«Guarda Gneo Pompeo, che non è al sicuro, nonostante la fama e la gloria delle sue gesta, o i favori dei re e dei popoli suoi clienti di cui spesso si è vantato; e anche la possibilità di una fuga dignitosa, concessa perfino al più umile, a lui è negata. È stato scacciato dall’Italia, ha perso le sue province in Spagna, gli è stato catturato l’esercito di veterani, e ora, come se non bastasse, è stato circondato. Non credo che un altro generale abbia mai subito simili cose».
publio cornelio dolabella, che scrive a Cicerone dall’accampamento di Cesare all’esterno di Durazzo, maggio-giugno del 48 a.C.1
«Ma la Fortuna, che ha grande potere in tutti gli eventi, ma soprattutto in guerra, in breve spazio di tempo produce grandi mutamenti, e così avvenne allora».
cesare2
Cesare lasciò il comando della Spagna a Quinto Cassio Longino. Era una carica insolita per un tribuno della plebe, ma le istituzioni romane stavano attraversando una fase anomala e, poiché aveva già militato in Spagna durante la sua questura, Cassio aveva maturato un po’ di esperienza con i popoli della regione. La scelta non si rivelò appropriata. Cesare accoglieva chiunque si schierasse dalla sua parte, e ricompensava la lealtà con onori, cariche e ricchezza (una volta disse che avrebbe ricompensato adeguatamente anche un criminale, qualora lo avesse aiutato). Cicerone e altri provavano disprezzo nei confronti del gruppo di vagabondi dissoluti che si erano uniti in massa a Cesare, li ritenevano persone che avevano sperperato la propria eredità e che ora attendevano di governare la repubblica. Svetonio afferma che negli anni precedenti il 49 a.C. Cesare diceva loro scherzosamente che avevano bisogno di una guerra civile. Di sicuro, c’erano numerosi disperati ai quali la vittoria di Cesare avrebbe offerto un’ultima possibilità di ricchezza e il successo nella vita pubblica. Tuttavia sarebbe errato fidarsi dei generici giudizi di Cicerone e della propaganda pompeiana, senza tener conto delle loro motivazioni. Di certo i legati e gli ufficiali di Cesare, a parte poche eccezioni, non si distinsero per la loro destrezza o onorabilità durante la guerra civile, anzi molti commisero vari errori. Ma anche la competenza e l’onestà di numerosi ufficiali pompeiani, nonostante avessero nomi più illustri, furono altrettanto discutibili, giacché moltissimi ex-consoli dello schieramento di Pompeo in passato erano stati accusati di corruzione elettorale. Cesare aveva il vantaggio di riuscire a far rispettare i suoi ordini e di non avere a che fare con uomini ostinati e disobbedienti come Domizio Enobarbo, ma le cose tendevano comunque ad andare meglio quando lui era presente. Trebonio e Decimo Bruto avevano gestito in maniera efficace l’assedio di Marsiglia. Curione aveva protetto la Sicilia senza dover combattere, perché Catone, inviato dai pompeiani a prendere il comando dell’isola, non aveva sufficienti forze a sua disposizione e non aveva ritenuto opportuno mettere a repentaglio vite umane per una difesa senza speranza. Dopo questo successo, Curione condusse le legioni verso il Nordafrica, nell’estate del 49 a.C. All’inizio gestì bene la situazione, ottenendo una vittoria schiacciante contro una potente forza pompeiana, ma in seguito fu attirato in un’imboscata dall’esercito numida del re Giuba. Curione e numerosi suoi soldati morirono durante lo scontro. Altri vennero uccisi mentre tentavano di fuggire o furono giustiziati per ordine del re dopo essersi arresi. Solamente pochissimi uomini riuscirono a scappare, e tra di essi Asinio Pollione, ed è probabile che il lusinghiero ritratto di Curione fatto da Cesare nei Commentarii fosse il motivo per il quale in seguito Pollione contestò l’attendibilità di alcuni passaggi del testo. Lucio, il fratello minore di Marco Antonio, subì una sconfitta di minore importanza nell’Illiria e si arrese insieme a quindici coorti3.
Le notizie di questi contrattempi giunsero a Cesare mentre tornava dalla Spagna. Ovviamente non erano buone, ma continuava ad avere l’iniziativa ed era determinato ad affrontare Pompeo e il suo esercito principale appena si fosse presentata l’occasione. Ad ogni modo, la ribellione che esplose nelle sue legioni accampate a Placentia (l’odierna Piacenza), nell’Italia settentrionale, fu di sicuro più preoccupante. I problemi cominciarono nella Nona legione, che aveva combattuto valorosamente per Cesare in Spagna. Come molti ammutinamenti che si sono susseguiti nel corso della Storia, le sue cause furono molteplici e le proteste si inasprirono e vennero alla luce durante un periodo di riposo e inattività. L’esito della guerra era ancora imprevedibile e Cesare aveva bisogno del supporto dei suoi legionari; per questo motivo molti di loro ipotizzarono probabilmente di trovarsi in una posizione favorevole per rivendicare delle concessioni. Alcuni avevano concluso il loro periodo di servizio e volevano congedarsi, mentre altri si lamentarono di non aver ricevuto la ricompensa di cinquecento denari che Cesare aveva promesso a Brindisi all’inizio dell’anno. Il malcontento dipendeva anche dalla mitezza e dalla clemenza con le quali il proconsole stava affrontando la guerra, perché secondo i suoi uomini queste contribuivano a posticipare la vittoria e, cosa forse più importante, li privavano del bottino dei saccheggi. Cesare era ancora a Marsiglia quando ricevette la notizia della rivolta, ma subito accorse sul posto e incontrò gli ammutinati. Il proconsole parlò a loro con un tono severo e inflessibile e spiegò che bisognava avere cautela in un conflitto così importante. In seguito annunciò di voler decimare la Nona, un’antica punizione per cui i legionari venivano suddivisi in gruppi di dieci, e in ogni gruppo veniva sorteggiato a caso un uomo che doveva essere poi colpito a morte dai suoi commilitoni. Il resto della legione sarebbe stato licenziato con disonore dall’esercito. I veterani rimasero sbigottiti e gli ufficiali supplicarono la grazia al loro rigido comandante. Cesare, che sapeva come affrontare simili situazioni, a poco a poco si ammorbidì e alla fine annunciò che solo centoventi sediziosi avrebbero partecipato al sorteggio da cui sarebbero stati scelti i dodici uomini da giustiziare. Pare che la selezione fu manipolata per garantire che venissero sorteggiati i nomi dei principali fomentatori della rivolta. Appiano, tuttavia, sostiene che tra i dodici venne selezionato un uomo che non era neanche presente durante l’ammutinamento. Appena Cesare lo scoprì, liberò il soldato e lo sostituì con il centurione che aveva cercato di ordire la morte di un innocente in maniera così vile. Era la prima volta dal 58 a.C. che Cesare si ritrovava a dover affrontare un caso serio di insubordinazione da parte dei suoi soldati, ma la rivolta venne soppressa presto. La Nona avrebbe combattuto eroicamente nella campagna successiva, così come le altre truppe di Cesare. Nei Commentarii, comunque, non c’è alcun riferimento all’intera vicenda4.
Pompeo, invece, fin da quando, a marzo, era salpato da Brindisi per sfuggire al nemico, aveva messo in pratica tutte le sue capacità organizzative per creare l’esercito con cui avrebbe ottenuto la vittoria definitiva. Nel frattempo utilizzò i suoi contatti nella regione – quasi tutte le comunità e di sicuro tutti i principali governanti erano tra i suoi clienti – per mobilitare uomini e risorse del Mediterraneo orientale, per fornire ai suoi soldati i salari, il cibo e gli equipaggiamenti, e per incrementare il loro numero con alleati e ausiliari. Aveva nove legioni, un insieme di truppe che aveva portato con sé e nuove unità reclutate tra i cittadini che vivevano in Grecia o in Asia. Metello Scipione era andato in Siria a prendere le sue legioni che presidiavano il confine con la Partia e che si sarebbero unite all’esercito di Pompeo prima del conflitto decisivo. Una frenetica attività diplomatica aveva garantito che i Parti non minacciassero la provincia, ma è difficile sapere se le fonti a nostra disposizione siano attendibili quando affermano che furono fatti vari tentativi per chiedere un aiuto militare all’esercito partico. Senza dubbio Pompeo fece un ampio utilizzo di truppe straniere, e radunò una forza di cavalleria particolarmente grande. C’erano ormai tutti i presupposti per creare un esercito forte e con il passare dei mesi si dedicò a addestrare i soldati inesperti. In quel periodo aveva cinquantasette anni. Ne erano passati più di tredici, dall’ultima volta che era stato su un campo di battaglia ma, nonostante ciò, sembra che tutti rimasero impressionati dalla sua energia. Il comandante si addestrò con i suoi uomini, fece le esercitazioni con l’equipaggiamento dei legionari e montò a cavallo per mostrare alla cavalleria il modo in cui avrebbe dovuto combattere. Plutarco afferma che riusciva a lanciare un giavellotto più lontano e con maggiore precisione e forza di molti altri uomini più giovani di lui. Con una simile fonte di ispirazione, cominciò a prender forma un esercito forte ed efficace, e con il passare del tempo i pompeiani diventarono sempre più potenti5.
Durante l’assenza di Cesare ci fu anche una fuga di senatori che decisero di porre fine alla loro neutralità e abbandonarono l’Italia per unirsi ai pompeiani. Alcuni se ne andarono perché credevano che Pompeo avrebbe vinto e speravano di unirsi ai vincitori, per altri fu una questione di coscienza o di convincimento da parte delle famiglie o degli amici. Una strana peculiarità della guerra civile fu che le lettere continuarono ad essere inviate liberamente e gli uomini di uno schieramento rimasero in contatto con i loro corrispondenti dell’altro. Tra di essi, il personaggio più illustre che a questo punto del conflitto decise di svolgere un ruolo più attivo fu Cicerone, che, dopo aver meditato a lungo, salpò verso la Grecia, anche se continuava a ritenere inutile la guerra civile e a detestare il piano di Pompeo di abbandonare Roma e l’Italia. La clemenza mostrata da Cesare l’aveva confortato, sebbene non fosse sicuro che sarebbe durata a lungo e che il proconsole, una volta che il suo dominio fosse diventato indiscutibile, non si sarebbe rivelato crudele, come lo era stato Cinna negli anni Ottanta. Curione gli aveva fatto visita mentre si dirigeva verso la Sicilia per invaderla e non era riuscito ad attenuare i suoi timori. Il tribuno aveva detto apertamente che considerava la moderazione di Cesare una questione puramente politica, in contrasto con la sua indole crudele, però con il tempo il velo si sarebbe lacerato e la sua vera natura sarebbe uscita allo scoperto. Il fatto che un alleato pronunciasse simili parole risultava abbastanza strano, ma Curione non era mai riuscito a tenere a freno la lingua. Egli, però, si era unito a Cesare da appena un anno e non lo conosceva a fondo, perciò il suo giudizio potrebbe essere opinabile, anche perché gli eventi successivi dimostrarono che Cesare continuò ad essere indulgente con i propri nemici e non tentò mai di governare con la strategia del terrore. Nel corso di tutta la sua vita è difficile riscontrare una qualsiasi traccia di crudeltà; poteva essere davvero spietato se sentiva che ciò gli avrebbe apportato dei vantaggi, e si irritava facilmente, ma non fu mai crudele senza motivo. Cicerone non era sicuro di come Cesare si sarebbe comportato in futuro. Le sue sensazioni riguardo a Pompeo erano simili. Credeva che chiunque avesse vinto la guerra civile sarebbe diventato a tutti gli effetti un dittatore e avrebbe avuto il potere reale (regnum). Tuttavia continuava a sentire un profondo legame con Pompeo e provava rispetto per gli uomini illustri che lottavano al suo fianco. In ogni caso, era un rispetto rivolto più agli uomini che desiderava fossero, che a quelli che erano realmente, ma non per questo era meno forte. Inoltre odiava l’inattività, sebbene non volesse partecipare alla vita politica di una repubblica controllata da Cesare. Nonostante le lettere ricevute dagli amici e dai familiari che facevano parte dell’esercito del proconsole, e dallo stesso Cesare, Cicerone alla fine decise che doveva schierarsi dalla parte dei pompeiani, e anche suo fratello Quinto, dopo anni di servizio come legato di Cesare in Gallia, fece lo stesso6.
Ci furono delle defezioni, ma la maggioranza del senato rimase neutrale e Cesare continuò a dare una parvenza di normalità alla vita pubblica di Roma. Ormai sperava di giungere al consolato nel 48 a.C., ma non c’era alcun console che potesse presiedere alle elezioni. Un pretore era disponibile, ma tale magistratura non aveva mai supervisionato la nomina dei nuovi consoli, e quando Cesare avanzò la proposta fu respinta dal collegio degli àuguri. Di conseguenza, affinché potessero essere indette le elezioni, Cesare venne nominato dittatore dal pretore Marco Lepido. In passato c’era stato un unico caso simile e risaliva ai periodi bui della seconda guerra punica. Cesare tornò a Roma, convocò i comitia centuriata e venne regolarmente eletto console per l’anno successivo insieme a Publio Servilio Vatia Isaurico. Dal punto di vista strettamente legale, fu un’azione poco ortodossa, sebbene sia perfettamente possibile che in quel momento non ci fossero altri candidati alle elezioni. Cesare sarebbe nuovamente diventato console nel 48 a.C., dieci anni dopo il suo primo mandato. Il suo collega era il figlio dell’uomo per il quale era stato in servizio in Asia negli anni Settanta, ed era un rinomato membro dell’élite romana, marito di una nipote di Catone. Questa è un’altra dimostrazione della complessità e della confusione che caratterizzarono le alleanze durante la guerra civile.
Si tennero le elezioni anche per le altre magistrature – Celio Rufo divenne pretore – e subito dopo Cesare usò i suoi poteri di dittatore per approvare una serie di leggi. Una di queste servì a richiamare dall’esilio tutti gli uomini che erano stati condannati dai tribunali straordinari di Pompeo nel 52 a.C. Milone venne specificatamente escluso, perciò chi trasse più benefici da tale legge furono le personalità legate a Clodio. Cesare fece richiamare anche Sallustio, che era stato esiliato da Appio Claudio quando era censore, e Gabinio, il governatore siriano che aveva fatto ritornare Tolomeo sul trono egizio; entrambi avrebbero combattuto al suo fianco durante la guerra. Inoltre vennero ripristinati i pieni diritti politici per i figli delle vittime delle proscrizioni di Silla. Tali misure furono adottate principalmente per rafforzare la fedeltà dei sostenitori e per crearne di nuovi. D’interesse più generale fu il problema dell’indebitamento, perché in alcuni casi il valore delle proprietà era crollato dall’inizio della guerra. Molte persone che dovevano versare grandi somme di denaro, e che si erano unite a Cesare, fecero pressioni affinché il debito venisse abolito. La richiesta di «nuove tavole» (novae tabulae) – che significava la cancellazione di tutti i registri contabili per ricominciare da zero – era stata frequente nei decenni precedenti ed era stato un tema ricorrente negli incontri dei ribelli di Catilina, perciò molti temettero che Cesare, famoso per essere un popularis e un debitore cronico, volesse adottare gli stessi mezzi per avere ulteriori sostenitori. Il dittatore, invece, rifiutò di ricorrere a simili e drastiche misure e cercò di giungere a un compromesso. Furono nominati dei periti per stimare il valore che avevano tutte le proprietà prima della guerra, e in base a tale valutazione i debitori dovettero versare la relativa somma ai loro creditori. Venne ripristinata anche una vecchia legge secondo la quale nessuno doveva avere più di quindicimila denari in contanti. L’obiettivo era impedire l’accumulo di denaro, che aveva un impatto negativo sulla vita economica di Roma e dell’Italia, ma l’applicazione di questa misura fu inevitabilmente difficile7.
Dopo soli undici giorni, Cesare rinunciò all’incarico di dittatore e andò via da Roma. Non attese gennaio per assumere il consolato, come previsto dalla legge, ma si diresse di corsa verso Brindisi, dove aveva ordinato al suo esercito di radunarsi e dove doveva affrontare il problema delle navi da trasporto perché, nonostante gli enormi sforzi dei suoi ufficiali durante gli ultimi sei mesi, continuavano ad essere del tutto insufficienti. Nei pressi di Brindisi, Cesare aveva dodici legioni – circa venticinquemila o trentamila effettivi, dal momento che avevano subito numerose perdite, e molti feriti e convalescenti erano rimasti indietro nella marcia di ritorno dalla Spagna – ma le imbarcazioni a disposizione potevano trasportare solamente quindicimila fanti e cinquecento cavalieri. Queste truppe avrebbero dovuto comunque viaggiare con pochi bagagli indispensabili, mentre il limite di cavalieri era dovuto all’ampio spazio di cui necessitavano i loro cavalli. Ovviamente un’unica traversata non sarebbe stata sufficiente, ma il rischio che le prime truppe sbarcate potessero essere travolte dal nemico era concreto. Anche il viaggio iniziale poteva essere pericoloso, perché i pompeiani avevano radunato una flotta molto grande composta da circa cinquecento navi da guerra e numerose imbarcazioni più piccole, utilizzate per pattugliare le acque. La maggior parte di tale armata era comandata da Bibulo ed era attraccata nei porti della riva orientale dell’Adriatico per intercettare qualunque forza nemica. Cesare aveva solo dodici galee da guerra, che di sicuro non sarebbero bastate per proteggere le navi da trasporto, se fossero state attaccate dalla flotta avversaria, e in ogni viaggio intrapreso per portare il proprio esercito sulla costa opposta dell’Adriatico doveva affrontare tale minaccia. Cesare comprendeva l’importanza di questi problemi, ma era anche consapevole che difficilmente le cose sarebbero cambiate nell’immediato futuro. Era ansioso di colpire il cuore del nemico, e sapeva che, se avesse aspettato ancora, Pompeo avrebbe avuto il tempo per diventare più forte e organizzarsi meglio. Le avverse condizioni meteorologiche lo bloccarono per alcune settimane e non riuscì a salpare prima del 4 gennaio del 48 a.C. Un anno prima nessuno poteva prevedere che avrebbe attaccato nei mesi invernali, quando, come in questo caso, gli eserciti solitamente riposavano. Le legioni di Pompeo erano disseminate nei loro accampamenti invernali e la flotta di Bibulo non era ancora pronta, così Cesare riuscì ad attraversare l’Adriatico e a sbarcare a Palaeste, sulla costa dell’Epiro, senza incontrare alcuna opposizione. L’operazione fu svolta con rapidità e le navi furono rimandate a Brindisi quella stessa notte, ma il nemico capì ciò che stava accadendo e riuscì a bloccare alcune imbarcazioni. Cesare afferma che Bibulo si infuriò a tal punto da ordinare che le navi catturate venissero incendiate con tutto il loro equipaggio a bordo. La maggior parte della flotta riuscì a ritornare a Brindisi indenne, ma era chiaro che il convoglio successivo avrebbe affrontato un nemico all’erta e in attesa8.
Per il momento Cesare rimase privo di rinforzi e rifornimenti; aveva con sé sette legioni, ognuna delle quali era composta da circa 2.140 uomini, e cinquecento cavalieri, però non aveva avuto abbastanza spazio per trasportare grandi quantità di provviste e dovette cercare di procurarsele sul posto. Il calendario romano era settimane più avanti rispetto al corso delle stagioni naturali, pertanto l’autunno era quasi finito e Cesare doveva trovare il modo per tenere l’esercito concentrato e per sfamarlo durante gli imminenti mesi invernali mentre continuava a combattere contro il nemico. La notte successiva allo sbarco marciò verso la città di Orico, che si arrese immediatamente dopo che la sua popolazione si ribellò contro la piccola guarnigione pompeiana. Secondo i Commentarii, gli abitanti non erano intenzionati a contrastare un uomo che aveva ricevuto legalmente l’imperium dal popolo romano, ma la loro decisione dipese forse anche dalla valutazione razionale che i pompeiani avrebbero avuto scarse possibilità di vincere la guerra. Dato che buona parte della popolazione italica non si era schierata con nessuna delle due fazioni, non stupisce il fatto che anche nelle province ci fossero pochissimi segni di partecipazione alla contesa. Il comandante della guarnigione, Lucio Manlio Torquato, come di consueto, fu risparmiato da Cesare e decise di unirsi a lui. Dopo questo successo, il proconsole si diresse verso Apollonia, e ancora una volta la popolazione rifiutò di combattere contro di lui e i pompeiani furono costretti a fuggire. Quasi tutto l’Epiro seguì subito l’esempio di queste popolazioni e si schierò dalla parte di Cesare, che riuscì così ad assicurarsi una base in Grecia e le città poterono temporaneamente sostentare il suo esercito. Si impossessò pure di alcune riserve di viveri radunate dal nemico, anche se un convoglio di navi cariche di grano ancorate nei pressi di Orico venne scortato da alcune imbarcazioni inviate dai pompeiani e spostato rapidamente altrove. Il principale deposito di provviste di Pompeo si trovava a Dyrrachium (oggi Durazzo, in Albania), in un punto più settentrionale della costa. Cesare lanciò un’offensiva per catturare questo importante obiettivo, ma il nemico stava ormai cominciando a reagire. Pompeo ordinò alle sue legioni di concentrarsi, le costrinse a marciare verso Durazzo e arrivò prima di Cesare, che subito si ritirò. Il nemico poteva contare su nove legioni, ognuna delle quali aveva quasi tutti i suoi effettivi, a differenza di quelle di Cesare, che ne avevano circa la metà. I pompeiani, tuttavia, erano stati demoralizzati dall’inaspettato sbarco dell’esercito cesariano e dai suoi successi iniziali. Labieno professò pubblicamente la sua lealtà a Pompeo e giurò di non abbandonarlo mai e di condividere il suo destino. Fu seguito dai tribuni e dai centurioni, e alla fine tutti i legionari fecero lo stesso voto collettivo9.
Cesare ritornò nell’Epiro. Nonostante controllasse i porti di Apollonia e Orico, la flotta di Bibulo era ormai diventata molto attiva e aveva creato uno sbarramento insuperabile. Un convoglio che trasportava rinforzi di legionari e di cavalleria fu costretto a tornare a Brindisi e perse una nave. Bibulo fece giustiziare tutti gli uomini a bordo, a prescindere dal loro grado. Forse sperava che una simile dimostrazione di brutalità avrebbe inibito ulteriori tentativi di traversata da parte delle truppe cesariane, ma il profondo odio che nutriva nei confronti di Cesare, che in passato era stato suo collega nelle cariche di edile, pretore e console, alimentò senza dubbio la sua rabbia. Probabilmente influì anche il dolore personale, dal momento che i suoi due figli maggiori erano stati da poco uccisi in Egitto. Bibulo combatté con una ferocia terribile, ma non fu l’unico: dall’inizio della guerra, pochi pompeiani si erano dimostrati inclini a comportarsi con la stessa clemenza e moderazione di Cesare, la cui politica, inoltre, implicando chiaramente una superiorità morale, riuscì soltanto ad accrescere la loro rabbia e a spingerli a commettere ulteriori atrocità. Cicerone rimase sconvolto dagli atteggiamenti che riscontrò nell’accampamento di Pompeo. Molti leader pompeiani dichiararono che gli uomini che avevano scelto di rimanere neutrali erano quasi peggiori dei sostenitori di Cesare, e dissero di voler infliggere punizioni collettive, una volta tornati in Italia con l’esercito10.
Cesare si accampò nei pressi del fiume Apso, non lontano da Apollonia. L’esercito di Pompeo, più numeroso, si posizionò sulla riva opposta, ma non mostrò alcuna intenzione di attaccare o di sollecitare una battaglia. Ci fu un altro tentativo di negoziazione, avviato da Cesare dopo aver rilasciato un ufficiale di Pompeo che aveva catturato per la seconda volta. La sua proposta prevedeva un giuramento per congedare i rispettivi eserciti entro tre giorni – una soluzione in apparenza equa, anche se praticamente irrealizzabile – e poi avrebbero dovuto affidarsi al giudizio del senato e del popolo romano per risolvere la loro questione. All’inizio Pompeo non rispose, ma Cesare accolse con favore l’attesa perché sperava che nel frattempo altre truppe sarebbero riuscite a partire dall’Italia per unirsi al suo esercito. Nello stesso tempo, fece pressioni sulla flotta di Bibulo, non permettendole di sbarcare. Le galee da guerra avevano equipaggi molto numerosi rispetto alla loro grandezza, perché la loro velocità e capacità di manovra dipendevano dalla forza di tantissimi rematori. C’era poco spazio per il trasporto di cibo e acqua fresca, e ce n’era ancora meno per permettere ai rematori di muoversi o di riposare, poiché il bilanciamento del loro peso corporeo fungeva da zavorra per stabilizzare l’imbarcazione; perciò dovevano attraccare a intervalli regolari – almeno ogni tre giorni – per fare rifornimenti e lasciare che l’equipaggio e i rematori recuperassero le forze. Le flotte antiche erano implacabili quando avevano delle basi nelle vicinanze o potevano contare sull’appoggio costante delle forze terrestri. Gli uomini di Cesare controllavano i porti e sorvegliavano la costa, attaccando qualunque nave cercasse di sbarcare e costringendo Bibulo a ritornare con frequenza alle sue basi sull’isola di Corcira. Con l’ulteriore problema del duro clima invernale, il mantenimento della barriera divenne uno sforzo immane per la flotta pompeiana. Bibulo chiese una tregua, però inviò il suo subordinato di grado maggiore, Lucio Scribonio Libone, a gestire le trattative, e giustificò la propria assenza dicendo che la sua personale animosità nei confronti di Cesare e la sua indole aggressiva sarebbero state deleterie per il raggiungimento di un accordo. La figlia di Libone era sposata con Sesto, il figlio minore di Pompeo, a dimostrazione degli stretti legami familiari che intercorrevano tra numerosi capi pompeiani. Cesare andò all’incontro, ma rimase deluso quando Libone gli chiese semplicemente una tregua, durante la quale le imbarcazioni di Pompeo sarebbero state libere di attraccare senza impedimenti, e in cambio promise solo di riferire a Pompeo qualsiasi cosa Cesare avesse voluto dirgli. Cesare replicò affermando che avrebbe permesso una simile tregua soltanto se il nemico avesse posto fine allo sbarramento, e chiese a Libone di garantire un salvacondotto ai messaggeri che avrebbe inviato a Pompeo. Nessuna delle due richieste fu accettata e, come scritto nei Commentarii, «quando Cesare comprese che aveva ordito tutto il suo discorso per ovviare al pericolo presente e alla mancanza di provviste e che non recava alcuna speranza o condizione di pace, ricondusse il suo pensiero alla guerra»11.
Bibulo soccombette alla malattia e alla fatica poco tempo dopo. Nessuno venne nominato comandante generale della flotta per sostituirlo ma, nonostante le difficoltà, i pompeiani continuarono a mantenere lo sbarramento, mentre sul fiume Apso gli eserciti rivali si osservavano dalle rive opposte. Ci furono altre negoziazioni, e a un certo punto Vatinio andò sulla riva del fiume e chiamò ripetutamente gli avamposti nemici fino a quando gli fu detto che un ufficiale era disposto a incontrarlo il giorno successivo. La riunione ebbe luogo come da accordo, ma fu interrotta dal furioso intervento di Labieno e finì con una pioggia di proiettili. L’ex-legato di Cesare esclamò in seguito che potevano «sospendere tutte le trattative perché non ci sarebbe stata alcuna possibilità di pace fino a quando non gli avessero consegnato la testa di Cesare!». In precedenza pare che lo stesso Pompeo avesse rifiutato le condizioni di pace, se queste fossero state interpretate come il fatto che gli veniva risparmiata la vita grazie alla «generosità di Cesare». La situazione di stallo continuò e Cesare diventò sempre più disperato mentre le settimane e i mesi passavano e dall’Italia non giungeva alcun rinforzo. Numerose fonti sostengono che iniziò ad avere sospetti sulla determinazione e sulla fedeltà dei suoi subordinati che erano ancora in Italia e, convinto che solamente la sua presenza avrebbe potuto trasmettere l’energia necessaria, decise di andare a Brindisi di persona. Partì di nascosto, travestendosi da uno dei suoi schiavi che venivano spesso utilizzati come messaggeri e imbarcandosi su una piccola nave mercantile ancorata vicino alla foce del fiume Aoos. Durante la discesa del fiume, l’equipaggio dovette lottare contro il forte vento che proveniva dal mare, e dopo un po’ i marinai decisero di rinunciare al tentativo e di tornare indietro, ma Cesare si tolse il travestimento e disse loro di non avere paura perché stavano trasportando «Cesare e la sua fortuna». I rematori e i timonieri raddoppiarono gli sforzi, cercando in tutti i modi di raggiungere il mare, ma alla fine furono costretti a cedere e a tornare indietro. È assolutamente discutibile il fatto che un generale abbia lasciato il proprio esercito in simili circostanze, anche se per andare a prendere ulteriori rinforzi, ed è probabile che proprio per questo motivo nei Commentarii non c’è alcun riferimento a tale episodio. Plutarco, però, afferma che quando i legionari scoprirono ciò che era successo non si sentirono abbandonati, ma solamente offesi dal fatto che il comandante fosse convinto di non poter vincere solo con il loro aiuto. Quando tornò all’accampamento, gli uomini si radunarono attorno a lui e lo implorarono di avere più fiducia nei loro confronti, e tale atto testimonia l’incredibile legame che si era venuto a creare tra il generale e i suoi soldati sin dai primi giorni della campagna in Gallia12.
Finalmente, il 10 aprile, Marco Antonio riuscì a salpare da Brindisi con le restanti truppe e a sbarcare nei pressi di Lisso, nella Grecia settentrionale, con quattro legioni e ottocento cavalieri. La reazione di Pompeo fu troppo lenta e non riuscì a evitare che le due forze cesariane si unissero. Cesare aveva ormai un esercito più potente a sua disposizione e, pur essendo ancora in inferiorità numerica, soprattutto per quel che riguardava la cavalleria, poteva contare sulla forza dei suoi veterani per controbilanciare tale svantaggio. L’arrivo di nuove truppe, tuttavia, accrebbe i problemi di approvvigionamento, specialmente quando l’esercito era costretto a stazionare in un unico luogo per lunghi periodi. Numerosi distaccamenti vennero inviati in Tessaglia e in Macedonia, per proteggere gli alleati, mentre con la restante parte dell’esercito Cesare sfidò in battaglia l’avversario, che però si rifiutò di combattere. Pompeo era convinto di poter logorare le forze nemiche privandole del cibo, e Cesare, consapevole di tale pericolo, decise di provare ancora una volta a conquistare il principale deposito di provviste di Pompeo a Durazzo. Questa volta giunse prima del rivale, ma non riuscì ad essere abbastanza veloce da espugnare la città e appropriarsi degli approvvigionamenti al suo interno, e quindi si accampò tra Durazzo e l’esercito pompeiano, il quale si era posizionato su una collina chiamata Petra, che si affacciava su un porto naturale. Avendo un accesso diretto al mare, Pompeo riuscì a restare in contatto sia con la città che con le forze dispiegate altrove, e ordinò che i convogli di grano venissero inviati direttamente all’esercito dalla lontana Asia. L’accampamento di Cesare si trovava in una posizione elevata nell’entroterra e le sue truppe dovettero accontentarsi del cibo e del foraggio che trovavano nei territori circostanti. Decise di costruire una linea di fortificazione sulle colline, sia per proteggere le sue squadre di foraggiatori, sia per ostacolare quelle inviate dai pompeiani, i quali avevano molti più cavalli da monta e animali da macello e necessitavano quindi di più foraggio. Inoltre «desiderava indebolire il prestigio (auctoritas) di Pompeo nei territori stranieri, e quando la storia che era stato assediato da Cesare e si era rifiutato di combattere si fosse diffusa in tutto il mondo, avrebbe raggiunto il suo obiettivo». Pompeo non poteva permettersi di ripiegare e di lasciare che Cesare conquistasse Durazzo e i suoi depositi; ordinò quindi ai propri uomini di costruire una linea di fortificazione di fronte alle truppe cesariane. Ci furono delle schermaglie per assicurarsi i punti chiave lungo i terreni elevati, e in un’occasione venne ordinato a un distaccamento della Nona di ritirarsi da una posizione in cui era troppo vulnerabile agli attacchi degli arcieri e dei frombolieri nemici. A un certo punto la legione guidata da Marco Antonio tornò indietro, attaccò e mise in fuga i suoi inseguitori, per dimostrare che la ritirata non era dipesa dal timore di una sconfitta, ma era stata una scelta intenzionale. Una volta terminata, la fortificazione pompeiana era lunga quindici miglia romane e rafforzata da ventiquattro torrette. Cesare si era posizionato sul lato esterno e la sua linea dovette essere inevitabilmente più lunga, soprattutto perché sperava di accerchiare completamente il nemico. La sua fortificazione, alla fine, si estese per circa ventisette chilometri13.
Gli uomini di Cesare erano ancora a corto di viveri, poiché, nonostante il calendario indicasse che la primavera era già cominciata da tempo, secondo il corso delle stagioni naturali era ancora inverno. Il bestiame era abbastanza numeroso, e l’abbondante carne a disposizione mutò in profondità la dieta abituale dei legionari. Il grano era introvabile e spesso gli uomini dovettero accontentarsi dell’orzo, che di solito veniva utilizzato per foraggiare gli animali, ma a volte ebbero difficoltà a procurarsi anche questo e furono costretti ad arrangiarsi con la radice di una pianta chiamata «charax», che poteva essere unita al latte e cotta in forno, in una sorta di pagnotta. Quando Pompeo vide alcune di queste pagnotte, il suo triste commento fu che stavano combattendo contro bestie e non contro uomini. I soldati di Cesare, però, potevano accedere facilmente ai rifornimenti d’acqua ed ebbero l’ordine di deviare o arginare i ruscelli che attraversavano il loro accampamento e fluivano in quello nemico. I pompeiani, così, pur avendo cibo in abbondanza grazie alle provviste che arrivavano costantemente dal mare, cominciarono a esaurire le riserve d’acqua, e Pompeo ordinò di scavare nuovi pozzi, ma i risultati furono scarsi. Tantissimi uomini vennero concentrati in una piccola area all’interno delle loro linee di fortificazione, e oltre ai soldati e agli schiavi c’erano anche numerosi animali. L’acqua e il mangime vennero dati prima ai cavalli da monta, e molti animali da carico e da tiro iniziarono a morire o vennero uccisi di proposito. Negli accampamenti sovraffollati dilagarono anche le malattie, forse soprattutto il tifo, ma le descrizioni delle fonti sono abbastanza vaghe. Entrambi gli schieramenti stavano penando in quello che era diventato a tutti gli effetti un assedio su scala gigante, ma, dato che erano ormai immersi nello scontro, nessun comandante era intenzionato a cedere, anzi, veniva incoraggiato a resistere dai problemi del rispettivo nemico. Cesare sentiva che la propria fiducia era condivisa anche dai suoi soldati, e a volte lanciavano pagnotte di charax nelle linee nemiche come segno provocatorio della loro determinazione. Mentre le settimane passavano e nei campi cominciavano a maturare i raccolti, la possibilità di avere grano in abbondanza fomentò ulteriormente gli uomini di Cesare, il quale sostiene che alcune sue sentinelle si dichiararono disposte a mangiare perfino la corteccia degli alberi, pur di non lasciarsi sfuggire Pompeo14.
La costruzione delle fortificazioni proseguì, e Cesare continuava a sperare di completare il suo accerchiamento per costringere Pompeo a dileguarsi dal mare e a rompere le linee del nemico o vedere languire il proprio esercito. Le schermaglie e gli assalti intanto continuarono. Gli arcieri e i frombolieri pompeiani cominciarono a scagliare i loro proiettili in direzione dei fuochi dell’accampamento di Cesare. I soldati però avevano deciso di dormire lontano dalle fiamme, perché preferivano nascondersi e stare al freddo, piuttosto che esporsi al pericolo. Pompeo in seguito lanciò una serie di attacchi più incisivi ad alcune sezioni delle fortificazioni avversarie, mettendo alla prova la loro solidità e sondando eventuali punti deboli. Il tentativo di conquistare una collina strategica fu respinto da Publio Cornelio Silla – nipote del dittatore, il cui figlio Fausto stava invece con i pompeiani –, accorso con due legioni per rafforzare la posizione minacciata. Le truppe di Pompeo furono costrette a ripiegare, ma Silla decise di non sferrare un contrattacco per approfittare della situazione. Cesare apprezzò la sua cautela e la definì degna di un legato, dal momento che simili decisioni erano prerogativa del comandante in capo. I Commentarii descrivono con orgoglio il coraggio dei legionari di Cesare: in un settore, ad esempio, tre coorti della Nona opposero resistenza a un’intera legione supportata da numerosi arcieri e frombolieri alleati. Dopo un giorno di aspri scontri, praticamente tutti i difensori erano rimasti feriti, sebbene molti di loro fossero ancora capaci e desiderosi di combattere. La maggior parte delle ferite fu causata dai proiettili: pare che dopo il respingimento degli ultimi attacchi, all’interno della fortificazione vennero raccolte circa trentamila frecce. Quattro dei sei centurioni di una coorte furono colpiti al volto e persero un occhio. Lo scudo di un centurione, un uomo chiamato Sceva, venne colpito da almeno centoventi proiettili, e altre fonti sostengono che egli era uno degli uomini che avevano perduto l’occhio, ma, nonostante questa ferita e altre alla coscia e alla spalla, continuò a combattere. A un certo punto finse di volersi arrendere, e quando il nemico avanzò, uccise un uomo e amputò il braccio a un altro. Sceva e i suoi uomini, in seguito, difesero la propria posizione con tale accanimento, che nessun pompeiano osò dirigersi contro di loro. Sceva forse servì Cesare per molti anni, e fu al suo fianco sia quando era propretore in Spagna, sia durante gli anni in Gallia. Il comandante ricompensò lautamente gli uomini della coorte: raddoppiò il loro salario, li insignì di onorificenze, e diede loro nuovi abiti e una razione extra di grano (cosa che in quel momento fu probabilmente la più apprezzata, anche se non bisogna dimenticare l’importanza dell’orgoglio per i soldati valorosi). Sceva fu promosso a primus pilus, il centurione di grado superiore della legione, e ricevette una ricompensa di duecentomila sesterzi. Non fu il suo ultimo servizio per Cesare, giacché negli anni successivi fece parte dell’ordine equestre e per un periodo guidò un’unità di cavalleria ausiliaria che prese il suo nome, l’ala Scaevae15.
Gli attacchi erano stati respinti, ma per Cesare fu difficile proteggere con un minor numero di truppe una linea di fortificazione più lunga di quella del nemico. I Commentarii sostengono che i pompeiani subirono circa duemila perdite, inclusi numerosi centurioni, tra i quali c’era il figlio di un ex-pretore. Tra gli uomini di Cesare, invece, ci furono solamente venti vittime, seppure il numero dei feriti fu comunque molto elevato. Non si può sapere con certezza dopo quanto tempo Sceva e molti dei suoi uomini sarebbero riusciti a combattere di nuovo. In seguito a questo scontro cruento, gli uomini di Pompeo lavorarono duramente per molti giorni, allo scopo di rinforzare le parti vulnerabili della linea di fortificazione e la elevarono fino a un’altezza di quasi cinque metri. Cesare rispose lanciando il suo esercito all’attacco tutte le mattine e dispiegandolo appena fuori dalla portata delle catapulte nemiche. Pompeo credeva che, se non avesse reagito, il suo prestigio e la fiducia dei suoi uomini avrebbero subìto delle ripercussioni negative, ma fece schierare le proprie legioni con la linea di retroguardia delle coorti disposte nella triplex acies in una posizione molto ravvicinata alla propria fortificazione, perché non aveva alcuna intenzione di combattere e continuava a credere che sarebbe stato meglio costringere l’esercito cesariano alla fame e alla sottomissione. I veterani del nemico avrebbero avuto maggiori possibilità di vincere contro i suoi legionari inesperti, soprattutto a causa del terreno irregolare che si trovava tra le linee, dove sarebbe stato difficile sfruttare la superiorità numerica delle sue forze di cavalleria. Cesare, tuttavia, non volle dare l’ordine di attacco perché la pendenza era a favore delle truppe nemiche. Inoltre, avrebbero avuto l’ulteriore vantaggio di poter lanciare proiettili dalla fortificazione che si trovava proprio dietro di loro. Cesare si accontentò di sapere che i suoi uomini attribuivano tale ritrosia al fatto che i pompeiani li avrebbero attaccati solo a parità di condizioni. Per il momento sembrava aver perso le speranze di stipulare un accordo con Pompeo, però cercò di contattarlo indirettamente, inviando una lettera personale a Metello Scipione, che era arrivato in Macedonia con le legioni che si trovavano in Siria. Nel frattempo, per aumentare le pressioni su Pompeo, i legionari di Cesare estesero ulteriormente le linee di fortificazione, nel tentativo di bloccare i due accessi alla stessa Durazzo. Pompeo inviò una forza di cavalleria via mare per farla sbarcare nei pressi della città, e quasi contemporaneamente Cesare tentò di conquistare Durazzo con un attacco a sorpresa notturno, dopo che un traditore si era reso disponibile a fare entrare i suoi uomini nelle mura cittadine. Il tentativo fallì, ma l’estensione della palizzata ostacolò ulteriormente i cavalieri di Pompeo, che non riuscirono a trovare abbastanza foraggio e dopo pochi giorni furono costretti a reimbarcarsi e a tornare alla loro posizione principale all’interno delle proprie fortificazioni. I cavalli, ormai, venivano sfamati principalmente con foglie e giunchi, poiché il foraggio non poteva essere trasportato da Corcira o da luoghi ancora più lontani16.
Pompeo capì che il proprio esercito stava soffrendo molto, forse anche più di quello nemico, e decise che doveva riprendere ancora una volta l’iniziativa. L’opportunità giunse quando disertarono due nobili gallici, i fratelli Raucillo ed Ego, che erano i figli di uno dei più importanti capi degli Allobrogi, una tribù della Gallia Transalpina. Avevano militato con Cesare per molti anni, guidando un contingente di cavalleria tribale con una certa distinzione. Il proconsole, come al solito, aveva ricompensato bene la loro fedeltà e li aveva resi senatori all’interno della loro tribù, sebbene alcuni studiosi abbiano preferito interpretare in un altro modo questo passaggio, affermando che in realtà li iscrisse nel senato di Roma. I due fratelli, probabilmente, erano diventati cittadini romani, ma negli ultimi tempi avevano cominciato a malversare i salari dei propri uomini e a inviare informazioni errate sul numero dei guerrieri di cui disponevano, per richiedere denaro e razioni extra. Alla fine i loro stessi cavalieri andarono da Cesare per protestare contro simili atteggiamenti, ed egli temporeggiò prima di prendere una decisione formale, ma in privato intimò ai due fratelli di cessare quelle pratiche corrotte. I due cavalieri gallici capirono di non godere più del suo favore e, nel timore che venisse loro inflitta una punizione esemplare, cominciarono immediatamente a pianificare la propria fuga, chiedendo in prestito grandi somme di denaro – si diceva che volessero ricompensare i loro uomini – per comprare altri cavalli. Dopo aver abbandonato il piano di assassinare il comandante della cavalleria di Cesare perché ritenuto troppo rischioso, decisero di schierarsi dalla parte del nemico, portando con sé i guerrieri della loro famiglia, i cui giuramenti di fedeltà prevedevano che seguissero sempre i propri capi. Pompeo si rallegrò di tale tradimento, poiché dall’inizio dell’intera campagna non c’era stata nessuna defezione nell’esercito di Cesare, e li mostrò subito alle proprie truppe come il segno che l’esercito nemico si stava indebolendo, visto che due uomini così distinti avevano deciso di abbandonarlo. I fratelli, inoltre, erano stati ufficiali di Cesare, e il fatto che conoscessero bene le linee di fortificazione e la routine del suo esercito sarebbe stato ancora più utile17.
Provvisto di queste informazioni, Pompeo organizzò un attacco più incisivo per attraversare le linee nemiche e porre fine allo sbarramento. Durante il giorno i suoi legionari fecero delle coperture di vimini per i loro elmi, le quali non solo riducevano la possibilità che il bronzo scintillasse alla luce e rivelasse così la loro posizione, ma aumentavano anche la protezione, attutendo la forza dei proiettili. Ciò valeva in particolar modo per le pietre scagliate con una frombola o con le mani, perché potevano causare un trauma cranico anche senza penetrare l’elmo. Il punto scelto per sferrare l’attacco fu il settore più meridionale delle linee di Cesare, quello più vicino al mare. Cesare sapeva che in quel punto la fortificazione era vulnerabile, e aveva ordinato la costruzione di una linea aggiuntiva dietro la prima, ma i lavori di questa e di un muro che unisse ad angolo retto le due linee non erano ancora finiti. Gli arcieri e la fanteria leggera, insieme all’equipaggiamento per riempire il fossato del nemico e per scalare il muro, vennero inviati sul luogo con le barche, e a mezzanotte lo stesso Pompeo guidò la forza principale, composta da sessanta coorti. L’attacco cominciò appena prima dell’alba e fu sferrato con violenza sulla Nona, che era in servizio in quel settore. Le coperture degli elmi si rivelarono davvero efficaci contro le pietre scagliate, mentre i vuoti nelle fortificazioni incompiute permise ai pompeiani di superare l’ostacolo e di penetrare con rapidità. Le due coorti cesariane furono scacciate, e le altre unità inviate in aiuto non riuscirono a contrastare il nemico e anch’esse furono costrette a ripiegare. Eccetto uno, tutti i centurioni della prima coorte della legione vennero uccisi, e l’aquilifero riuscì a salvare l’insegna lanciandola oltre la palizzata del forte più vicino. La situazione cominciò a stabilizzarsi quando da un altro settore della fortificazione arrivò Marco Antonio con dodici coorti. I messaggi, costituiti perlopiù da segnali di fumo che erano stati predisposti per permettere la comunicazione tra i diversi punti della linea, sollecitarono ulteriori rinforzi, che giunsero accompagnati dallo stesso Cesare. Il forte venne preservato, ma i pompeiani controllavano le posizioni più vicine al mare e vi stavano costruendo un accampamento. Avevano aperto una breccia nella linea difensiva cesariana e sarebbero riusciti a foraggiarsi più facilmente in un’area molto ampia18.
Cesare fece costruire un nuovo grande accampamento davanti a quello eretto dai pompeiani. In questa zona, a circa ottocento metri dall’accampamento principale di Pompeo, c’era un’altra fortificazione, che era stata costruita dai legionari della Nona, ma che venne poi abbandonata perché fu cambiata la disposizione delle linee difensive di quel settore. In seguito le truppe nemiche conquistarono e apportarono delle modifiche al luogo, ma anche loro lo abbandonarono dopo pochi giorni. Le pattuglie di Cesare riferirono che una forza di Pompeo, grande all’incirca quanto una legione, stava di nuovo avanzando verso il forte, e altre pattuglie successive confermarono l’occupazione della vecchia costruzione. Cesare intuì la possibilità di ottenere una piccola vittoria che avrebbe aiutato a compensare il recente successo del nemico, dal momento che l’unità di Pompeo che si era stabilita nella posizione abbandonata era del tutto vulnerabile. Lasciò due coorti a presidiare le proprie linee e marciò verso la fortificazione con le restanti truppe subito disponibili – circa trentatré coorti, sebbene tra queste ci fosse la Nona che era ancora provata e aveva perso molti centurioni –, percorrendo un tragitto alternativo. L’espediente funzionò e Pompeo non si rese conto della minaccia fino a quando gli uomini di Cesare non sferrarono l’attacco. Dopo un aspro combattimento, i legionari assaltarono il forte abbattendo la barricata che bloccava l’ingresso principale. Le cose, però, cominciarono ad andare male: nonostante gli uomini di Cesare avessero superato le mura del forte, al loro interno c’era un’altra piccola recinzione, nella quale si rifugiò la guarnigione pompeiana, che riuscì a restare unita. Nel frattempo le coorti dell’ala destra, che non avevano familiarità con questo tratto della fortificazione, costeggiarono delle mura credendo che appartenessero al forte, ma in realtà si allontanarono dall’obiettivo e si persero. Le unità, nonostante la perplessità dovuta al fatto che non avevano ancora incontrato un’entrata, continuarono ad avanzare e furono seguite dalla cavalleria di Cesare. Pompeo reagì e lanciò un contrattacco immediato con le cinque legioni che stavano lavorando per erigere il nuovo accampamento, e i sopravvissuti della guarnigione, vedendoli avvicinarsi, si animarono nuovamente. Un grande corpo di cavalleria pompeiana si diresse verso l’ala destra di Cesare, e i cavalieri cesariani, colti di sorpresa, si dispersero, nel timore che la linea di ritirata verso le loro fortificazioni fosse bloccata. La situazione era caotica e il panico si propagò rapidamente. L’ala destra fu la prima a frammentarsi e, quando gli altri uomini se ne accorsero, anche le restanti truppe cesariane che avevano assaltato il forte cominciarono a scappare. Quando le coorti si disgregarono in una massa informe ed ogni uomo cercò di aprirsi un varco tra i propri commilitoni, alcuni soldati rimasero intrappolati nei fossati che circondavano l’accampamento. Come descritto nei Commentarii, «ovunque c’era tumulto, paura, fuga, sicché, sebbene Cesare strappasse le insegne dalle mani di chi fuggiva e ordinasse di fermarsi, alcuni, lasciati i cavalli, continuavano la loro fuga, altri per il timore abbandonavano anche le insegne e proprio nessuno faceva resistenza». Questa volta Cesare non riuscì a riformare la linea, come aveva fatto nella battaglia della Sambre e in molte altre occasioni. Altre fonti descrivono l’incidente in maniera ancora meno eroica, e narrano di un uomo in fuga che, non si sa per quale motivo, cercò di trafiggere Cesare con la punta della propria insegna. Il comandante si salvò solo grazie alla prontezza di una delle sue guardie, che amputò con la spada il braccio dell’uomo19.
L’attacco si rivelò un terribile fallimento: Cesare perse novecentosessanta soldati, trentadue tribuni e centurioni, e numerosi altri ufficiali. I pompeiani catturarono trentadue insegne come simboli del loro successo e moltissimi prigionieri. Pompeo, tuttavia, si limitò a respingere l’assalto e non fece alcun tentativo di attaccare le linee nemiche, ma quasi tutti i suoi uomini lo considerarono un errore perché si sentivano euforici in un momento in cui i cesariani erano invece profondamente demoralizzati. Lo stesso Cesare dichiarò che «le truppe nemiche avrebbero vinto oggi, se solo fossero state comandate da un vincitore». Dopo il combattimento Labieno chiese che gli venissero consegnati tutti i legionari catturati e, dopo averli chiamati in maniera beffarda «commilitoni», li fece giustiziare davanti alle linee nemiche. Il giorno dopo Cesare fece radunare i suoi uomini e parlò loro, proprio come aveva fatto a Gergovia, rievocando quella sconfitta e la grande vittoria che ne seguì. Li incoraggiò, sottolineando il fatto che erano riusciti a circoscrivere per tanto tempo un esercito nemico molto più grande, e li incitò a combattere più strenuamente nella battaglia successiva per vendicare la disfatta del giorno prima. I suoi rimproveri furono lievi, così come le punizioni, e si accontentò di degradare vari portastendardi. I soldati accolsero il suo appello con entusiasmo e alcuni ufficiali lo esortarono ad azzardare una battaglia. Cesare era meno fiducioso e non riteneva che i suoi uomini si fossero ripresi a sufficienza dalla sconfitta e forse capì che non c’era alcun motivo per cui Pompeo avrebbe dovuto accettare la sfida. Era chiaro che il tentativo di bloccare i pompeiani era fallito. Il nemico aveva conquistato una delle estremità delle linee di fortificazione costruite per accerchiarlo, e Cesare non aveva le risorse per erigerne un’altra che avrebbe dovuto essere inevitabilmente più lunga per poterlo circondare ancora. L’esercito di Pompeo poteva ormai integrare le provviste portate via mare con quelle raccolte sul posto. Cesare sapeva di non aver raggiunto il suo scopo, ma, come aveva ribadito ai suoi uomini, era determinato a vincere la campagna, così decise di ritirarsi e di allontanarsi dal mare perché da lì il nemico poteva rifornirsi troppo facilmente. Durante la notte inviò ad Apollonia una legione di scorta al suo convoglio di salmerie e numerosi uomini feriti. Una o due ore prima dell’alba, partì con il resto dell’esercito e fece rimanere nell’accampamento solo due legioni di retroguardia, i cui soldati dovettero suonare con le trombe lo squillo utilizzato solitamente per svegliare l’esercito e cominciare un nuovo giorno. I pompeiani così furono tratti in inganno e anche la retroguardia se ne andò e riuscì a unirsi alla forza principale. Pompeo mandò la sua cavalleria all’inseguimento, ma fu respinta dai cavalieri di Cesare, che erano supportati da quattrocento legionari in ordine di battaglia. Dopo qualche schermaglia, i due eserciti si separarono perché Pompeo decise di attendere e non seguire Cesare nell’immediato20.
Allontanandosi dal nemico, le truppe di Cesare attraversarono regioni in cui le squadre di foraggiatori di entrambi gli eserciti non erano arrivate. Ormai era estate, il grano nei campi era abbastanza maturo e i soldati affamati si affrettarono a mieterlo. Cesare, inoltre, fu raggiunto da alcuni distaccamenti che contribuirono a compensare le sue perdite. Quando si diffuse la notizia della sconfitta di Durazzo, però, alcune comunità decisero che sarebbe stato un errore aiutare un capo che sembrava destinato a perdere la guerra. A Gomphi i magistrati della città chiusero le porte e non permisero alle sue truppe di entrare, ma Cesare rifiutò di tollerare tale affronto: la città fu assaltata e saccheggiata, e i soldati ubriachi uccisero, stuprarono e depredarono a volontà. I magistrati si suicidarono. Alcune fonti sostengono che quando l’esercito ripartì, il giorno successivo, il suo andamento era più quello di un gruppo di ubriachi che una marcia ordinata. Curiosamente, affermano anche che il baccanale migliorò in maniera sorprendente le condizioni di salute di molti uomini che avevano patito la fame ed erano stati stremati dal duro lavoro nelle fortificazioni vicino Durazzo. Era la prima volta dall’inizio della guerra civile che Cesare permetteva ai propri uomini di maltrattare la popolazione di una città conquistata, e fu chiaramente un’intenzionale dimostrazione di crudeltà. Tutte le altre città della regione, temendo di subire la stessa sorte di Gomphi, accolsero l’esercito cesariano senza opporre alcuna resistenza21.
Ciò che era successo a Durazzo costituì senza dubbio una vittoria per i pompeiani, e un sentimento di euforia si diffuse in tutto l’accampamento, perché per la prima volta dall’inizio della guerra civile Cesare era stato costretto a ripiegare. Tra tutti, gli ufficiali erano i più fiduciosi, e credevano che in quel momento solo un’azione decisiva avrebbe posto fine alla guerra. Afranio esortò Pompeo a usare la sua forza navale per riportare l’esercito in Italia, affinché potessero rioccupare Roma e togliere a Cesare ogni pretesa di essere il vero rappresentante della repubblica. Altri, in particolare uomini come Domizio Enobarbo, dissero che Cesare era ormai nelle loro mani e avrebbero dovuto sfidarlo in battaglia e sconfiggerlo il prima possibile. Pompeo, però, rimaneva più cauto e provava ancora un grande rispetto per le capacità militari dei veterani di Cesare. Aveva già progettato di tornare in Italia a un certo punto della campagna, ma, con Cesare ancora libero, non voleva che la sua partenza potesse essere interpretata come un’altra fuga. Suo suocero Scipione, inoltre, era partito dalla Siria con due legioni per unirsi all’esercito principale e non era ancora giunto, perciò avrebbe potuto trovarsi in balia delle truppe di Cesare. Pompeo preferì rimanere in Grecia, ma continuò a credere che una battaglia sarebbe stata imprudente e, almeno per il momento, inutile; decise quindi di pedinare il nemico e di sfinirlo privandolo dei rifornimenti.
I suoi alleati più illustri non apprezzarono tale cautela. Enobarbo cominciò a chiamarlo «Agamennone» – il re di Micene che aveva costretto i Greci a combattere una battaglia contro Troia durata dieci anni – o «re dei re», e ad accusarlo di voler prolungare la durata della guerra per preservare la propria supremazia. Se già Cicerone, che provava un profondo affetto nei confronti di Pompeo, aveva dichiarato apertamente che l’esito della guerra civile avrebbe stabilito chi tra i due contendenti sarebbe giunto al potere assoluto, non sorprende che gli altri furono ancora più sospettosi sulle sue cause. Molti uomini, ormai, attendevano con impazienza la vittoria imminente e cercarono di assicurarsi un’ampia parte del bottino: alcuni inviarono degli agenti a Roma per comprarsi una casa più grande nei pressi del Foro, mentre Domizio Enobarbo, Metello Scipione e Lentulo Spintere avevano già cominciato a litigare su chi sarebbe succeduto a Cesare nella carica di pontifex maximus. Molti capi pompeiani avevano tratto numerosi benefici dalla vittoria di Silla avvenuta decenni prima, e ora speravano di eludere i propri debiti e di diventare ancora più influenti nella vita pubblica romana. Cicerone affermò che il clima nell’accampamento era nauseabondo, e in seguito ideò un caustico gioco di parole sul nome che Catone e i suoi alleati si erano dati – gli «uomini buoni» o boni –, dicendo che essi non avevano «nulla di buono, a parte la loro causa». Questo giudizio non riguardava Catone, che comunque non era con l’esercito in quel momento, perché gli era stato affidato il comando della guarnigione rimasta a proteggere Durazzo. Secondo voci maliziose, Pompeo gli aveva dato questo incarico per evitare che potesse influire sugli eventi, una volta portata a termine la sconfitta di Cesare. Oltre ai sospetti nei confronti di Pompeo, c’erano molte lotte intestine tra i vari comandanti: Afranio fu accusato di aver tradito l’esercito durante la campagna spagnola, altri litigarono su chi fosse legittimato a candidarsi alle elezioni dell’anno successivo, mentre Domizio Enobarbo era intenzionato a punire non solo i sostenitori di Cesare, ma anche quelli che in Italia erano rimasti neutrali. Pompeo non riuscì mai ad avere la stessa autorità incontestabile con la quale Cesare controllava i propri subordinati.
Nei giorni che seguirono la vittoria di Durazzo, l’umore degli ufficiali dell’accampamento pompeiano diventò una miscela esplosiva di orgoglio e presunzione, avidità e ambizione, invidia e sospetto reciproco. Aumentarono le pressioni su Pompeo per istigare uno scontro finale con il nemico, ma egli non aveva mai saputo affrontare l’ostilità e, come tutti i partecipanti alla guerra, pensava più che altro alla sua posizione una volta ristabilita la pace. Durante il suo terzo consolato si era avvicinato molto all’élite senatoria, e ora doveva stare attento a non alienarsi le simpatie di questi uomini. Dopo Durazzo, inoltre, divenne meno risolutivo e si fece influenzare con più facilità dal parere degli altri. Cominciò a riporre troppa fiducia nelle proprie legioni e Cicerone affermò che, in seguito a tale trionfo, «non fu più un generale»22.
Pompeo attese l’arrivo di Scipione, prima di avanzare verso la Tessaglia per avvicinarsi al nemico. Era l’inizio di agosto e per molti giorni i due eserciti fecero manovre ravvicinate, come era tipico nelle guerre dell’epoca. Cesare vide che le condizioni di salute e di spirito dei suoi uomini, così precarie dopo la ritirata, erano migliorate sensibilmente e li fece schierare in ordine di battaglia. Pompeo non accettò la sfida, e tale rifiuto, oltre a dimostrare che le pressioni dei suoi alleati non furono sufficienti a farlo combattere a qualsiasi costo, ribadiva anche che gli ordini continuava a darli lui e che preferiva quindi aspettare per avere un terreno più favorevole per la battaglia. Le cavallerie dei due eserciti si scontrarono, e ancora una volta i cavalieri di Cesare, in inferiorità numerica, vinsero con l’appoggio di alcuni soldati scelti di fanteria. I pompeiani si accamparono su una collina e Pompeo ordinò al proprio esercito di schierarsi sul relativo pendio, invitando Cesare ad attaccare in una posizione di svantaggio. La situazione delle provviste era decisamente migliorata ma, nonostante ciò, Cesare era restio a far stazionare le proprie truppe in un luogo per troppo tempo, a meno che non ci fosse una ragione valida per farlo. Dopo molti giorni di stallo, la mattina del 9 agosto diede l’ordine di smontare l’accampamento e andare via, sperando di avere altrove un’opportunità migliore per combattere. Mentre erano in atto i lavori di smantellamento, osservò con sorpresa che l’esercito di Pompeo aveva abbandonato il pendio e si stava dirigendo verso la pianura. Parte della propria colonna si era già schierata per partire, ma Cesare le ordinò di fermarsi e dichiarò: «Dobbiamo rimandare la marcia in questa circostanza e dobbiamo pensare alla battaglia come sempre abbiamo desiderato. Siamo pronti a combattere con coraggio, in seguito non troveremo facilmente un’occasione del genere». I legionari depositarono i propri fagotti e avanzarono solamente con le loro armature e le relative armi. Stava per consumarsi la più grande battaglia della guerra, combattuta da due eserciti guidati dai migliori generali dell’epoca, e le fonti inevitabilmente narrano i presagi che annunciarono questo drastico giro della fortuna. Appiano racconta che Cesare passò la notte a dedicare sacrifici a Marte e alla sua antenata Venere, e promise che, se avesse vinto, avrebbe eretto un tempio in onore della dea a Roma. Come al solito, il suo racconto non fa alcun riferimento a simili questioni, mentre si focalizza su aspetti più pratici, sebbene, come succede anche con frequenza, non fornisca abbastanza dettagli da permetterci di individuare con precisione il luogo della battaglia23.
La pianura di Farsalo era ampia e aperta, delimitata su un lato dal fiume Enipeo. Pompeo schierò il suo esercito con il fianco destro contiguo al fiume. Su questo lato si trovavano circa seicento cavalieri, supportati da una parte della fanteria leggera e delle truppe alleate. La forza principale era schierata accanto a loro, undici legioni disposte nella consueta triplex acies. Le legioni più forti vennero divise tra i fianchi e il centro (la Prima e la Terza, che in passato avevano combattuto per Cesare, furono dispiegate sul lato sinistro). Ogni coorte fu schierata in dieci file, una formazione molto più profonda rispetto al solito. Questo tipo di schieramento rendeva più difficile la fuga degli uomini della prima fila e aiutava a mantenere in ordine di battaglia i soldati inesperti che non riuscivano a sopportare la tensione del combattimento. Lo svantaggio principale di questa formazione era che solo pochi uomini potevano combattere, e per gli uomini delle file posteriori risultava difficile anche lanciare con efficacia i loro pila. In tutto, Pompeo aveva centodieci coorti, ovvero circa quarantacinquemila legionari, secondo i Commentarii, sebbene altre fonti facciano riferimento a una cifra inferiore di diverse migliaia. L’ala destra fu affidata al comando di Afranio (o di Lentulo, nella versione di Appiano), mentre Metello Scipione guidò il centro e Domizio Enobarbo l’ala sinistra. Alle legioni venne ordinato di rimanere nella loro posizione invece di avanzare per affrontare il nemico; il loro compito durante la battaglia doveva essere essenzialmente quello di stare ferme e attendere la fanteria nemica. Pompeo sperava di vincere con la cavalleria, di cui circa seimilaquattrocento elementi furono concentrati sul fianco sinistro sotto il comando diretto di Labieno. Erano supportati da migliaia di uomini della fanteria leggera, ma la cavalleria avrebbe dovuto sconfiggere i cavalieri di Cesare, che erano decisamente meno numerosi, e attaccare poi il fianco e la retroguardia delle sue legioni. Era un piano semplice ma ragionevole, perché sfruttava la superiorità numerica, in particolar modo quella enorme dei cavalieri, che nell’ampia pianura avevano anche lo spazio per effettuare le manovre. L’unico svantaggio era che non si sapeva cosa sarebbe successo se l’attacco della cavalleria fosse fallito. Pompeo era sicuro che non sarebbe accaduto e che le sue legioni sarebbero riuscite a resistere agli uomini di Cesare abbastanza a lungo da permettere alle truppe a cavallo di travolgere le linee nemiche. Pompeo incoraggiò l’esercito, e subito dopo Labieno fece un discorso ai soldati, garantendo loro che nelle file dell’esercito di Cesare non era rimasto quasi nessuno dei forti veterani che avevano combattuto in Gallia24.
Cesare schierò il proprio esercito con il fiume sulla sinistra. Aveva ottanta coorti, ma erano molto più piccole di quelle delle legioni di Pompeo, dato che in totale poteva contare circa ventiduemila uomini. Entrambi gli eserciti lasciarono alcune forze a presidiare gli accampamenti, sette coorti nel caso di Cesare. Le legioni si dispiegarono in tre linee come i loro avversari, ma chiaramente le coorti avevano delle formazioni molto meno profonde, composte da circa quattro, cinque o sei file. Come nello schieramento del nemico, inoltre, i fianchi vennero affidati alle unità migliori. La Decima si trovava sul lato destro della linea, nella posizione di massimo onore, mentre sul sinistro c’erano la Nona, che aveva subìto pesanti perdite a Durazzo, e l’Ottava. A Marco Antonio venne affidato il comando dell’ala sinistra, a Gneo Domizio Calvino il centro e a Publio Silla l’ala destra. L’ultima assegnazione fu, in un certo senso, simbolica, dal momento che lo stesso Cesare si mise alla guida della Decima e rimase con l’ala destra durante tutta la battaglia, ipotizzando giustamente che i principali movimenti tattici si sarebbero svolti in quel settore. Aveva solo mille cavalieri, e li fece posizionare accanto alla Decima per far fronte all’imponente cavalleria nemica situata sulla sinistra. Il piano di Pompeo era ovvio, perché non avrebbe mai schierato una simile forza di cavalleria per un fine esclusivamente difensivo. Per contrastarla, Cesare fece avanzare sei coorti dalla terza linea del suo esercito e le fece disporre in diagonale dietro la propria ala destra, per formare una quarta linea. I comandanti nemici non riuscirono a notare la modifica apportata nello schieramento, perché era nascosta dai soldati che erano davanti a loro e dietro le nuvole di polvere che inevitabilmente si alzavano dai numerosissimi uomini e cavalli in azione nella pianura25.
I due eserciti impiegarono ore per occupare le rispettive posizioni, con le linee frontali situate a circa un chilometro di distanza l’una dall’altra. Le battaglie sono sempre state caotiche, e quelle di una guerra civile lo sono ancora di più, così, per ridurre la possibilità di confondere l’amico per il nemico e viceversa, entrambi gli schieramenti stabilirono una parola d’ordine. Cesare utilizzò il nome della sua dea antenata nella forma in cui veniva associata al successo militare: «Venere vincitrice». I pompeiani, invece, usarono l’espressione «Ercole l’invincibile». Alcune fonti posteriori sostengono che ci fu un momento di esitazione, quando i due schieramenti vacillarono all’idea di uccidere i propri concittadini, ma questa probabilmente è solo un’invenzione romantica, poiché entrambi gli eserciti speravano di vincere. Cesare fu incoraggiato dall’ardore che percepì nei propri uomini quando eseguì una ricognizione delle linee a cavallo. Fece loro un discorso e controllò che tutte le unità fossero nella posizione assegnata. Nei Commentarii afferma di aver parlato ancora una volta dei torti che aveva subito e di tutti gli sforzi fatti per raggiungere un accordo pacifico. Dopo aver cavalcato lungo tutta la linea di battaglia, si mise accanto alla Decima e diede il segnale dell’avanzata. Quando le trombe squillarono, accanto a lui c’era Crastino, un primus pilus fuori servizio, che esclamò:
«Seguitemi, soldati che siete stati del mio manipolo, e rendete al vostro comandante il servizio che avete deciso di dargli. Rimane solo questa battaglia; una volta terminata, lui recupererà il suo onore, noi la nostra libertà». Nello stesso tempo, rivolgendosi a Cesare, disse: «Oggi, comandante, farò in modo che tu mi ringrazi, vivo o morto». Dopo aver detto queste cose, avanzò per primo dall’ala destra e circa centoventi soldati scelti, volontari, della stessa centuria, lo seguirono26.
La fanteria di Cesare avanzò in maniera ordinata e con un ritmo costante per mantenere la propria formazione, e quando si avvicinò al nemico le coorti della linea frontale caricarono in avanti per giungere a una distanza di circa quattordici metri dagli avversari e lanciare con efficacia i loro pila. La tattica normale prevedeva di restare in silenzio, eccetto per gli ordini e le esortazioni dei centurioni e degli altri ufficiali, e di emettere un urlo di esaltazione quando venivano scagliati i pesanti giavellotti e ci si avvicinava di corsa ai rivali. Questa volta i pompeiani rimasero immobili nella loro posizione, non avanzarono per affrontarli, e i centurioni di Cesare avevano calcolato il momento per ordinare la carica basandosi sulla supposizione che anche il nemico sarebbe avanzato. All’ultimo minuto capirono che non l’avrebbe fatto e che c’era il rischio di lanciare a vuoto la loro raffica di pila, perdendo così la formazione prima di raggiungere il nemico. Con una formidabile dimostrazione di disciplina, i veterani si fermarono, ricomposero con calma le loro righe e ricominciarono ad avanzare nel giusto ordine. Al momento opportuno, accelerarono una seconda volta e, dopo aver scagliato i loro pila, lanciarono un grido, caricando con la spada in mano la linea pompeiana. Cesare pensò che Pompeo avesse commesso un errore nell’ordinare alle sue truppe di rimanere ferme, dal momento che tale immobilità le avrebbe private dell’impeto della carica. Tuttavia, aiutati indubbiamente dalla loro numerosità e dalla profondità delle proprie formazioni, i legionari nemici riuscirono a resistere alla carica e agli aspri combattimenti che ci furono lungo tutta la linea.
A Pompeo non importava che i propri legionari sconfiggessero il nemico, voleva solamente che lo tenessero impegnato e permettessero alla cavalleria di avere il tempo per sferrare l’attacco decisivo. Quando la battaglia cominciò, Labieno guidò i suoi uomini contro la piccola forza di cavalleria di Cesare, e quest’ultimo arretrò deliberatamente, per costringere gli avversari ad avanzare ancora. In una piccola area erano concentrati oltre seimila cavalieri, che, oltre ad essere una mescolanza di molte etnie diverse, erano anche inesperti e guidati principalmente da giovani aristocratici entusiasti, ma ugualmente privi di esperienza. La cavalleria di Pompeo aveva avuto poche opportunità di agire unita fino a questo momento della campagna. Dopo gli stenti patiti a Durazzo, i suoi cavalli erano in condizioni abbastanza penose, e per questo motivo forse la carica fu eseguita a una velocità non superiore a quella di un trotto. All’inizio, l’enorme gruppo di cavalieri era diviso in varie linee e doveva assicurarsi che le riserve rimanessero dietro le prime file, per sfruttare qualunque successo o per dare supporto quando necessario. Eppure, quando la cavalleria avanzò e fece retrocedere i cavalieri di Cesare, quest’ordine sensato sembrò svanire nel nulla, e sia gli uomini che i cavalli si lasciarono trasportare dall’incontenibile senso di potere derivante dalla presenza ravvicinata dei numerosissimi compagni. Labieno e i suoi ufficiali persero il controllo e, invece di rimanere in file ordinate, l’intera forza si sciolse in una massa informe. A quel punto, Cesare ordinò alle sei coorti della quarta linea di attaccare. I legionari avanzarono e la fanteria si scagliò contro i cavalieri in un modo che raramente si è ripetuto nel corso della Storia, impugnando i suoi pila e utilizzandoli come se fossero lance da combattimento corpo a corpo. Gli uomini di Labieno, dopo essersi sparpagliati, persero lo slancio e si fermarono, forse nel tentativo di riprendere il controllo, prima di avanzare contro il fianco della fanteria di Cesare. A prescindere dal motivo, alla fine l’intera forza di cavalleria si ritirò fuggendo in maniera disordinata verso la retroguardia e non svolse più alcun ruolo nella battaglia, mentre i soldati della fanteria leggera che la supportavano scapparono o vennero trucidati.
Cesare mantenne sotto uno stretto controllo la sua quarta linea e, piuttosto che farla allontanare all’inseguimento della cavalleria avversaria, le ordinò di girarsi e di attaccare il fianco sinistro della fanteria pompeiana. Le coorti di Cesare della prima e della seconda linea, che di solito agivano assieme, erano impegnate in un aspro combattimento, ma riuscirono a guadagnare terreno e a progredire ulteriormente fino ad aggirare la linea nemica. A quel punto, Cesare ordinò alle sue riserve finali, le coorti della terza linea che ancora non avevano preso parte alla battaglia, di avanzare verso la linea di combattimento. I pompeiani cedettero altro terreno e subito dopo la loro linea si disfece e si diede alla fuga. Cesare guidò alcune truppe all’assalto dell’accampamento nemico e, insieme ai suoi ufficiali, esortò gli uomini a risparmiare le vite dei propri concittadini quando possibile, ma disse anche di massacrare i soldati ausiliari, per dimostrare chiaramente che la loro compassione era un favore speciale. Cesare sostiene che vennero uccisi quindicimila nemici e ne furono catturati ventiquattromila, insieme alle aquile di nove legioni e ad altri centottanta stendardi. Asinio Pollione riporta una cifra inferiore, circa seimila perdite tra gli uomini di Pompeo, e potrebbe essere la più attendibile. Domizio Enobarbo venne ucciso durante il combattimento, ma quasi tutti gli altri leader pompeiani fuggirono. Il figlio di Servilia, Bruto, venne catturato, e si narra che Cesare inviò degli uomini a cercarlo, rincuorandosi alla scoperta che era ancora vivo. Le sue perdite, se paragonate alla grandezza della sua vittoria, furono abbastanza esigue, e ammontarono a circa duecento uomini e trenta centurioni (questi ultimi avevano spesso una mortalità sproporzionatamente alta, a causa della posizione vulnerabile che dovevano occupare in battaglia). Crastino fu ucciso, trafitto da una spada che gli fu conficcata in bocca e gli uscì dalla nuca, però, prima di morire, realizzò grandi prodezze. Appiano racconta che Cesare gli diede una sepoltura dignitosa e lo insignì di onorificenze, un atto insolito, dal momento che i Romani di norma non assegnavano decorazioni postume. Cesare narra che lui e i suoi uomini rimasero disgustati dalla fastosità dell’accampamento nemico e dalla sua arroganza, perché sulle tende erano già stati affissi i simboli della vittoria. Asinio Pollione riportò il commento che fece Cesare quando vide il campo di battaglia disseminato di corpi nemici: «L’hanno voluto loro; dopo tutte le mie imprese, io, Gaio Cesare, sarei stato condannato, se non avessi cercato aiuto nelle armi»27.
Pur tenendo in considerazione l’ostilità delle fonti, la condotta di Pompeo a Farsalo fu alquanto discutibile e non fu incisiva neanche mentre la battaglia era in corso. Subito dopo il fallito attacco della cavalleria, tornò nel suo accampamento, e poco più tardi, quando si rese conto che la disfatta era ormai imminente, afferrò la sua insegna di generale e fuggì. Se fosse rimasto con i soldati, non avrebbe fatto comunque alcuna differenza, ma il suo fu un comportamento davvero vile per un comandante romano, che, oltre a non dover mai darsi per vinto, doveva fare di tutto per salvare quanti più soldati nel migliore ordine possibile, qualora la situazione fosse diventata disperata. Una sconfitta era ammissibile, ma un generale doveva innanzitutto confidare nella vittoria finale. A Farsalo Pompeo perse la speranza, forse perché durante quasi tutta la campagna aveva cercato di evitare una battaglia campale di questa portata. Non fece alcun tentativo di formare un altro esercito in Grecia, e con i suoi consiglieri decise subito di fuggire all’estero. Circolarono voci secondo cui pensò di cercare aiuto e protezione presso i Parti, ma alla fine Pompeo scelse di andare in Egitto, dove i figli del re Tolomeo si stavano contendendo il trono. L’Egitto gli aveva fornito degli aiuti militari nella recente campagna ed era ricco, così decise probabilmente che sarebbe stato un’ottima base per ricostruire la propria fortuna e, insieme alla moglie Cornelia e ad alcuni ufficiali e assistenti, salpò verso Alessandria. Il giovane re (o, piuttosto, i suoi consiglieri, dato che il ragazzo era solo un adolescente) gli mandò pubblicamente dei messaggi di benvenuto e una barca per portarlo a riva e accoglierlo pubblicamente. Sull’imbarcazione, oltre a numerosi Egizi, c’erano anche due ufficiali romani che erano stati al suo servizio alcuni anni prima e poi avevano fatto parte dell’esercito di Gabinio, rimasto in Egitto dopo la restaurazione al trono di Tolomeo. Mentre sua moglie e i suoi amici lo osservavano dal ponte della nave, Pompeo fu pugnalato a morte dai due ufficiali. Questa fu la fine di Pompeo Magno, l’uomo che aveva celebrato tre trionfi ed era stato console per tre volte. Il giorno dopo avrebbe compiuto cinquantanove anni. Lo decapitarono e conservarono la sua testa per darla in dono a Cesare, con la speranza di ricevere la benevolenza del vincitore; il resto del corpo rimase abbandonato sulla spiaggia, fino a quando i suoi stessi liberti non andarono a seppellirlo28.