritirato il suo onore avrebbe subito un duro colpo. Da quando mesi prima aveva assaltato gli Arverni dalla Gallia Transalpina, aveva continuato ad attaccare e avanzare senza sosta. Dal punto di vista pratico, tale strategia aveva costretto Vercingetorige a reagire e, cosa ancora più importante, aveva creato l’impressione che la schiacciante potenza di Roma fosse incontrastabile e la sua vittoria finale inevitabile. Non importava se la sensazione non fosse fondata, la sua forza era comunque rimasta impressa nelle menti di quelli che erano ancora indecisi se unirsi o meno alla rivolta. Qualora Cesare avesse arrestato l’avanzata e cominciato la ritirata, l’illusione dell’invincibilità romana si sarebbe infranta. Il ripiegamento davanti al nemico era sempre un’operazione pericolosa, e in quel caso sarebbe stato considerato un’ammissione di fallimento, e forse avrebbe convinto le tribù indecise che la rivolta stava avendo successo; la ritirata, tuttavia, gli avrebbe permesso di unire al suo esercito le quattro legioni di Labieno, e con dieci legioni probabilmente sarebbe riuscito a vincere a Gergovia. Cesare scelse il male minore e decise di ripiegare, ma prima cercò di avere una piccola vittoria per non farla sembrare una vera e propria ritirata23.
Mentre ispezionava la fortificazione più piccola, il proconsole notò che una delle colline che nei giorni precedenti erano state occupate in maniera massiccia dai Galli era praticamente vuota. Interrogando alcuni dei numerosi disertori che si erano uniti alle sue truppe, scoprì che Vercingetorige era sempre più preoccupato che i Romani potessero conquistare la cima di un’altra collina e per fortificare quest’ultima aveva fatto spostare i suoi uomini. Cesare colse l’opportunità e cominciò ad alimentare l’insicurezza del nemico. Quella notte inviò le pattuglie della cavalleria affinché controllassero il colle che Vercingetorige stava blindando. Ai cavalieri fu detto di essere più rumorosi del solito, in modo che i Galli si accorgessero della loro presenza. Il mattino seguente fece montare un gran numero di schiavi su cavalli e muli da soma, fece loro indossare degli elmetti e, accompagnati da veri cavalieri per rendere più convincente l’inganno, li mandò tutti nello stesso posto attraverso una via secondaria. In seguito una legione li seguì, ma si fermò in un punto morto e si nascose in una zona boscosa. Quando l’attenzione dei Galli fu attratta dal luogo in cui si aspettavano l’attacco, Cesare vide i loro guerrieri che si spostavano per affrontarlo, poi lentamente avanzò con le sue legioni verso l’accampamento più piccolo, dicendo loro di nascondere gli scudi e le insegne. Non si mossero in coorti organizzate, ma a caso, camminando senza dare l’impressione di avere un obiettivo. Cesare chiamò i legati alla guida di ogni legione e spiegò loro brevemente le sue intenzioni, sottolineando il fatto che dovevano «tenere a freno i soldati, affinché non si allontanassero troppo per desiderio di lotta o speranza di bottino»24.
Al segnale le legioni attaccarono sul fianco della collina, mentre gli Edui facevano lo stesso sul declivio opposto. Ogni fazione avanzava come meglio poteva, ma gli avvallamenti sulla sommità del colle rendevano difficoltosa la vista del nemico. C’erano pochissimi guerrieri a difendere la postazione e i Romani balzarono facilmente oltre il muro di pietre alto due metri che i Galli avevano costruito a metà pendio. La barriera non ostacolò a lungo i Romani, ma causò un po’ di disordine nelle formazioni, che si aggravò quando assaltarono gli accampamenti gallici sparsi attorno alla collina. Il re di una tribù che non molto tempo prima si era unita a Vercingetorige fu sorpreso nella sua tenda ed era ancora seminudo quando cercò di fuggire a cavallo. Cesare guidava la Decima e quando stabilì che l’attacco aveva causato danni a sufficienza la fece fermare e ordinò ai trombettieri di suonare la ritirata. Il suono non fu riconosciuto, alcuni ufficiali lo sentirono e cercarono di far obbedire i legionari, ma la maggior parte degli uomini continuò ad attaccare. Attraversando gli accampamenti, avanzarono fino alle mura della stessa città. In passato avevano sopraffatto e annientato molti più avversari con gli attacchi a sorpresa, e forse furono spronati dai ricordi di tali successi. Per un momento sembrò che Gergovia stesse davvero per cadere, dal momento che c’erano pochissimi guerrieri a difenderla e gli abitanti furono presi dal panico:
Dalle mura le madri di famiglia gettavano vesti e oggetti d’argento, a petto nudo si sporgevano e con le mani protese scongiuravano i Romani di risparmiarle, di non massacrare donne e bambini, come invece era accaduto ad Avarico. Alcune, calate giù dalle altre a forza di braccia, si consegnavano ai nostri soldati. Quel giorno stesso, a quanto sembrava, L. Fabio, centurione dell’Ottava legione, aveva detto ai suoi che lo riempiva d’ardore il bottino di Avarico e che non avrebbe tollerato che un altro scalasse le mura prima di lui. Infatti, con l’aiuto di tre soldati del suo manipolo salì sulle mura; poi li afferrò per mano uno a uno e a sua volta li sollevò25.
In quel momento i Galli che stavano lavorando alle fortificazioni dalla parte opposta della città sentirono il frastuono dell’attacco dei Romani e capirono di essere stati beffati. Vercingetorige fu raggiunto dai messaggeri che portavano richieste di aiuto dei cittadini e mandò la cavalleria a contrastare l’assalto romano, seguita dai guerrieri a piedi. Al loro arrivo, la popolazione abbandonò l’intenzione di arrendersi e le donne sulle mura iniziarono a implorare i loro uomini di salvarle. L’attacco fallì, i Romani erano stanchi, disordinati e impreparati ad affrontare nuovi avversari, e molti di loro furono presi dal panico quando gli Edui comparvero all’improvviso al loro fianco, poiché nell’impeto dell’azione non si accorsero che avevano la spalla destra scoperta – il segno ufficiale di un alleato gallico nell’esercito di Cesare – e li scambiarono per ulteriori nemici. L’entusiasmo per il successo subì un immediato tracollo:
Al tempo stesso, il centurione L. Fabio e i soldati che avevano scalato con lui la cinta, circondati e uccisi, vennero precipitati dalle mura. M. Petronio, centurione della stessa legione, mentre tentava di abbattere le porte, fu sopraffatto da una massa di nemici. Ferito a più riprese, senza ormai speranza di salvezza, gridò ai soldati del suo manipolo, che lo avevano seguito: «Non posso salvarmi insieme a voi, ma voglio almeno preoccuparmi della vostra vita, io che vi ho messo in pericolo per sete di gloria. Ne avete la possibilità, pensate a voi stessi». E subito si lanciò all’attacco nel folto dei nemici, ne uccise due e allontanò alquanto gli altri dalla porta. Ai suoi che cercavano di corrergli in aiuto disse: «Tentate invano di soccorrermi, perdo troppo sangue e mi mancano le forze. Perciò fuggite, finché ne avete modo, raggiungete la legione». Poco dopo cadde, con le armi in pugno, ma fu la salvezza dei suoi26.
Cesare non poté fare altro che coprire la ritirata con la Decima e con le coorti lasciate indietro a controllare l’accampamento più piccolo e prontamente richiamate. I Galli perciò non riuscirono a prolungare gli inseguimenti ma, nonostante ciò, le perdite furono pesanti: vennero uccisi circa settecento soldati e almeno quarantasei centurioni. I centurioni guidavano la testa dello schieramento e di solito il loro tasso di mortalità era sproporzionatamente alto, in special modo quando le cose andavano male. Il giorno dopo la sconfitta Cesare radunò le legioni e fece un discorso in cui elogiò il loro coraggio, ma rimproverò severamente la mancanza di disciplina. Alla fine garantì loro che le cause della sconfitta erano dipese solamente dall’asperità del terreno, dalle difese del nemico e dallo sbaglio di non aver obbedito agli ordini (la potenza militare dei Galli era stata irrilevante). Per ribadire il messaggio, nei due giorni successivi scelse una buona posizione – probabilmente sulla cima di una collina – e schierò le truppe in ordine di battaglia, sfidando Vercingetorige ad avanzare e combattere. Dal momento che il capo gallico era chiaramente restio a rischiare una battaglia da una posizione svantaggiosa, Cesare riuscì a rassicurare i suoi uomini che il nemico continuava a temerli. Il giorno seguente i Romani abbandonarono gli accampamenti e si diressero verso i territori degli Edui percorrendo una via differente rispetto a quella dell’andata. In tre giorni raggiunsero il fiume Allier, ricostruirono uno dei ponti distrutti e lo attraversarono. L’esercito gallico non fece nulla per fermarli. Cesare aveva già deciso di accettare l’impressione negativa causata dalla ritirata, il suo tentativo di minimizzarla con una vittoria simbolica era fallito. Le notizie di tale disfatta si diffusero e nelle settimane successive altre tribù si unirono alla rivolta. Gli Edui furono tra i primi. I capi della cavalleria che era al servizio di Cesare chiesero il permesso di tornare a casa e il proconsole acconsentì, dato che, pur non fidandosi più di loro, non voleva trattenerli contro la loro volontà, contribuendo così ad alimentare nuove storie sul «tradimento» romano.
Poco dopo, gli Edui uccisero la piccola guarnigione romana e i mercanti che vivevano nella città di Noviodunum. Questo fu un durissimo colpo, perché nella città, oltre agli enormi depositi di grano immagazzinati per sostentare l’esercito, si trovava anche il convoglio principale dei bagagli, con i suoi registri e con gli ostaggi catturati nelle varie tribù. Convinti che non sarebbero riusciti a difendere la posizione, gli Edui incendiarono la città, portando con sé o distruggendo il grano. Poi usarono gli ostaggi per avviare le negoziazioni con le altre tribù. Vercingetorige e i capi di tutta la Gallia furono convocati a Bibracte, dove gli Edui tentarono di far eleggere uno dei loro uomini al posto del comandante arverno, ma non ci riuscirono. In maniera abbastanza indisponente, accettarono di obbedirgli per il bene comune. Ormai quasi tutte le tribù celtiche o galliche si erano coalizzate contro Cesare, e anche molte di quelle belgiche si erano unite alla rivolta. Il piano di Vercingetorige continuava a evitare una battaglia, preferiva perseguitare i Romani e fare in modo che non riuscissero a impossessarsi del cibo per i loro uomini e del foraggio per gli animali. Nel gergo militare romano questa strategia veniva definita «colpire il nemico allo stomaco». Mantenendo lo stesso numero di fanti che aveva con sé, Vercingetorige chiese alle tribù di fornirgli ulteriori forze di cavalleria per avere almeno quindicimila cavalieri. Per far dividere le forze romane, pianificò con gli Edui e altre tribù di sferrare nuovi attacchi alla Gallia Transalpina, nella speranza che i popoli al suo interno – soprattutto gli Allobrogi che si erano già ribellati dieci anni prima – si unissero alla rivolta27.
Venuto a conoscenza della defezione degli Edui, Cesare si affrettò verso nord, nel tentativo di raggiungere le legioni di Labieno. Marciando senza sosta, raggiunse la Loira e cercò di attraversare il fiume, nonostante la piena dovuta allo scioglimento delle nevi invernali. La cavalleria formò una barriera per attenuare la corrente e permettere ai legionari di guadare il fiume con l’acqua che arrivava al petto e trasportando le armi negli scudi sollevati sulle loro teste. Alcuni giorni dopo raggiunse Labieno, il quale aveva appena vinto una battaglia vicino Lutezia (Parigi). L’intero esercito romano era nuovamente concentrato, e le sue dieci legioni, composte da trentacinquemila o quarantamila uomini supportati da alcuni ausiliari, si radunarono in qualche luogo nella regione. Non riuscendo a trovare ulteriori forze di cavalleria tra gli alleati gallici sempre meno numerosi, Cesare si affidò alle tribù germaniche dell’altra riva del Reno per avere l’appoggio dei cavalieri e della loro fanteria leggera. Quando tali aiuti arrivarono, Cesare sostituì i piccoli cavalli germanici con altri migliori, presi dai tribuni e da altri ufficiali equestri, nonché dai ricchi soldati veterani richiamati tra i ranghi. Gli attacchi alla Gallia Transalpina stavano diventando preoccupanti e, dopo aver attraversato i confini dei Lingoni, guidò l’esercito nel territorio dei Sequani, da dove sarebbe stato più vicino alla provincia romana. Gli assalti erano contrastati dagli uomini reclutati nella provincia e dagli stessi popoli locali, i quali erano tutti guidati da un suo lontano cugino, Lucio Giulio Cesare, membro di un altro ramo della famiglia, che era stato console nel 64 a.C. e che in quel momento era in servizio come legato. L’iniziativa, tuttavia, era stata ripresa da Vercingetorige, che ormai aveva deciso di pressare i Romani con più forza. Con i suoi numerosi cavalieri avrebbe attaccato le legioni mentre marciavano intralciate dal loro convoglio, in maniera tale che o sarebbero state costrette ad abbandonarlo per continuare l’avanzata, oppure si sarebbero fermate per proteggerlo, rallentando notevolmente la marcia e rischiando ulteriori problemi di approvvigionamento. I guerrieri fecero un giuramento spontaneo in cui «si negava un tetto e la possibilità di avvicinare figli, genitori o moglie» a chi, sul proprio cavallo, non avesse attraversato almeno due volte le linee romane. Il giorno seguente la cavalleria gallica attaccò in tre gruppi: uno colpì la testa della colonna e gli altri i fianchi. Il numero dei cavalieri di Cesare era decisamente minore, ma anch’egli li divise in tre gruppi e avanzò con la fanteria per aiutarli qualora fossero stati in difficoltà. I legionari non potevano raggiungere i cavalieri nemici, ma crearono un solido blocco per far radunare alle loro spalle la cavalleria romana e permetterle di riorganizzarsi. Alla fine i cavalieri germanici vinsero il combattimento sulla destra, sconfiggendo i guerrieri che avevano davanti e costringendo gli altri a ritirarsi; questi furono poi inseguiti dai Romani, con due legioni rimaste indietro a controllare il convoglio mentre le altre otto seguivano a poca distanza la cavalleria. I Galli subirono pesanti perdite. Cesare evidenziò con notevole soddisfazione la cattura di numerose personalità edue, tra cui due capi che avevano combattuto al suo servizio quello stesso anno e l’uomo al quale aveva rifiutato l’incarico di vergobreto. Non fa menzione della fine che fecero28.
Il successo della campagna era nuovamente oscillato. Vercingetorige aveva giudicato male la situazione, credeva che Cesare si stesse ritirando e che dovesse essere punito spietatamente per evitare che i Romani potessero ritornare in futuro con un maggior numero di forze. Infatti Cesare e i suoi uomini erano stati tutt’altro che sconfitti, e tornarono rapidamente all’offensiva, dato che l’esercito gallico si trovava vicino ed era un facile obiettivo. Vercingetorige si ritirò per accamparsi nei pressi di Alesia (l’odierno Monte Auxois, tra le colline della Côte-d’Or), la roccaforte dei Mandubi. Il giorno successivo i Romani si accamparono davanti alla città e Cesare uscì per fare una ricognizione del luogo. La città giaceva su una lunga collina dai fianchi scoscesi. Sulla parte occidentale c’era una pianura ampia e aperta, ma sugli altri tre lati c’erano delle alture attraversate da numerose valli e con le pareti a strapiombo. Un ruscello attraversava da nord a sud la collina centrale di Alesia. Un assalto diretto sarebbe stato rischioso e avrebbe comportato numerose perdite a prescindere dal suo esito, dal momento che Vercingetorige e i suoi uomini si trovavano in una posizione più vantaggiosa. Cesare sostiene che in quel momento il capo arverno aveva ottantamila fanti, oltre alle forze di cavalleria, ma, come al solito, è difficile stabilire l’attendibilità di tale cifra. Napoleone fu scettico al riguardo, e dubitò che i Galli potessero sovrastare i Romani con simili proporzioni. Anche qualora fosse una cifra corretta, l’assalto diretto rimaneva un’opzione poco allettante, ma sotto altri punti di vista la situazione era molto diversa rispetto a quella di Gergovia. Cesare aveva ormai l’esercito al completo e, osservando la conformazione del suolo, confidava che sarebbe riuscito a circondare e bloccare Alesia e l’esercito gallico29.
I Romani cominciarono a costruire un’imponente quantità di strumenti d’assedio, con una cinta fortificata che si estendeva per diciassette chilometri, sulla quale furono erette ventitré ridotte e accampamenti più grandi per far riposare i soldati. I Galli cercarono di contrastare tali lavori e inviarono all’attacco la loro cavalleria, che si scontrò con la cavalleria ausiliaria e alleata, ma fu costretta a ripiegare solo quando Cesare si affidò alla riserva di cavalieri germanici e schierò alcuni legionari per supportarli. Prima che la palizzata romana fosse terminata, Vercingetorige riunì i suoi capi e mandò i cavalieri nelle rispettive tribù, affinché radunassero un esercito di soccorso per difendere la città. Il destino della Gallia dipendeva dall’esito di Alesia, dal momento che Cesare sarebbe rimasto lì fino a quando non fosse stato certo di aver sconfitto Vercingetorige. Le riserve di grano della città furono distribuite con parsimonia sotto il controllo di un direttivo centrale, mentre la macellazione del bestiame venne affidata ai singoli cittadini. I Galli si stabilirono in attesa dei rinforzi e dello scontro finale con Cesare. I Romani lavorarono duramente per completare la linea di circonvallazione che attorniava l’intera collina. Il sito fu individuato e scavato durante il regno di Napoleone III, che era particolarmente affascinato da questo evento della storia francese. I recenti studi archeologici e le moderne tecniche di misurazione hanno offerto un quadro che sotto molti punti di vista è assolutamente conforme alla descrizione presente nei Commentarii (i dati forniti da Cesare non sempre concordano con le dimensioni reali delle trincee, ma ciò non sorprende, vista la loro estensione).
Nella parte occidentale, dove si apriva la pianura, i Romani scavarono un fossato con pareti verticali, largo circa sei metri, che andava da un ruscello all’altro e fungeva da ostacolo per ritardare gli attacchi nemici e permettere il tempestivo allarme. La principale linea difensiva si trovava a quattrocento passi (circa centoventi metri) di distanza ed era costituita da un doppio fossato, di cui il più interno fu riempito d’acqua; dietro di esso si trovava una palizzata alta quasi quattro metri, sormontata da torrette distanti venticinque metri l’una dall’altra. Davanti ai fossati c’era una serie di trappole e ostacoli, ai quali i legionari diedero dei nomi macabri. I pali con le estremità appuntite e indurite con il fuoco furono chiamati cippi (cippi), quelli nascosti in fosse circolari coperte dal fogliame vennero denominati gigli (lilia), a causa della loro forma, mentre i chiodi e i triboli seminascosti nel terreno stimoli (stimuli). Queste trappole potevano ferire il nemico, specialmente nell’oscurità, ma la loro funzione principale era quella di rallentare la carica offensiva e attenuarne lo slancio, dal momento che gli assalitori erano costretti ad attraversarle con cautela. Le difese erano così solide che bastavano pochi uomini per contrastare gli attacchi meno incisivi, in maniera tale che la maggior parte dell’esercito potesse occuparsi del foraggiamento e della costruzione delle altre armi d’assedio. Appena la linea difensiva fu terminata, il proconsole mandò i suoi uomini a costruirne un’altra più lunga, la linea di controvallazione, rivolta verso l’esterno, per osteggiare l’esercito di soccorso che stava per arrivare. Era molto importante raccogliere quanto più grano e bestiame possibile prima del suo arrivo, e Cesare diede disposizioni ai suoi uomini affinché ne mettessero da parte in quantità sufficienti a sostentare tutto l’esercito per almeno trenta giorni. Il lavoro e lo sforzo impiegati in tali compiti furono massicci, ma Cesare poteva ormai contare sull’esercito al completo e sugli ufficiali più capaci. Oltre ai legati, tra i quali Quinto Cicerone e Gaio Trebonio, erano con lui anche il giovane Decimo Bruto e il suo nuovo questore Marco Antonio (lo stesso di Shakespeare). I Romani lavoravano e i Galli li osservavano da Alesia, lanciando sporadici assalti, ma senza voler rischiare uno scontro più grande prima dell’arrivo degli aiuti esterni. Entrambi gli schieramenti si studiavano in attesa dell’assalto finale30.
Le tribù impiegarono del tempo per trovare ulteriori rinforzi. I capi si incontrarono e concordarono il numero di guerrieri che sarebbe stato consegnato da ogni popolazione. Cesare fornisce una lunga lista dei contingenti richiesti ad ogni tribù e sostiene che alla fine riuscirono a radunare ottomila cavalieri e duecentocinquantamila fanti. Le sue cifre potrebbero essere inesatte ed esagerate deliberatamente, ma è importante notare che sono conformi a quelle che si possono desumere dai Commentarii facendo una somma delle forze di ogni singola tribù, sebbene tale calcolo potrebbe indicare soltanto che egli è sempre stato coerente nelle esagerazioni. Eppure, a prescindere dai numeri, le circostanze di una simile coalizione, consapevole dello scontro decisivo che stava per combattere, contribuirono a creare uno dei più grandi eserciti gallici mai scesi in battaglia. Cesare afferma che le tribù non convocarono tutti gli uomini in grado di portare un’arma perché ritennero quasi impossibile controllare e sostentare un’armata così grande. Ma, nonostante ciò, si può supporre che in maniera volontaria o meno fecero parte dell’esercito molte persone che normalmente avrebbero combattuto solo per difendere i propri territori. Vennero nominati quattro comandanti: uno fu Commio, il re degli Atrebati, altri due i capi che avevano guidato la cavalleria edua dell’esercito romano all’inizio dell’anno, e l’altro fu Vercassivellauno, un cugino di Vercingetorige, l’unico che in passato non era mai stato al servizio di Cesare. Date le sue enormi dimensioni, fu inevitabile la lentezza con cui l’esercito si radunò e si mise in marcia. Ad Alesia, gli abitanti assediati diventarono sempre più nervosi mentre gli aiuti tardavano ad arrivare e decisero di adottare misure estreme. Le donne, i bambini e gli anziani che non potevano combattere furono costretti ad abbandonare la città, affinché le provviste di cui necessitavano i guerrieri non venissero consumate da quelle bocche «inutili». Vercingetorige credette che i Romani avrebbero permesso loro di attraversare le proprie linee difensive per farle andare al sicuro, ma si sbagliava. Cesare fece aumentare il numero delle sentinelle sulla fortificazione e non permise a nessuno di passare. Probabilmente temette che il passaggio di così tanti rifugiati servisse a celare un attacco dei guerrieri, o forse preferì non farli andare in una zona in cui il suo esercito era ancora impegnato nel foraggiamento e dove loro avrebbero potuto sfruttare le risorse di cui avevano bisogno i suoi uomini. O, semplicemente, per rendere la sua fortificazione già efficace, volle solo che i Galli fossero costretti a riaccogliere i civili ma essi non lo fecero. In quella fase della campagna, ogni comandante metteva alla prova la crudeltà dell’altro. Gli appelli dei cittadini furono ignorati e rimasero a morire di fame tra le linee dei due schieramenti avversari. Cesare pensò che tale vista sarebbe stata demoralizzante per i Galli. Di sicuro avrebbe reso lo scontro finale ancora più lugubre31.
L’esercito di soccorso alla fine arrivò e si accampò sulle colline, probabilmente a sud-ovest, a circa due chilometri dalla linea di controvallazione. Il giorno seguente le truppe si radunarono, con la cavalleria schierata sulla pianura e alle sue spalle i moltissimi fanti ammassati sui pendii delle colline per mostrare al nemico e agli amici assediati la loro ingente numerosità. Vercingetorige fece uscire i suoi guerrieri dalla città e dall’accampamento; essi avanzarono e riempirono una sezione dell’ampia trincea che gli uomini di Cesare avevano scavato davanti alle loro linee. Aspettarono lì, pronti ad attaccare insieme all’esercito di soccorso. Anche le legioni erano pronte, con gli uomini schierati su entrambe le linee fortificate per affrontare gli attacchi da ogni direzione. Per motivare i suoi uomini, Cesare mandò la cavalleria fuori dalle linee, per farla scontrare con i cavalieri della forza di sostegno. Ne derivò un aspro combattimento, che durò tutto il pomeriggio e in cui sembrò che i Galli fossero in vantaggio fino a quando, ancora una volta, la cavalleria germanica di Cesare caricò e fece vincere i Romani. I Galli non fecero intervenire la fanteria e dopo il tramonto gli eserciti tornarono nei rispettivi accampamenti. Il giorno successivo vennero allestiti i preparativi; i guerrieri gallici costruirono scale e raccolsero funi per arrampicarsi sulle fortificazioni romane, e prepararono fascine per riempire i fossati del nemico. L’esercito di soccorso attaccò a mezzanotte, lanciando fortissime urla per far capire a Vercingetorige le proprie intenzioni, dal momento che i due eserciti gallici non avevano la possibilità di comunicare, a causa dei Romani che erano accampati tra le loro posizioni. Il comandante arverno ordinò che venissero suonate le trombe come segnale di attacco per i propri guerrieri, i quali si diressero verso il corrispondente tratto della linea di circonvallazione. Tuttavia impiegarono molto tempo per organizzarsi, e gliene servì ancora di più per riempire ulteriori tratti del fossato romano. Alla fine tardarono e non riuscirono ad aiutare i loro compagni. Lo scontro fu cruento, ma Marco Antonio e il legato Trebonio, che erano stati incaricati di difendere quella sezione delle linee, dispiegarono le riserve e respinsero entrambi gli attacchi. Le difese costruite con tanta fatica dagli uomini di Cesare avevano dato prova della loro solidità32.
Prima di sferrare un altro attacco, i quattro comandanti dell’esercito di soccorso si premurarono di fare ricognizioni e di parlare con gli abitanti della zona, che conoscevano il territorio. Convennero che il punto più vulnerabile era un accampamento romano situato su una collina che costituiva l’estremità nord-occidentale di una catena montuosa a forma di mezzaluna che circondava la città. I Romani non erano riusciti a includere la collina nelle loro linee difensive, perché la costruzione delle stesse era già stata estremamente gravosa e questa inclusione avrebbe comportato ulteriori e massicci sforzi. L’accampamento era occupato da due sole legioni, ma Commio e gli altri capi decisero di farlo attaccare da un quarto della loro fanteria, circa sessantamila guerrieri scelti. Vercassivellauno fece uscire i suoi uomini in piena notte e li guidò sulla parte opposta della collina, dove potevano attendere senza essere scorti dal nemico. Prima dell’assalto vero e proprio previsto per mezzogiorno, furono lanciati degli attacchi diversivi in altri punti. Vercingetorige vide alcuni dei preparativi e, sebbene non conoscesse i dettagli del piano, decise di aiutare come meglio poteva sferrando un attacco a tutto campo contro le linee interne. A mezzogiorno Vercassivellauno e i suoi uomini si riversarono dalla cima della collina e si diressero verso l’accampamento vulnerabile. Attaccati simultaneamente da più parti, i difensori romani si sparpagliarono e subirono forti pressioni. Le linee erano molto estese, ma il proconsole si mise in un punto in cui poteva controllare quasi tutta la situazione e ordinò alle riserve di rinforzare i settori minacciati. Cesare, comunque, si fidava dei suoi ufficiali, e voleva che lo tenessero informato o prendessero l’iniziativa, qualora non ci fosse il tempo per consultarlo. Vercassivellauno cominciò a procedere risolutamente contro l’accampamento sul fianco della collina e Cesare inviò Labieno – il suo subordinato migliore – alla guida di sei coorti per rinforzarlo, dicendogli di valutare la situazione e di abbandonare la postazione se non ci fossero state le condizioni per mantenerla.
Subito dopo, consapevole che la semplice osservazione e la direzione delle operazioni non erano sufficienti in quel momento, andò dai suoi uomini e li incoraggiò mentre combattevano, dicendo loro che quel giorno si sarebbe decisa l’intera guerra. I primi attacchi di Vercingetorige e dei suoi guerrieri contro le sezioni più deboli della linea di circonvallazione furono respinti. Poi i Galli si spostarono per attaccare dai numerosi punti che, protetti dai pendii delle colline, erano meno controllati dai Romani. Riuscirono a valicare la fortificazione e usarono funi e rampini per raggiungere una delle torri. Cesare inviò sul posto Decimo Bruto con alcune truppe, ma non riuscì a ostacolare il nemico. Furono mandate in aiuto ulteriori coorti guidate da Gaio Fabio e la breccia nella linea difensiva fu bloccata. Risolta l’emergenza, Cesare se ne andò per vedere cosa stesse facendo Labieno nell’accampamento sulla collina, ma non partì da solo: riunì velocemente quattro coorti da una delle torrette vicine e divise la cavalleria che non era impegnata nel combattimento in due unità, portando una forza con sé e inviando l’altra fuori dalla linea di controvallazione per colpire gli uomini di Vercassivellauno sul fianco dello schieramento. Gli uomini di Labieno avevano ormai perso il controllo della fortificazione, ma il legato era riuscito a trovare altre quattordici coorti da aggiungere alle sei che lo avevano accompagnato e alle due legioni che presidiavano l’accampamento. Con questa straordinaria forza aveva messo insieme una linea di combattimento sia dentro che vicino alla fortificazione e inviato dei messaggeri a Cesare per informarlo su ciò che stava succedendo. Era stata valutata ogni possibile emergenza durante l’assedio (per molti versi, almeno per quel che riguarda i Commentarii, questo fu il momento culminante delle campagne di Cesare dal 58 a.C.). Nel suo resoconto vengono evidenziate le valorose azioni di Labieno e dei legati, ma alla fine l’attenzione è focalizzata sullo stesso autore. Il suo
arrivo fu riconosciuto dal colore del mantello che di solito indossava in battaglia e videro gli squadroni di cavalleria e le coorti che avevano l’ordine di seguirlo. Entrambi gli eserciti levarono alte grida, un grande clamore rispose dal vallo e da tutte le fortificazioni. I nostri lasciarono da parte i giavellotti e misero mano alle spade. All’improvviso comparve la cavalleria dietro i nemici. Altre coorti stavano accorrendo: i Galli volsero le spalle. I cavalieri affrontarono gli avversari in fuga. Fu strage. Sedullo, comandante e principe dei Lemovici aremorici, cadde; l’arverno Vercassivellauno fu catturato vivo, mentre tentava la fuga; a Cesare vennero portate settantaquattro insegne militari; di tanti che erano, solo pochi nemici raggiunsero salvi l’accampamento33.
Il contrattacco romano fece pendere la bilancia a favore di Cesare. Il tentativo di irrompere nelle linee romane fu respinto col sangue. Vercingetorige e i suoi uomini non riuscirono neanche a indietreggiare e a ritirarsi quando videro la disfatta totale dell’esercito di soccorso. Sebbene gli esiti della battaglia non siano stati così semplici e immediati come affermato da Cesare, l’importanza decisiva della sua vittoria è incontestabile. La rivolta perse vigore. Vercingetorige e i suoi uomini erano ormai privi di scorte alimentari e non videro alcuna via di fuga. La forza di supporto aveva sferrato due grandi attacchi e li aveva falliti entrambi. Un esercito tribale così grande non poteva sperare di sostentarsi ancora a lungo e non c’era modo di preparare un assalto vittorioso senza prima dividersi34.
Il giorno successivo Vercingetorige convocò i capi delle tribù alleate. Consigliò di arrendersi, dicendo che si sarebbe consegnato ai Romani, e pare che nessuno abbia obiettato. Furono inviati dei messaggeri a Cesare, il quale chiese subito che venissero consegnate le armi e che si arrendessero i capi. Nei Commentarii il momento della resa viene descritto in breve. Secondo Plutarco e Dione Cassio, Vercingetorige indossò la sua armatura più elegante e uscì dalla città cavalcando il suo miglior cavallo da guerra. Avvicinandosi al tribunale in cui Cesare era seduto sulla sua sedia da magistrato, il capo arverno cavalcò una volta attorno al suo avversario, smontò da cavallo, depose le armi e si sedette ai suoi piedi, in attesa di essere portato via. Il protagonista dei Commentarii non poteva essere oltraggiato in questo modo35.
Praticamente tutte le tribù coinvolte nella rivolta si arresero. Per certi versi l’unione di tanti popoli differenti rese ancora più importante la vittoria conclusiva di Cesare. Alla fine le tribù celtiche/galliche avevano sperimentato la forza militare delle legioni e ne erano uscite del tutto sconfitte. Tutte avevano ormai accettato la realtà della conquista. Cesare fu clemente con i prigionieri degli Edui e degli Arverni, e forse anche con quelli delle altre tribù loro alleate. Questi uomini non furono venduti come schiavi, anche se Vercingetorige rimase prigioniero fino alle celebrazioni del trionfo di Cesare, dove venne strangolato secondo il tradizionale rito romano. Tuttavia ci furono numerosi altri prigionieri che poterono essere venduti e i loro ricavi vennero divisi tra gli uomini dell’esercito. Cesare fu indulgente con gli Edui e con gli Arverni perché erano popolazioni importanti, che preferiva avere come alleati più o meno consenzienti. Aveva ottenuto una vittoria militare, ma sapeva che la creazione di una pace duratura sarebbe dipesa dalla politica e dalla diplomazia. Nel caso di entrambe le tribù, sembra aver funzionato36.