«Non è giunta alcuna notizia sul fatto che Cesare abbia lasciato Alessandria, e pare che fino al 15 marzo nessuno dei suoi uomini fosse partito da lì. L’ultima lettera l’ha spedita il 13 dicembre».
cicerone, 14 giugno del 47 a.C.1
«Se avessi voluto la grazia di Cesare», disse [Catone], «sarei andato direttamente da lui a implorarla. Ma io non voglio sentirmi in obbligo nei confronti di un tiranno per le sue azioni illegittime. Ingiustamente risparmia la vita a uomini di cui si ritiene il padrone, ma non ha alcun diritto di considerarsi tale».
plutarco, inizi del II secolo d.C.2
Cesare arrivò in Italia verso la fine di settembre. Erano passati venti mesi da quando era partito per cominciare la campagna in Macedonia e più di un anno dalla sua vittoria a Farsalo. Per quasi tutto il 48 a.C. rimase regolarmente in contatto con i suoi rappresentanti e con altri illustri concittadini, ma Dione Cassio afferma che non inviò alcun dispaccio ufficiale a Roma per informare della sconfitta di Pompeo, perché lo riteneva un gesto di cattivo gusto. Durante la campagna alessandrina il suo normale flusso di corrispondenza cessò del tutto, all’inizio a causa dell’embargo imposto dal nemico, ma anche quando questo fu tolto, rimase in silenzio per un po’ di tempo. Nel giugno del 47 a.C. Cicerone scrisse che nessuno aveva avuto notizie di Cesare negli ultimi sei mesi. Era un comportamento anomalo e avvalorava la tesi che la stanchezza lo avesse messo a dura prova. La lunga permanenza in Egitto gli aveva causato senza dubbio grandi problemi, perché aveva dato al nemico la possibilità di riorganizzarsi e aveva creato un pericoloso alone di incertezza su Roma e sull’Italia. I sostenitori di Cesare avevano poco in comune, a parte la fedeltà nei suoi confronti, che comunque era basata perlopiù sulla gratitudine per i favori passati e sull’aspettativa di ottenerne altri in futuro; ma mentre era in atto la campagna macedone, nessuno di loro poteva prevedere chi avrebbe vinto la guerra. Inoltre erano consapevoli che Cesare avrebbe incontrato varie difficoltà.
In maniera del tutto opportunista, l’attivo corrispondente di Cicerone, Celio Rufo, all’inizio della guerra civile si era schierato con la fazione che aveva l’esercito più forte. Cesare lo ricompensò nominandolo pretore nel 48 a.C., ma Celio si infastidì quando il console affidò il più importante incarico di pretore urbano al legato Trebonio, l’uomo che aveva conquistato Marsiglia l’anno precedente. Deluso, Celio cercò di ottenere consensi dichiarando di voler abolire i debiti esistenti, una misura radicale con la quale voleva attirare le simpatie di tutti quelli che ritenevano insufficiente la moderata legge proposta da Cesare. Insieme a un gruppo di sostenitori, organizzò dei tumulti contro Trebonio e contro Servilio, il collega consolare di Cesare. Il senato approvò immediatamente il senatus consultum ultimum e, nonostante i veti posti dai due tribuni, il console fece deviare il tragitto di alcune truppe che si stavano dirigendo verso Brindisi e le fece andare a Roma. Celio fu cacciato dalla città, e per un momento pensò di unirsi a Milone, che, dopo essere tornato in Italia dal suo esilio a Marsiglia malgrado il rifiuto di Cesare, cercò di sollevare una rivolta a nome di Pompeo, appoggiando così l’uomo che aveva decretato il suo esilio. Non riuscì nel suo intento e venne sconfitto e ucciso prima che Celio potesse raggiungerlo, e il pretore subì una sorte simile poco dopo. Il ricorso al senatus consultum ultimum risultava alquanto ironico, anche se non si deve dimenticare che Cesare non aveva mai messo in discussione la sua validità, ma solo la pertinenza del suo utilizzo contro di lui3.
Nell’ottobre del 48 a.C. Cesare venne nominato nuovamente dittatore, ma, a differenza della prima volta, in questo caso l’obiettivo non era soltanto quello di permettergli di supervisionare le elezioni. A eccezione dei tribuni della plebe, l’anno successivo non venne eletto nessun console o altro magistrato, forse perché Cesare non sarebbe riuscito a tornare in tempo e non voleva delegare a nessun altro il compito di presiedere le elezioni. La dittatura di solito poteva durare solo sei mesi. Silla aveva ignorato tale norma, ricoprendo l’incarico fino a quando decise di abbandonarlo a suo piacimento, ma Cesare non voleva che il popolo pensasse che stesse imitando l’autore delle proscrizioni: desiderava il potere ufficiale. Il console Servilio lo nominò dittatore per un anno, imponendo così un certo limite al suo potere, ma l’incarico sarebbe comunque durato il doppio rispetto al mandato abituale. Un dittatore aveva un subordinato, più che un collega, e questo ufficiale riceveva il titolo di comandante della cavalleria (magister equitum), dato che in origine, quando venne creato, si ritenne opportuno dare al dittatore il comando della fanteria pesante delle legioni e al suo vice il compito di guidare i cavalieri aristocratici. Marco Antonio venne nominato comandante della cavalleria di Cesare, e il collegio sacerdotale degli àuguri, di cui lo stesso Antonio era membro, protestò per un po’ di tempo, affermando che il magister equitum non avrebbe dovuto mantenere l’incarico per più di sei mesi, ma tale obiezione piuttosto bizzarra venne presto ritirata. Dopo Farsalo, Antonio ritornò in Italia e divenne a tutti gli effetti l’autorità suprema dal gennaio del 47 a.C. fino al ritorno di Cesare, nell’autunno dello stesso anno. Era un subordinato talentuoso, ma il suo comportamento diventò sempre meno misurato durante questi mesi, in cui praticamente tutte le decisioni dipendevano da lui. Organizzò numerosi banchetti, molto lussuosi e aperti a tutti. Beveva in maniera smisurata – alcuni anni dopo scrisse un libro sull’argomento, nel quale si vantò delle sue prodezze alcoliche – e pare che affrontò molte questioni pubbliche senza essere del tutto sobrio. In più di un’occasione fece interrompere una riunione nel Foro e vomitò davanti a tutti. A volte percorreva l’intera Italia con una grande carovana: lui saliva a bordo di una biga gallica, o forse britannica, e veniva seguito da altre carrozze, che trasportavano tra gli altri un’attrice famosa, che all’epoca era la sua amante, e sua madre. L’intera colonna era preceduta dai suoi littori, che rendevano la scena ancora più assurda. Oltre ad apparire vestito da Ercole, alcune fonti sostengono che provò anche a salire su una biga trainata da leoni. Inoltre ebbe numerose relazioni scandalose e di dominio pubblico con le mogli di vari senatori. Era evidente che Marco Antonio amava il potere, e la sua condotta difficilmente sarebbe riuscita a dissuadere i moderati dalla convinzione che la vittoria di Cesare avrebbe portato alla tirannia nel lungo periodo4.
Antonio non riuscì a far fronte ai notevoli problemi che gli si presentarono nel 47 a.C., tutti riconducibili più o meno direttamente alla lunga assenza di Cesare. In generale, non si diede credito alla notizia della morte di Pompeo fino a quando il suo anello con sigillo non venne inviato a Roma e mostrato pubblicamente. Molti pompeiani si erano arresi a Farsalo, e altri lo fecero nelle settimane successive. Cicerone non aveva partecipato alla battaglia, ma capì subito che la guerra era persa. Rifiutò l’offerta del comando supremo fattagli da Catone, il quale poi dovette fermare Gneo, il figlio di Pompeo, intenzionato a uccidere l’oratore all’istante. Cicerone tornò in Italia, ma Antonio lo informò che non poteva perdonarlo e permettergli di rientrare a Roma senza aver ricevuto specifiche istruzioni da Cesare. Per mesi, tuttavia, non si ebbero notizie di Cesare, e non ci fu neanche la certezza che sarebbe riuscito a vincere e a tornare vivo dalla guerra in Egitto. Nel frattempo, Catone aveva attraversato il mare e portato la guarnigione di Durazzo in Cirenaica, e da lì, via terra, si era diretto verso la provincia dell’Africa, dove si sarebbe incontrato con Metello Scipione, Labieno, Afranio, Petreio e molti altri irriducibili pompeiani, tutti determinati a continuare la guerra. Vennero appoggiati da Giuba, re della Numidia, al quale Cesare una volta aveva tirato la barba durante un processo, e che, in tempi più recenti, aveva svolto un ruolo chiave nella sconfitta di Curione. Col passare del tempo, la loro forza aumentò, e in estate ci furono dei timori che potessero riuscire ad attaccare la Sicilia e la Sardegna, e perfino la stessa Italia. Fu un periodo di nervosismo per uomini come Cicerone, che cominciarono a domandarsi se si fossero arresi troppo presto e ricordavano la forte ostilità che molti leader pompeiani avevano mostrato perfino nei confronti di chi era rimasto neutrale. L’oratore sperava soltanto che la vita pubblica tornasse a una parvenza di normalità, e la sua apprensione fomentava la rabbia verso Cesare, che non aveva posto fine alla guerra in maniera veloce e definitiva.
Anche le truppe veterane di Cesare si sentivano frustrate, dal momento che, dopo la vittoria di Farsalo, quasi tutte le legioni esperte, incluse la Nona e la Decima, erano state rimandate in Italia, dove per mesi non ebbero altro da fare che attendere e rimuginare sui motivi che avevano dato adito alle loro lamentele. C’erano ancora soldati che avevano terminato il periodo di servizio militare ed erano in attesa del congedo, e tutti ricordavano le ricompense e le terre che Cesare gli aveva promesso negli ultimi anni. Guidate da alcuni dei loro tribuni e centurioni, le legioni si ammutinarono e cominciarono a lanciare sassi contro gli ufficiali che venivano inviati per ristabilire l’ordine. Lo stesso Antonio si vide costretto a visitare l’accampamento, ma non riuscì a risolvere la situazione e a ripristinare l’ordine, e mentre era fuori Roma alcuni tribuni della plebe causarono un po’ di problemi. Uno di questi fu Dolabella, il genero di Cicerone, che rinnovò l’appello di Celio per l’abolizione del debito. Ci furono di nuovo dei tumulti nel Foro, provocati da alcuni uomini che avevano scorto la possibilità di ritagliarsi una posizione personale più influente in quei tempi di incertezza. Alla fine Antonio tornò a Roma con alcune truppe che non si erano unite all’ammutinamento e ristabilì l’ordine con la forza, appoggiato dal senato, che ancora una volta aveva approvato il suo decreto definitivo. La sua azione fu efficace, ma contribuì solo a rafforzare l’idea di un regime basato unicamente sulla forza militare. La sua antipatia per Dolabella era intensa e corrisposta, ed era sicuramente aggravata dal fatto che Antonio sospettava che il tribuno avesse una relazione con sua moglie, dalla quale divorziò poco dopo5.
Cesare incontrò Cicerone mentre tornava da Brindisi, e l’ansioso oratore si sentì sollevato e contento davanti al calore del suo saluto, dopo il quale venne immediatamente perdonato ed esortato a tornare a Roma. Durante la sua assenza, a Cesare era stato concesso il diritto di trattare i nemici come riteneva opportuno, il che conferiva una certa legittimità formale a ciò che aveva fatto dall’inizio della guerra civile. Allo stesso modo, gli venne dato il potere di dichiarare la pace e la guerra, e anche di presiedere – in pratica di controllare – le elezioni di tutte le magistrature superiori. Anche se Cesare non sarebbe tornato a Roma prima degli inizi di ottobre, decise di utilizzare quest’ultimo diritto e di nominare i magistrati per le restanti settimane dell’anno. Come consoli scelse Quinto Fufio Caleno e Publio Vatinio, l’uomo che durante il suo tribunato nel 59 a.C. gli aveva garantito il comando della Gallia. Entrambi gli uomini erano stati suoi legati. Anche le altre magistrature, così come i numerosi sacerdozi rimasti vuoti a causa delle vittime degli ultimi anni, vennero tutte affidate ai suoi sostenitori. Seppure i nuovi magistrati avrebbero avuto poco tempo a disposizione per fare qualcosa, c’erano molti uomini da ricompensare per la loro fedeltà e Cesare non voleva perdere la reputazione di persona generosa. L’anno successivo nominò dieci pretori invece dei soliti otto, ma preferì non continuare ad essere un dittatore e si fece eleggere console per la terza volta, dal momento che un altro dei riconoscimenti votati dal senato durante la sua assenza fu il diritto di occupare la magistratura suprema per cinque anni consecutivi. Come collega scelse Marco Emilio Lepido, un uomo che si fece notare più per la sua lealtà e affidabilità, che per il talento e l’immaginazione. Questa scelta potrebbe suggerire che Marco Antonio avesse perso il suo favore dopo il comportamento dell’ultimo anno, e probabilmente c’è un fondo di verità in questa supposizione, ma bisogna anche ricordare che Cesare aveva altri uomini da ricompensare e forse non volle dare troppa importanza a un unico individuo rendendolo il suo vice permanente6.
L’ammutinamento dell’esercito non cessò alla notizia del ritorno di Cesare in Italia, anche perché con il passare del tempo il risentimento era aumentato. Nel tentativo di trattare con le truppe, inviò Sallustio, il futuro storico che era appena stato eletto pretore per l’anno successivo, ma costui fu attaccato da un gruppo di soldati e riuscì a salvarsi per miracolo. Gli ammutinati, così, cominciarono a marciare dal loro accampamento in Campania verso Roma. I centurioni e i tribuni che avevano aizzato la rivolta miravano a ottenere ulteriori concessioni e promesse di ricompense ancora più grandi in futuro. Sapevano che presto Cesare sarebbe andato in Africa per affrontare i pompeiani, e credevano che, poiché avrebbe avuto bisogno dei suoi soldati migliori, sarebbe stato più accondiscendente nei loro confronti. È difficile credere che tutti gli ammutinati, inclusi gli ufficiali, avessero delle aspirazioni così precise; forse erano solo gravati da un persistente e indefinito senso di frustrazione. Cesare organizzò dei preparativi per difendere Roma qualora la situazione fosse degenerata, ma rimase apparentemente tranquillo e, nonostante i consigli dei suoi collaboratori, andò di persona a incontrare le legioni. I legionari si erano accampati nei dintorni di Roma, quando Cesare, senza preavviso, arrivò cavalcando lentamente tra le loro linee e salì sul podio che di solito veniva costruito vicino al quartier generale. Appena si diffuse la notizia del suo arrivo, i soldati si ammassarono attorno a lui per sentire ciò che aveva da dire. Domandò loro cosa volessero ed essi replicarono elencando le difficoltà del loro lungo servizio e ricordandogli le promesse che aveva fatto durante tutti quegli anni. Alla fine chiesero tutti di essere congedati, ma tale richiesta servì più che altro a fargli notare che aveva bisogno di loro per la prossima campagna, ma che non poteva dare per scontata la loro lealtà. La risposta di Cesare fu calma, e questa tranquillità la rese ancora più scioccante. In passato i soldati erano sempre stati suoi «commilitoni», ma in quel momento si rivolse a loro definendoli «cittadini» (Quirites), e disse a quei semplici civili che li congedava volentieri dal loro servizio, dato che era ciò che volevano. I soldati rimasero stupefatti dalla disinvoltura con la quale il comandante accettò le loro dimissioni e dalla gentilezza con cui assicurò loro che a tempo debito avrebbero ricevuto tutte le ricompense promesse.
Come accadeva durante le campagne militari, Cesare aveva ripreso l’iniziativa e furono quindi i suoi soldati a doversi sforzare per riconquistare la fiducia e la determinazione perdute. Alcuni uomini cominciarono a offrirsi volontari per continuare a prestare servizio con lui, e in seguito uno dei capi dell’ammutinamento ripeté la richiesta in maniera formale. Cesare declinò l’offerta, ma ribadì la promessa che avrebbe distribuito le terre e i premi in denaro a tutti loro, e utilizzò un tono di gentile rimprovero, come se fosse rimasto deluso dal fatto che i suoi uomini avessero dubitato della veridicità delle sue promesse. Una volta terminato l’ammonimento, si girò per andarsene, e tale gesto rese ancora più disperati gli ammutinati, che cominciarono a supplicarlo di portarli con sé in Africa, assicurandogli che avrebbero vinto la guerra senza l’aiuto di altre truppe. In quel momento Cesare si ammorbidì, ma, con un totale capovolgimento rispetto al suo discorso del 58 a.C. fatto a Vesonzione, disse che lo avrebbero seguito tutte le legioni eccetto la Decima. Ricordò ai veterani della Decima tutti i favori che avevano ricevuto da lui in passato, e disse che li congedava per la loro ingratitudine, ma che dopo la sua vittoria in Africa ogni individuo avrebbe comunque ricevuto ciò che gli era stato promesso. Vedendo che era stato messo in discussione il grande orgoglio della loro unità e che si era ravvivata la devozione verso il vecchio comandante, i legionari della Decima chiesero a Cesare di essere decimati fino a quando non avesse deciso di riprenderli sotto il suo comando. In maniera graduale, e con finta reticenza, si lasciò convincere e dichiarò che in quell’occasione non sarebbe stato giustiziato nessuno. Prese nota, tuttavia, dei nomi dei centurioni e dei tribuni che avevano provocato l’insurrezione e ordinò che alla maggior parte di essi venissero assegnate le posizioni più esposte e pericolose nell’imminente campagna7.
Cesare aveva sottolineato ai suoi soldati che non avrebbe seguito l’esempio di Silla, che si era impadronito di terreni in tutta l’Italia per distribuirli ai suoi veterani, ma avrebbe dato loro le terre che appartenevano allo stato o che sarebbero state acquistate con denaro pubblico. Quest’importo futuro, insieme all’incessante costo della guerra, si unì ai suoi oneri economici già enormi, e durante l’autunno del 47 a.C. dedicò gran parte dei suoi sforzi a cercare fondi per finanziare tali spese. Chiese dei prestiti – ipoteticamente volontari, ma nessuna comunità si sarebbe arrischiata a negarglieli – a varie città italiche e chiaramente non aveva alcuna intenzione di restituirli, almeno non nel breve termine. Dopo la sconfitta di Pompeo aveva ricevuto spesso corone d’oro o d’argento dagli abitanti delle province orientali, sia come segno di vittoria, sia come donazione per le spese sostenute, e chiese ai cittadini italici di compiere lo stesso gesto. Le attività di Celio e Dolabella avevano dimostrato che c’era ancora molto malcontento tra numerosi debitori, e Cesare cedette un po’ e decise di copiare una delle leggi proposte da loro, che poneva un limite relativamente basso alle rendite dovute ai proprietari terrieri nell’anno in corso. Egli, comunque, continuò a rifiutarsi di abolire tutti i debiti esistenti, affermando che non poteva prendere in considerazione una misura simile perché lui stesso aveva di recente chiesto molti prestiti e sarebbe così diventato il principale beneficiario. Alcune proprietà appartenenti a capi pompeiani che erano morti o che erano ancora in guerra contro di lui vennero vendute all’asta. Antonio comprò la grande dimora romana di Pompeo, premettendo che avrebbe pagato solo una piccola parte del suo valore reale. Silla aveva permesso a molti dei suoi sostenitori, e soprattutto a Crasso, a Pompeo e a Lucullo, di comprare costose tenute e abitazioni in questo modo. Chiaramente molti uomini di Cesare si aspettavano di godere di benefici simili, ma rimasero molto delusi perché il console voleva che tutto venisse pagato secondo il suo valore reale, il quale veniva valutato in base ai prezzi che vigevano prima della guerra. In parte ciò veniva fatto per evitare qualunque paragone con Silla, ma in fondo rifletteva semplicemente gli immani oneri finanziari che lui stesso doveva affrontare. Solo poche persone fecero buoni affari. Una di queste fu Servilia, l’amante di lunga data di Cesare, alla quale era ancora molto legato, sebbene non si sappia se il loro rapporto fosse esclusivamente carnale. Durante questo periodo ebbe anche una relazione con una delle sue figlie, Terzia («Terza»), che comunque non inficiò il loro legame. I pettegolezzi sostenevano perfino che fosse stata lei a combinare l’unione. Inoltre Servilia era la madre di Bruto, uno dei più illustri e più rispettati pompeiani che avevano deciso di disertare e unirsi a Cesare dopo la battaglia di Farsalo. Servilia riuscì ad acquistare alcune costose tenute a molto meno del loro valore reale. Cicerone scherzò dicendo che la gente non si rendeva conto che le stava offrendo un vero affare, dato che le aveva tolto una «terza» parte dal prezzo effettivo8.
Cesare rimase a Roma solo per il tempo necessario a ristabilire l’ordine e a preparare un attacco ai pompeiani in Africa. Diede l’ordine di concentrare le truppe e le provviste nel porto di Marsala, in Sicilia, dove si stava organizzando la forza d’invasione. Le navi continuavano ad essere del tutto insufficienti, specialmente quelle da trasporto, e sarebbe stato impossibile trasferire l’intero esercito con un solo viaggio. Inoltre era inverno, il che significava che ci sarebbe stato maltempo, con i relativi problemi di approvvigionamento simili a quelli avuti durante la campagna macedone. I divinatori che accompagnavano l’esercito dichiararono che i presagi erano sfavorevoli a una campagna nell’immediato futuro, ma Cesare non si era mai preoccupato troppo di simili cose e li ignorò. Era impaziente di partire e sperava che la sconfitta del nemico in Africa avrebbe posto del tutto fine alla guerra. Quando arrivò a Marsala, il 17 dicembre del 47 a.C., fece piantare la propria tenda quasi sulla spiaggia, per infondere un senso di trepidazione e per avvertire i suoi uomini di essere pronti a partire «in qualsiasi giorno e in qualsiasi momento». L’apparente letargia che lo aveva afflitto durante la sua permanenza in Egitto era ormai svanita da tempo ed era tornata la sua tipica energia, resa ancora più accentuata dall’impazienza. Cesare aveva portato con sé una sola legione, ma la settimana successiva ne arrivarono altre cinque, tra cui c’era un’unica unità veterana, la Legio V Alaudae, che aveva formato nella Gallia Transalpina e alla quale aveva dato la cittadinanza romana. Le altre cinque legioni, ovvero la Venticinquesima, la Ventiseiesima, la Ventottesima, la Ventinovesima e la Trentesima, erano state tutte formate durante la guerra, e probabilmente avevano al loro interno molti uomini che in origine erano stati reclutati dai pompeiani.
Appena arrivava, ogni unità veniva imbarcata sulle navi da trasporto che erano in attesa nel porto e i soldati venivano ammassati nel poco spazio a disposizione. Gli ordini erano perentori e proibivano di portare qualunque bagaglio o equipaggiamento che non fosse assolutamente necessario. Le legioni erano accompagnate da duemila cavalieri con i relativi cavalli, ma rimaneva poco spazio per portare molte provviste di cibo e di foraggio e gli animali da soma e da tiro che avrebbero dovuto trasportarle dopo lo sbarco. Cesare confidava che sarebbe riuscito a ottenere tutte queste cose in quantità sufficienti, una volta giunto in Africa. Il 25 dicembre salpò, ma l’operazione non venne pianificata bene. In passato aveva avuto l’abitudine di consegnare degli ordini sigillati, che dovevano essere aperti in un momento preciso e che contenevano dettagli importanti come il luogo dell’attracco sul territorio ostile. In quest’occasione non ebbe abbastanza informazioni per sapere dove far attraccare la flotta e far sbarcare l’esercito e si fidò semplicemente del fatto che sarebbe riuscito a trovare un punto adatto appena arrivato sulla costa africana. I forti venti aggravarono la confusione e i convogli di navi si dispersero, avanzando in maniera disordinata, soli o in piccoli gruppi. Solamente una piccola parte della flotta era con Cesare quando avvistò la terra, il 28 dicembre. Per un po’ di tempo costeggiò il litorale, cercando un luogo adeguato per sbarcare e sperando di essere raggiunto dalle altre navi. Alla fine attraccò vicino al porto di Hadrumetum, che era controllato dal nemico. Aveva con sé soltanto tremilacinquecento legionari e centocinquanta cavalieri. Pare che quando sbarcò, inciampò e cadde sulla spiaggia, ma quelli che erano attorno a lui si misero a ridere, attribuendo la caduta ai presagi sfavorevoli e lui prese due pugni di ciottoli ed esclamò: «Ti tengo, Africa!»9.
Le forze schierate contro di lui erano notevoli. Prima di partire dalla Sicilia ricevette la notizia che Scipione guidava non meno di dieci legioni – sicuramente non al completo e prive di esperienza, ma lo stesso valeva per una buona parte del suo stesso esercito –, supportate da una consistente forza di cavalleria, oltre che dalle truppe del re Giuba, che in quel momento includevano quattro «legioni» organizzate, addestrate ed equipaggiate come quelle romane. I Numidi erano famosi per la loro numerosa cavalleria leggera e per la fanteria specializzata nelle schermaglie – i cavalieri godevano di un’altissima reputazione – e nell’esercito di Giuba c’erano molti soldati di entrambi i corpi. C’erano anche più di centoventi elefanti da guerra, che, essendo una cosa rara da vedere in una battaglia, incutevano terrore, ma erano pericolosi per entrambi gli schieramenti perché si spaventavano facilmente e fuggivano travolgendo anche le truppe amiche. In una fase successiva della campagna, Metello Scipione cercò di addestrare gli animali affinché si abituassero alla confusione e al rumore della battaglia. Dal punto di vista numerico, le truppe di Cesare erano enormemente inferiori rispetto a quelle del nemico, e rimasero tali anche quando nei giorni seguenti furono raggiunte dal resto della flotta. Vennero inviati vari ufficiali con piccole squadre di navi da guerra per cercare le diverse parti del convoglio, e ci volle un notevole sforzo per radunare tutte le imbarcazioni disperse. A un certo punto lo stesso Cesare abbandonò di nascosto l’esercito per andare alla ricerca delle navi smarrite, ma alla fine arrivarono prima che salpasse. Com’era già successo in Macedonia nel 48 a.C., sfruttò il grande vantaggio della sorpresa, dal momento che ancora una volta il nemico non aveva previsto che sarebbe partito così presto e che avrebbe attaccato in pieno inverno. Le forze dei pompeiani erano ancora sparpagliate e ci sarebbe voluto del tempo per radunarle in un numero sufficiente a sconfiggerlo. Nel frattempo, Cesare rimandò la sua flotta in Sicilia e le ordinò di tornare il prima possibile con altre truppe, ma i pompeiani avevano ancora una marina consistente e, come nella precedente campagna, non c’era la garanzia che i successivi convogli sarebbero riusciti a raggiungerlo senza difficoltà. Per il momento, comunque, la sua priorità assoluta fu quella di raccogliere provviste sufficienti a sostentare i suoi uomini mentre aspettavano, ma non poteva allontanarsi troppo dalla costa per approvvigionarsi, perché, se si fosse spinto nell’entroterra, avrebbe avuto meno possibilità di essere raggiunto dai rinforzi, e il nemico avrebbe cercato di ostacolarlo. I pompeiani si erano già impossessati della maggior parte del cibo disponibile, e il diffuso reclutamento dei contadini locali che si erano uniti al loro esercito aveva compromesso seriamente l’agricoltura della regione. Durante le prime settimane della campagna la principale preoccupazione di Cesare fu l’approvvigionamento, e ordinò anche ad altre province, inclusa la Sardegna, di raccogliere delle riserve di grano e di inviargliele con urgenza10.
Subito dopo lo sbarco, Cesare provò a convincere il comandante della guarnigione di Hadrumetum ad arrendersi, ma il tentativo fallì. Non era nella posizione di cominciare un assedio, così continuò l’avanzata e stabilì la sua base principale a Ruspina. Il primo di gennaio del 46 a.C. giunse nella città di Leptis, che lo accolse cordialmente. Come a Corfinio, in maniera precauzionale pose delle guardie di presidio alla città per evitare che i suoi uomini vi entrassero e la saccheggiassero e, dopo aver lasciato anche una guarnigione di sei coorti, il giorno seguente tornò a Ruspina. Il 4 gennaio decise di organizzare una grande spedizione per andare alla ricerca di viveri e portò con sé trenta coorti. A soli cinque chilometri dall’accampamento vennero avvistate delle truppe nemiche, e Cesare ordinò di chiamare la piccola forza di quattrocento cavalieri e centoquaranta arcieri di cui disponeva in quel momento. Andò di persona a fare un giro di ricognizione con una pattuglia, mentre la colonna di legionari lo seguiva. La forza pompeiana era guidata da Labieno e comprendeva ottomila cavalieri numidi, milleseicento cavalieri gallici e germanici, e numerosi fanti, che erano tutti schierati in una linea molto compatta. I cavalieri erano molto più ammassati rispetto al loro solito dispiegamento, perciò Cesare, a causa della distanza, li confuse per una convenzionale linea di battaglia di fanteria in ordine serrato. Partendo da questa erronea premessa, fece schierare le sue truppe in una singola linea di coorti. Raramente i Romani si dispiegavano in questo modo, dal momento che di solito veniva utilizzata almeno una seconda linea, ma i legionari erano in inferiorità numerica e preferì uguagliare la lunghezza della linea nemica, piuttosto che correre il rischio di venire accerchiato. I suoi pochi cavalieri – molti non erano ancora sbarcati – vennero suddivisi tra le ali, mentre gli arcieri vennero posti davanti alla linea per cominciare a disturbare l’avversario. Era pronto, ma decise di non attaccare la linea nemica, perché non voleva provocare un combattimento, a meno che non fosse necessario. Improvvisamente Labieno avanzò e ordinò alla sua cavalleria di estendersi su entrambi i fianchi. Quando i legionari di Cesare cominciarono a muoversi, la fanteria numida si staccò dalla linea principale e si lanciò in massa in avanti. Fino a quel momento la campagna era consistita in piccole azioni mirate; era la prima volta che le forze cesariane affrontavano le tattiche tipiche delle truppe locali. La cavalleria di Cesare venne sovrastata dalla superiorità numerica degli avversari e fu costretta a retrocedere, ma nel centro i legionari lottavano per contenere il nemico, il quale fuggiva prima che potessero capire cosa stesse succedendo, per poi ricompattarsi e tornare alla carica, e per tutto il tempo li tormentava con una pioggia di giavellotti. Essi erano particolarmente vulnerabili ai proiettili lanciati sul lato destro perché non era protetto. Era pericoloso allontanarsi troppo nell’inseguimento, poiché l’agile nemico poteva facilmente trucidare tutti gli individui o i piccoli gruppi che si separavano dallo schieramento. Cesare ordinò ai suoi uomini di non avanzare per più di quattro passi rispetto alla linea principale della sua coorte11.
La pressione era enorme, e probabilmente ci furono più feriti che vittime. I soldati di Cesare si ritrovarono accerchiati e incapaci di contrattaccare un nemico che li stava lentamente distruggendo. La maggior parte dei legionari era priva di esperienza e il nervosismo si propagò in tutto l’esercito. Cesare, come al solito, fece di tutto per rimanere calmo e per incoraggiarli, e a un certo punto vide un portastendardo che stava per fuggire, così lo afferrò, lo fece girare su se stesso e gli disse: «Guarda, è lì il nemico!». Mentre lui cercava di tranquillizzare i suoi uomini, Labieno li provocava da dietro la linea frontale nemica. L’autore del Bellum Africum descrive così la scena:
Labieno cavalcava a capo scoperto davanti alla prima linea, e mentre incitava i propri uomini, allo stesso tempo provocava i legionari di Cesare dicendo: «Cosa vi succede, stupide reclute? Questa è tutta la cattiveria di cui siete capaci? Anche voi siete stati affascinati dalle “sue” belle parole? Vi sta portando in una via senza uscita. Quanto mi fate pena». Al che uno dei nostri rispose: «Non sono una recluta, Labieno, ma un veterano della Decima legione». «Non vedo l’insegna della Decima», affermò Labieno, e allora il soldato replicò: «Vedrai il tipo di uomo che sono», e in quel momento si levò l’elmo per farsi riconoscere dall’altro e lanciò il suo pilum con tutta la sua forza verso Labieno, trafiggendo in profondità il petto del suo cavallo, e disse: «Ecco la dimostrazione che è un soldato della Decima ad attaccarti»12.
Nell’esercito c’erano pochi veterani, e le numerose reclute facevano il possibile per sopportare la pressione. Com’era accaduto nella battaglia della Sambre circa un decennio prima, le truppe, nervose, tendevano a raggrupparsi, limitando così la loro capacità di combattimento e diventando un bersaglio più semplice da colpire. Cesare ordinò alla linea di allargarsi e poi fece girare in maniera alternata le coorti, per far sì che metà di loro fronteggiasse la cavalleria nemica che era giunta dietro la retroguardia, e il resto la fanteria e i disturbatori che si trovavano davanti. Una volta adottata tale posizione, le coorti caricarono simultaneamente, scagliando una densa raffica di pila. Tale attacco riuscì a far indietreggiare il nemico per un po’, e Cesare fermò velocemente l’inseguimento e iniziò a ripiegare verso il proprio accampamento. Intanto i pompeiani ricevettero i rinforzi di Petreio, che portò con sé altri milleseicento cavalieri e numerosi fanti, e, fomentati dall’entusiasmo, cominciarono a inseguire gli uomini di Cesare in ritirata. Questi, dopo aver percorso solo una piccola distanza, furono costretti nuovamente a disporsi in ordine di battaglia e ad affrontare il nemico. I legionari di Cesare erano stanchi, e i cavalli erano praticamente esausti, perché, oltre a non essersi ancora ripresi dal viaggio, erano anche affaticati dalle lunghe manovre, e in alcuni casi feriti. Anche il nemico, tuttavia, era provato dalla lunga giornata di combattimento. Cesare incitò i suoi uomini a fare un ultimo sforzo e poi, dopo aver aspettato che la pressione dei pompeiani si fosse allentata un poco, sferrò un ultimo e deciso contrattacco e li fece retrocedere oltre una collina. Petreio venne ferito e Labieno probabilmente cadde dal suo cavallo e venne portato via dal campo di battaglia, perciò è possibile che le truppe nemiche si fossero ritrovate prive dei loro capi più esperti e aggressivi. Qualsiasi fosse stata la vera causa, questo successo permise a Cesare di ritirarsi senza subire ulteriori attacchi. Lo scontro avvenuto nei pressi di Ruspina, a volte definito una battaglia, fu senza dubbio una sconfitta per Cesare, poiché gli aveva anche impedito di cercare gli approvvigionamenti di cui aveva bisogno il suo esercito. L’esito, tuttavia, avrebbe potuto essere decisamente peggiore, ed era riuscito a lottare per mettere in salvo le proprie truppe. In fin dei conti, fu solo un contrattempo, e di sicuro neanche molto rilevante. L’esercito di Curione era stato distrutto da un nemico che combatteva allo stesso modo, ma Cesare era riuscito a evitare di fare la stessa fine13.
Subito dopo fece fortificare ulteriormente l’accampamento di Ruspina e impiegò alcuni marinai della flotta come soldati di fanteria leggera a terra, mentre agli artigiani dell’esercito ordinò di fabbricare proiettili per le catapulte e giavellotti di vario tipo. Inviò altri dispacci per farsi mandare altre provviste di grano e di viveri. Nel frattempo i soldati si ingegnarono per trovare dei sostituti alle cose di cui c’era disperato bisogno: alcuni veterani raccolsero le alghe dal mare e, dopo averle lavate con l’acqua dolce e fatte asciugare, sfamarono i cavalli, che, pur non essendo in un perfetto stato di salute o nelle condizioni migliori, rimasero comunque vivi. Metello Scipione era giunto con le sue truppe per supportare i pompeiani, il cui esercito si trovava a circa cinque chilometri dalla posizione di Cesare. Anche il re Giuba era in cammino per unirsi a loro, ma fu costretto a tornare indietro perché i suoi territori erano stati attaccati dal suo rivale, Bocco di Mauretania, le cui truppe erano guidate da Publio Sizio, un mercenario romano che era fuggito in Africa dopo essere stato implicato nella congiura di Catilina. Cesare non aveva pianificato con Bocco l’apertura di un altro fronte nella guerra, e fu assolutamente casuale il fatto che lui e Sizio agirono ognuno di propria iniziativa e quasi in contemporanea. Per il re fu senz’altro molto allettante l’alleanza con il rivale di Giuba, il suo peggior nemico, poiché l’aiuto dei pompeiani aveva reso quest’ultimo ancora più potente. Cesare sfruttò queste relazioni di potere nella sua propaganda e disse che i pompeiani si stavano comportando in una maniera indegna per dei senatori romani, perché avevano deciso di schierarsi dalla parte di un monarca straniero e prendevano ordini da lui. Nel Bellum Africum l’autore sostiene che, quando le forze nemiche alla fine si unirono, Metello Scipione smise di indossare il mantello da generale perché a Giuba non piaceva. Afferma anche che i pompeiani si alienarono le simpatie di quasi tutta la provincia a causa della brutalità del loro governo. Quando nella regione si diffuse la notizia che era arrivato Cesare in persona, e non solo uno dei suoi legati, ci furono alcune defezioni nelle comunità locali. Pare che alcune ricordassero i loro obblighi nei confronti di suo zio Mario, il cui nome evocava ancora un grande senso di lealtà, nonostante fossero passati sessant’anni dalla sua vittoria in Numidia. C’era un costante flusso di disertori che si riversava dalle linee pompeiane, mentre nessuno degli uomini di Cesare si schierò dalla parte del nemico. Dall’inizio della campagna i pompeiani avevano giustiziato sistematicamente i prigionieri, e in un caso l’esecuzione avvenne dopo che un centurione si era rifiutato di cambiare fazione e unirsi a loro. Nessuno schieramento fece alcun tentativo serio di porre fine alla guerra attraverso gli accordi. I pompeiani che continuavano a combattere detestavano Cesare, il quale li disprezzava a sua volta. Quando si sparse la voce che gli Scipioni sarebbero sempre stati vittoriosi in Africa, Cesare incluse nel suo stato maggiore uno sconosciuto membro della famiglia chiamato Scipione Salvitone (Salvito o Salutio), che in generale non aveva alcuna qualità, a parte il suo famoso nome14.
Nei dintorni di Ruspina i due eserciti si studiarono ed ebbero continue schermaglie, e i pompeiani cercarono costantemente di tendere delle imboscate ai distaccamenti nemici che si allontanavano troppo dall’accampamento di Cesare. Metello Scipione fece schierare spesso le proprie truppe in ordine di battaglia all’esterno del proprio accampamento e quando, dopo molti giorni, Cesare non mostrò alcuna intenzione di affrontarlo, fece avvicinare ulteriormente le proprie truppe al nemico, ma non fu comunque abbastanza sicuro da sferrare un attacco a tutto campo. Cesare ordinò la ritirata a tutte le sue pattuglie e alle squadre di foraggiatori che potevano essere troppo esposte, e disse ai suoi picchetti più lontani di tornare indietro solo se pressati. Tutto questo fu fatto con la massima disinvoltura, poiché non si preoccupava neanche di salire sulle fortificazioni dell’accampamento per osservare il nemico, ma si limitava a rimanere nella sua tenda del quartier generale, nella quale riceveva i rapporti con tranquillità e dava le adeguate disposizioni «grazie alla sua conoscenza della guerra e alla sua esperienza». La sua valutazione sulla cautela dell’avversario si rivelò esatta, dal momento che Scipione non lanciò un attacco, scoraggiato dalle formidabili difese dell’accampamento, come la palizzata, le torrette ben equipaggiate e la potente artiglieria. Inoltre i pompeiani trovavano snervante l’inattività del nemico e temevano che Cesare stesse cercando di tendere una trappola, ma Scipione riuscì comunque a incoraggiare i suoi uomini dicendo loro che l’avversario aveva solamente paura di affrontarli. Poco dopo arrivò un convoglio dalla Sicilia, sul quale si trovavano la Tredicesima e la Quattordicesima, insieme a ottocento cavalieri gallici e mille fanti leggeri. Oltre a queste truppe esperte, le navi trasportavano abbastanza grano da soddisfare i bisogni alimentari immediati degli uomini di Cesare. Le defezioni e le diserzioni dal nemico continuarono, e la notte del 25 gennaio Cesare si lanciò improvvisamente in un’offensiva, guidando la sua forza principale fuori dall’accampamento. In un primo momento si allontanò dal nemico e superò la città di Ruspina, ma poi la aggirò e si posizionò su alcune colline, dalle quali poteva minacciare le linee dei pompeiani. Ci furono alcuni scontri per difendere tale posizione, e il giorno seguente ci fu un combattimento più grande tra le cavallerie, nel quale vinsero gli uomini di Cesare. I soldati numidi guidati da Labieno fuggirono, ma la loro ritirata lasciò scoperti i guerrieri gallici e germanici al suo servizio e molti furono uccisi. Alla vista dei cavalieri in fuga, anche il resto dell’esercito si scoraggiò. Il giorno successivo Cesare si diresse verso la città di Uzita, nella quale c’era il principale rifornimento idrico dei pompeiani. Metello Scipione reagì avanzando in ordine di battaglia per affrontarlo, ma nessuno dei due schieramenti volle forzare la situazione e istigare uno scontro15.
Metello Scipione, nel frattempo, aveva ricevuto ulteriori rinforzi, perché Giuba aveva lasciato uno dei suoi ufficiali e una forza numerosa per contrastare Sizio, e aveva portato con sé tre delle sue «legioni», ottocento cavalieri pesanti e numerosissimi cavalieri numidi e fanti leggeri per unirsi ai pompeiani. La notizia dell’arrivo del re si diffuse in tutto l’accampamento di Cesare, e l’entità e il fantomatico potere militare dei suoi uomini aumentavano ogni volta che la notizia veniva ripetuta. Svetonio afferma che Cesare decise di parlare ai suoi uomini e con totale naturalezza disse loro:
Sappiate che nel breve giro di soli tre giorni arriverà il re con dieci legioni, trentamila cavalieri, centomila soldati armati alla leggera e trecento elefanti. Di conseguenza, alcuni la smettano di volerne sapere di più o di fare congetture e credano a me, che sono bene informato; in caso contrario, li farò imbarcare sulla più vecchia delle mie navi ed essi andranno, in balia del vento, verso le terre che potranno raggiungere.
Il tono fu simile a quello del discorso a Vesonzione, e palesava che era assolutamente sicuro di sé e leggermente irritato perché i suoi soldati si erano mostrati diffidenti e indisciplinati. Inoltre si rivelò utile il fatto che avesse esagerato il numero delle truppe del re, perché i suoi legionari ebbero un momento di sollievo quando si resero conto che l’entità dei rinforzi nemici era molto inferiore. Ci fu un periodo di manovre militari nei dintorni di Uzita. Entrambi gli schieramenti si contendevano dei colli situati tra le loro posizioni, e Labieno provò a tendere un’imboscata all’avanguardia di Cesare, ma non ci riuscì a causa della scarsa disciplina di alcune sue truppe, che si rifiutarono di attendere con pazienza l’arrivo degli avversari; così i cesariani li sconfissero con facilità e costruirono un accampamento sulla collina. Quando al tramonto la forza principale di Cesare si ritirò nell’accampamento, i pompeiani sferrarono un attacco improvviso con la cavalleria, ma anche questo fu respinto. Le schermaglie continuarono, e gli uomini di Cesare cominciarono a erigere delle linee di fortificazione progettate sia per limitare la libertà del nemico, sia per minacciare la città.
Poco dopo giunse la notizia che un altro convoglio di rinforzi era stato avvistato mentre si avvicinava a Ruspina. Arrivò con un ritardo di parecchi giorni perché scambiò per una forza nemica alcune navi da guerra di Cesare che erano in attesa per scortarlo, ma alla fine l’errore fu chiarito e la Nona e la Decima sbarcarono e si unirono al resto dell’esercito. Memore del ruolo che la Decima aveva avuto nell’ultimo ammutinamento in Italia, Cesare scorse l’opportunità di dare una punizione esemplare ai suoi fomentatori. Uno di questi, il tribuno Avieno, aveva insistito in maniera egoistica perché fosse riempita un’intera nave con i membri della sua famiglia e con i suoi bagagli, un atto particolarmente spregevole, dal momento che lo spazio serviva innanzitutto per trasportare i soldati e le provviste essenziali. Venne dimesso dal servizio e mandato a casa con disonore, insieme a un altro tribuno e a numerosi centurioni che avevano avuto comportamenti simili, ma ad ogni uomo fu permesso di essere accompagnato da uno schiavo. Cesare ormai aveva dieci legioni, metà delle quali erano composte da soldati veterani. Si unirono alle sue truppe altri disertori e riuscì a convincere alcuni capi getuli a ribellarsi contro il re Giuba, il quale fu costretto a inviare altri distaccamenti per contrastare anche loro16.
Le fortificazioni davanti a Uzita furono completate ma, seppure alcuni giorni dopo entrambi gli eserciti si schierarono in ordine di battaglia a meno di mezzo chilometro di distanza tra loro, nessuno dei due volle avviare una battaglia. Ci fu una schermaglia tra la cavalleria e le truppe di fanteria leggera, nella quale i pompeiani ottennero un vantaggio. Gli schieramenti continuarono a fronteggiarsi all’esterno della città e Cesare ordinò ai suoi uomini di estendere le linee di fortificazione. Giunse la notizia che si stava avvicinando all’Africa un terzo convoglio di rinforzi, ma questa volta i pompeiani vennero allertati del suo arrivo e catturarono o distrussero alcune delle navi da guerra di Cesare che erano state inviate per scortare le imbarcazioni da trasporto nell’ultima parte del loro viaggio. Appena Cesare lo venne a sapere, lasciò l’esercito a Uzita e si diresse galoppando a tutta velocità verso Leptis, sulla costa, a circa dieci chilometri di distanza e, dopo aver preso il comando di uno dei suoi squadroni navali, inseguì e sconfisse le navi da guerra nemiche. Sebbene ancora non ci sia chiarezza al riguardo, è probabile che, al contrario di quanto sostenuto da varie fonti, la Settima e l’Ottava non raggiunsero Cesare prima che la campagna fosse ormai decisa.
L’approvvigionamento dell’esercito continuò ad essere un grave problema. Dopo aver appreso che era costume locale seppellire le riserve di cibo, Cesare guidò due legioni in una spedizione per cercare il maggior numero possibile di questi depositi nascosti. Da alcuni disertori venne a sapere anche che Labieno stava pianificando un’imboscata, così nei giorni seguenti inviò altre squadre a cercare il cibo lungo gli stessi tragitti per assecondare Labieno, e poi, una mattina prima dell’alba, inviò tre legioni veterane supportate dalla cavalleria a dare la caccia agli imboscati. Il nemico venne sconfitto, ma il problema delle provviste rimase invariato. Gli ultimi rinforzi avevano rafforzato in maniera consistente l’esercito di Cesare, ma di conseguenza erano aumentate anche le bocche da sfamare. Non era riuscito a costringere i pompeiani a combattere una battaglia secondo le sue aspettative, e non c’era alcuna imminente prospettiva di conquistare Uzita e privare il nemico del suo principale rifornimento d’acqua, così decise che non avrebbe ottenuto alcun beneficio se fosse rimasto dov’era. Dopo aver fatto incendiare il proprio accampamento, si mise in marcia con l’esercito nelle prime ore del mattino e si diresse verso la città di Aggar, dove mandò in esplorazione numerose squadre di foraggiatori, che riuscirono a trovare considerevoli quantità di grano – ma soprattutto orzo – e altri tipi di cibo17.
I cesariani tentarono di cogliere di sorpresa una squadra di foraggiatori dei pompeiani, che stavano avendo difficoltà a sostentare una simile concentrazione di truppe, ma Cesare si ritirò quando vide che si stavano avvicinando i rinforzi del nemico. Durante la sua avanzata l’esercito di Cesare venne disturbato costantemente dalla cavalleria numida e fu costretto a fermarsi spesso e a respingere gli attacchi, che erano logoranti e frenavano seriamente la marcia. A un certo punto la colonna riuscì a fare solo cento passi (circa settantacinque metri) in quattro ore. Cesare posizionò la maggior parte della sua cavalleria dietro la fanteria e scoprì che in questo modo i legionari riuscivano ad avanzare a un ritmo regolare, dal momento che i cavalieri nemici ripiegavano quando i fanti si avvicinavano troppo. Proseguì la marcia, ma riuscì a raggiungere un luogo adatto per accamparsi quando era ormai notte fonda. Durante i giorni successivi rifletté sulla possibilità di addestrare i suoi uomini e di sviluppare nuovi allenamenti per affrontare quel nuovo stile di combattimento. Nonostante la sua ritirata, le città continuarono a schierarsi dalla sua parte, anche se in un’occasione Giuba venne a conoscenza di ciò e assaltò il luogo massacrando tutti i suoi abitanti prima che Cesare potesse inviare una guarnigione. Il 21 marzo l’esercito cesariano celebrò una lustratio, la cerimonia di purificazione rituale che le truppe compievano ogni anno, e che l’autore del Bellum Africum menziona, a differenza di Cesare, che nei Commentarii non vi fa alcun riferimento. Il giorno dopo sfidò il nemico in battaglia, ma questo non accettò e Cesare proseguì la marcia.
Come parte delle sue nuove regole, Cesare diede istruzioni ad ogni legione, affinché tenesse trecento uomini in ordine di battaglia pronti ad agire come supporto alla cavalleria, in maniera tale che queste truppe aiutassero a respingere i cavalieri numidi che li seguivano. Raggiunse la città di Sarsura e l’assaltò, appropriandosi delle grandi riserve di grano che erano state radunate dal nemico. Scipione non fece alcuno sforzo per ostacolarlo. Dal momento che la successiva città controllata dal nemico era troppo forte per essere conquistata senza un vero e proprio assedio, Cesare tornò indietro e si accampò nuovamente vicino Aggar, dove vinse un combattimento tra cavallerie, nonostante i suoi uomini fossero numericamente inferiori. Sfidò ancora il nemico in battaglia, ma i pompeiani rifiutarono di scendere dalla collina sulla quale si erano accampati e Cesare non volle mettere a rischio le vite dei propri uomini sferrando un attacco in una posizione di svantaggio lungo il declivio del colle. Il 4 aprile, ancora una volta si mise in marcia nelle prime ore del mattino e riuscì a percorrere i venticinque chilometri che lo distanziavano dalla città costiera di Tapso per assediarla. Scipione lo seguì e divise le proprie truppe tra due accampamenti a circa dodici chilometri dalla città. Con il mare da una parte e una grande laguna di acqua salata dall’altra, i due principali accessi alla città erano stretti, e Cesare, prevedendo la mossa del nemico, aveva già eretto una fortificazione che bloccava il tragitto più scontato. Dopo aver visto che i suoi piani erano stati sventati, Scipione guidò i suoi uomini in un’ampia marcia notturna attorno al lago per avvicinarsi alla città dall’altra parte e vi giunse la mattina del 6 aprile attraversando una sottile striscia di terra larga meno di due chilometri e mezzo. Giuba e Afranio, invece, rimasero nell’accampamento con le loro truppe per bloccare Cesare18.
Cesare lasciò due legioni di reclute nelle sue linee d’assedio e uscì con il resto dell’esercito schierato in ordine di battaglia nella solita triplex acies per affrontare Scipione. Posizionò sui fianchi le formazioni veterane supportate dagli arcieri e dai frombolieri, la Decima e la Nona su quello destro, la Tredicesima e la Quattordicesima sul sinistro. Come ulteriore protezione, soprattutto contro gli elefanti da guerra del nemico, divise la V Alaudae in due parti e la usò per creare una quarta linea di cinque coorti dietro ognuna delle sue ali. Le tre legioni con meno esperienza – anche se non sappiamo quali – vennero schierate al centro. La cavalleria si trovava come al solito sulle ali, anche se in quella stretta striscia di terra c’era poco spazio per effettuare le manovre. Tale angustia costituì un problema per i pompeiani, la cui cavalleria era più numerosa, sebbene il grosso dei cavalieri numidi fosse rimasto con Giuba. Con una mossa piuttosto insolita, Cesare ordinò ad alcune delle sue navi da guerra di attraversare il canale per minacciare la retroguardia dell’esercito nemico, una volta cominciata la battaglia. Le fonti a nostra disposizione forniscono pochi dettagli sul dispiegamento dei pompeiani, e nessuna cifra attendibile sul numero di truppe al comando di Scipione, così come su quelle rimaste indietro guidate da Afranio e Giuba. Probabilmente lo schieramento era il solito, con la cavalleria sulle ali, le legioni disposte in tre linee e gli elefanti ammassati davanti ai fianchi. Era una buona opportunità per Cesare. I pompeiani avevano diviso le proprie forze e si erano posizionati su un terreno che permetteva solamente uno scontro corpo a corpo, nel quale le sue truppe più esperte avrebbero avuto maggiori possibilità di piegare l’avversario. I suoi legionari erano desiderosi di combattere e sicuri di vincere. Quasi tutti gli ufficiali lo incitarono a dare immediatamente il segnale di attacco e Cesare poteva vedere il loro entusiasmo mentre percorreva la linea per incoraggiarli. Nonostante ciò, l’autore del Bellum Africum sostiene che
Cesare aveva molti dubbi, e cercò di placare l’impazienza e l’entusiasmo dei suoi uomini gridando che non si poteva avviare quel combattimento in maniera avventata. Mentre continuava a contenere l’eccitazione del suo esercito, all’improvviso, dall’ala destra, un tubicen [un trombettiere, ndt] cominciò a suonare la sua tromba senza aver ricevuto ordini da Cesare, ma solo esortato dai suoi commilitoni. Lo squillo venne ripetuto in tutte le coorti e la linea cominciò ad avanzare contro il nemico, e i centurioni si misero davanti ai soldati per cercare di fermarli con la forza e per evitare che attaccassero senza il consenso del generale, ma il loro tentativo fu vano.
Quando Cesare capì che era ormai impossibile contenere gli animi eccitati dei suoi soldati, gridò la parola d’ordine «buona fortuna» (felicitas), spronò il suo cavallo e si diresse verso i capi nemici19.
La fiducia dell’esercito si rivelò giustificata, dal momento che i pompeiani non riuscirono a contrastare quest’attacco improvviso e vennero sconfitti in poco tempo. Plutarco offre un’altra versione del racconto, nella quale afferma che quando la battaglia stava per cominciare, Cesare sentì che stava per avere un attacco epilettico e fu portato in un luogo riparato, e tale contrattempo contribuì a rendere confuso l’avvio dello scontro. Ci sono pochissimi riferimenti agli attacchi epilettici avuti da Cesare, e questo rappresenta l’unico caso in cui l’epilessia interferì con la sua capacità di comando20.
Gli elefanti che attaccarono il fianco destro dell’esercito cesariano furono terrorizzati dalla pioggia di proiettili lanciati dai suoi arcieri e frombolieri e fuggirono alla rinfusa, travolgendo le proprie linee. L’intera ala sinistra pompeiana si disgregò subito e tutti i tentativi di radunare l’esercito fallirono a causa del feroce inseguimento. I legionari di Cesare avevano un pessimo umore e uccisero senza farsi troppi scrupoli rispetto a ciò che invece avevano fatto a Farsalo. Desideravano che la guerra finisse e non volevano vedere altri uomini perdonati e lasciati liberi di attaccarli di nuovo. Lo stesso Cesare ordinò l’esecuzione di un pompeiano che aveva graziato durante la resa in Spagna nel 49 a.C., e che era stato catturato una seconda volta. Questa era la sua normale politica, perdonava un uomo, ma lo uccideva se continuava a combattere contro di lui nonostante il suo perdono. A Tapso i suoi soldati non si preoccuparono di simili distinzioni e molti pompeiani morirono mentre cercavano di arrendersi. I legionari uccisero perfino molti ufficiali dello stesso Cesare che tentarono di fermare la mattanza. Alla fine della giornata erano stati trucidati diecimila pompeiani, mentre tra gli uomini di Cesare ci furono solamente poco più di cinquanta vittime. I principali capi nemici fuggirono, ma la maggior parte di loro morì nelle settimane successive. Afranio e Fausto, il figlio di Silla, furono catturati da Sizio e consegnati a Cesare, che li fece giustiziare su pressione dei suoi soldati. Pochi altri prigionieri furono giustiziati, e in alcuni casi, come quello di Lucio Cesare, il figlio di un suo cugino e legato, non è chiaro se l’esecuzione sia stata ordinata da lui o dai suoi subordinati. Petreio e il re Giuba fecero un patto suicida abbastanza strano e si sfidarono in un duello a morte, il cui esito cambia da fonte a fonte, ma la versione più probabile è quella secondo la quale il romano uccise il numida e poi, con l’aiuto di uno schiavo, si trafisse con una spada. Metello Scipione fuggì via mare, ma si uccise quando le sue navi furono raggiunte da una piccola flotta cesariana che lo stava inseguendo. Dei pochi che scapparono, Labieno riuscì ad andare in Spagna, dove si unì con Gneo e Sesto, i figli di Pompeo21.
Catone fu al comando della città di Utica durante tutta la campagna africana e perciò non aveva assistito alla sconfitta. In fin dei conti, il suo ruolo nelle operazioni militari di tutta la guerra civile fu davvero marginale. I fuggitivi gli riferirono immediatamente le notizie del disastro e gli dissero che gli uomini di Cesare sarebbero arrivati presto. Catone si consultò con i Romani della città, trecento dei quali avevano formato un consiglio su sua iniziativa, ma capì che qualunque cosa avessero deliberato, le possibilità di continuare a combattere erano ormai nulle. Dovette scegliere quindi tra la fuga, la resa o il suicidio. Dopo la cena, che dalla sconfitta di Farsalo aveva deciso di consumare seduto e non più disteso, com’era tipico presso i Romani, si ritirò nella sua camera (non fu la prima decisione simile che prese, perché da quando era cominciata la guerra civile aveva rifiutato di sbarbarsi e di tagliarsi i capelli). Protestò quando si rese conto che suo figlio e i servi gli avevano tolto la spada e insisté affinché gliela riportassero, ma poi tornò alle sue letture. La scelta del testo fu significativa, il Fedone di Platone, un dialogo sull’immortalità dell’anima, ma durante la sua vita si era sempre dedicato allo studio della filosofia. Alla fine, senza preavviso, smise di leggere e dopo aver preso la sua spada si trafisse lo stomaco. La ferita era grave, ma non lo uccise immediatamente, e appena sentirono il rumore, il figlio e i servi accorsero da lui e chiamarono un medico, che pulì e fasciò la ferita. Al quarantottenne Catone, tuttavia, non era mai mancata la determinazione e il coraggio, e quando lo lasciarono solo nella sua stanza strappò via le bende e cominciò a estrarsi dall’addome le proprie viscere. Morì prima che riuscissero a fermarlo. Quando Cesare venne a conoscenza dell’episodio, disse che rimpiangeva amaramente di aver perso la possibilità di perdonare il suo acerrimo oppositore, ma comprendeva il gesto di Catone, che era stato dovuto soprattutto al desiderio di evitare la compassione del nemico.
Meno di tre anni e mezzo dopo l’attraversamento del Rubicone, la maggior parte dei personaggi illustri che avevano costretto Cesare a fare quel passo era morta, e i sopravvissuti si erano dati praticamente tutti alla fuga. Lo spargimento di sangue non era del tutto finito, dal momento che un anno dopo ci sarebbe stata un’altra campagna in Spagna, combattuta con ancora più ferocia. All’inizio della guerra civile, i suoi avversari avevano sbagliato a pensare che Cesare non l’avrebbe affrontata, e a credere che le immense risorse a propria disposizione avrebbero assicurato loro la vittoria. Contro tutte le aspettative, Cesare aveva vinto la guerra e rimaneva solo da vedere se sarebbe riuscito a instaurare la pace e a stabilire un accordo duraturo. Quelle erano le priorità, ma prima, com’era successo in Asia, doveva stabilizzare la regione. Come sempre, le comunità che avevano appoggiato i pompeiani dovettero pagare delle multe punitive, mentre quelle che lo avevano supportato furono ricompensate. In quel periodo, probabilmente, ebbe una relazione con Eunoe, la moglie del re della Mauretania Bogude. Lasciò l’Africa a giugno, quasi cinque mesi e mezzo dopo il suo sbarco22.