Due settimane dopo, Avery stava ancora riflettendo sulla sua decisione di rifiutare la proposta di Carson. Salì le scale di casa, ripensando all'ufficio e non per il lavoro che doveva fare.
Il suo gemito di frustrazione riecheggiò tra le pareti del corridoio. «Ma che sto facendo?»
Si sistemò meglio la borsa a tracolla cercando di respingere i pensieri in un angolino remoto della mente, irraggiungibile. Purtroppo non funzionò.
La porta cigolò quando l'aprì. Flip e Flop accorsero a salutarla, miagolando impazienti per la fame.
«Scusate il ritardo» mugugnò, chinandosi per accarezzarli. Li aveva salvati e adottati subito dopo essersi trasferita lì. Flip era un tigrato arancione a cui piaceva girare su se stesso e la sorella era una pallina pelosa dorata che adorava crogiolarsi al sole. «Credevo che Karen fosse a casa per darvi da mangiare.»
«Karen è a casa» precisò la voce della sua coinquilina che proveniva dal soggiorno. «Ma sono finite le crocchette. Non hai ricevuto il mio messaggio?»
«Accidenti» borbottò Avery, raddrizzando la schiena. Prese il cellulare dalla borsa e c'era il messaggio che le aveva inviato Karen due ore prima, la prova della sua distrazione. «Non l'ho visto.»
«Vuoi che vada al supermercato?» le chiese mentre andava in cucina con un piatto sporco in mano. La pianta aperta ottimizzava l'uso dello spazio ristretto, e la portafinestra scorrevole che dava sulla terrazza riempiva l'ambiente di luce.
«No.» Avery appese l'impermeabile al gancio vicino alla porta e si tolse le scarpe, poi sospirò per il sollievo nel liberare le dita anchilosate. «Vado io, però prima mi cambio.» Non avrebbe mai rimesso le scarpe con i tacchi ora che le aveva tolte.
Karen incrociò le braccia sporgendo un fianco, poi sollevò il mento guardando Avery. «Sai che ti dico? Faccio un salto al supermercato mentre tu ti cambi, poi potrai offrirmi una birra all'Uphill.»
Avery emise un altro sospiro. «Affare fatto. Grazie.» Sorrise con gratitudine e ringraziò mentalmente il cielo che le aveva mandato una coinquilina come Karen. Si erano conosciute quando Avery aveva avuto il primo lavoro a San Francisco ed erano rimaste amiche dopo essere state licenziate entrambe perché l'azienda in cui erano non aveva decollato.
«Bene. Torno fra dieci minuti.» Karen prese al volo la borsa e i venti dollari che le porse Avery quando le passò accanto. Aveva i capelli corti scompigliati ad arte in uno stile sbarazzino che si abbinava bene con i leggings colorati e la camicia nera larga.
«Prendi la busta arancione di crocchette» le gridò dietro Avery.
«Lo so» rispose Karen prima di sbattere la porta.
Avery fece un smorfia. La vicina si sarebbe lamentata ancora, sicuramente. Per pura fortuna e tramite l'amico di un amico era riuscita a trovare un appartamento in quello stabile occupato da inquilini più maturi e abbienti di lei. Il panorama, la terrazza e la posizione compensavano la mancanza di spazio e lo sdegno snob con cui la trattavano.
Mezz'ora dopo entrarono nel bar del quartiere e Avery fu subito investita dal familiare odore di birra. Batté più volte le palpebre per abituare la vista alla luce fioca mentre cercava un posto per sedersi. Dal televisore sopra il bancone del bar proveniva il frastuono di una partita di baseball e anche gli altri sei schermi sparsi nella sala trasmettevano incontri sportivi. Per essere mercoledì, il locale era affollato, ma quel bar era sempre pieno.
«Qui!» esclamò Karen afferrandole un braccio e trascinandola verso un tavolo che si era appena liberato. La coppia che l'occupava si era appena alzata quando Karen si sedette sulla panca e spostò i piatti sporchi verso il bordo del tavolo.
Avery ringraziò i precedenti occupanti e si accomodò di fronte all'amica. Era ormai abituata alla sua sfrontatezza, ma non riusciva a essere altrettanto disinvolta.
«Il solito?» chiese Henry, il cameriere, mentre prendeva i piatti e li impilava sul vassoio. Sorrise e una fossetta gli si formò sulla guancia, ma il suo atteggiamento espansivo, quasi svenevole, era compensato dal tatuaggio al braccio, dal piercing al naso e altri tre a un sopracciglio.
«Sì, grazie» cinguettò Karen. «E crocchette di patate.»
«Posso avere anche un'insalata mista?» chiese Avery, come se si aspettasse di sentirsi dire di no.
«Subito.» Henry andò via senza scrivere l'ordinazione.
Karen lo seguì con lo sguardo mentre passava tra i tavoli, diretto verso la cucina. Avery sapeva che cos'avrebbe detto ancora prima che avesse aperto la bocca. «Perché quelli sexy sono tutti gay?»
«Non è vero.» Carson non poteva essere gay. Forse bisessuale, ma era decisamente sexy e gli piacevano le donne. O, almeno, le sembrava di piacergli.
Eppure gli aveva voltato le spalle.
Karen girò di scatto la testa verso di lei, stupita. «Davvero?» Incrociò le braccia sul tavolo e si protese verso di lei, incuriosita. «Racconta.»
Avery era tentata di spifferarle tutto ma resistette. Aveva firmato un contratto. Forse avrebbe potuto spiegarsi senza entrare nei dettagli. «Nel mio ufficio ci sono diversi uomini sexy e sono sicura che non siano gay.»
Karen si appoggiò allo schienale della panca con aria delusa e agitò una mano per liquidare la sua risposta. «Credevo che avessi finalmente messo gli occhi su qualcuno.»
«Mi guardo sempre intorno.» Ed era vero. Però da qualche tempo non faceva niente di più. Aveva smesso di avere avventure di una notte dopo essere arrivata a San Francisco. Gli incontri casuali non le sembravano più molto prudenti, visto che non aveva nessuno che la proteggesse, e aveva perso ogni interesse ora che aveva degli amici.
«Hai lasciato John da più di un anno.»
«Sì.» Quasi due, veramente, ma evitò di precisarlo per non fare il gioco di Karen.
L'amica la guardò confusa. «E non ti manca il sesso?»
«Io lo faccio spesso» disse Henry strizzando l'occhio a Karen mentre posava le birre. Si chinò e aggiunse: «Ed è fantastico».
Karen scoppiò in una fragorosa risata e sbatté le mani sul tavolo. Avery guardò Henry a bocca aperta mentre si allontanava con passo volutamente spavaldo.
«Devo trovare un uomo così, ma non gay» dichiarò Karen.
«Già» bofonchiò Avery prima di bere una lunga sorsata. Chiuse gli occhi gustando la birra fresca che le scendeva in gola. Il vino non le dava lo stesso sollievo.
Henry servì i piatti che avevano ordinato e li portò via quando furono vuoti. Erano a metà della terza birra quando Avery riprese il discorso. «Vedi ancora Greg?»
«Vuoi dire Craig?» Karen era seduta scompostamente sulla panca e aveva un sorriso ebete. Avery annuì. «No. Era carino ma non mi suscitava niente.»
«Lo dici spesso.»
«Perché è vero.»
Avery non aveva nulla da obiettare. Aveva smesso di uscire con diversi uomini per lo stesso motivo. E poi c'era Carson. Le bastava pensare a lui per avere il batticuore. Aveva cercato di evitarlo in ufficio ma le sembrava di trovarselo continuamente tra i piedi. Nell'ufficio di Gregory, in corridoio o a una riunione. Avvertiva sempre la sua presenza con un fremito, sia che le passasse accanto sia che fosse dall'altra parte dell'atrio. Non si comportava in maniera diversa dal solito né attaccava discorso con lei, ma ora Avery sapeva qualcosa di più. Di lui, di quello che faceva. Di quello che voleva.
E per questo lo guardava da una prospettiva diversa. Non negativa.
«Hai...» Avery s'interruppe e bevve un sorso di birra.
«Che cosa?»
Dillo e basta. «Hai mai fatto sesso di gruppo?»
Karen sollevò le sopracciglia, ma quella fu la sua unica reazione. «Come tutti, no?» Aggrottò le sopracciglia. «Almeno una volta?»
«No!» Dio... Non avrebbe dovuto dimostrarsi tanto ingenua. «Be', io no.»
«Perché no?»
«Perché dovrei?» replicò Avery.
Karen arricciò le labbra in un sorriso malizioso. «Perché è divertente.» Il suo tono sensuale le fece capire quanto le fosse piaciuto.
Wow. Avery distolse lo sguardo, sbalordita. No, in fondo non era stupita. Karen era della California meridionale ed era arrivata a San Francisco con poche inibizioni e un atteggiamento ancora più spudorato. Aveva allargato gli orizzonti di Avery riguardo a molte questioni, dai gay ai diritti delle donne, dal sesso all'uguaglianza razziale. Karen parlava con la massima disinvoltura di argomenti intimi, e non esitava a dire apertamente con quale frequenza si masturbasse, una delle cose che Avery avrebbe preferito non sapere. Però era stata Karen a trascinarla per la prima volta in un sexy shop e le aveva consigliato un vibratore, che Avery non aveva mai avuto.
Almeno per quello le era immensamente grata.
«Ehi.» Karen le diede un calcio sotto il tavolo per attirare la sua attenzione. Avery si riscosse e si accigliò scostando le gambe. L'amica sorrise sollevando il mento. «Che succede?»
Niente. Tutto. Forse...
Avery si prese la testa tra le mani ed emise un gemito tormentato. «Non lo so. Sono confusa, non ho idea di cosa fare.» L'alcol abbinato al bisogno di sfogarsi le sciolse la lingua. «Voglio farlo, ma ho paura delle conseguenze. Lui ha detto che è tutto sicuro e ho firmato un contratto, dovrebbe bastare ma se non è così? Se mi fa schifo? Se è un imbroglio o un terribile gioco e io ne sono la vittima? Che...»
«Ehi, ehi, aspetta.» Karen le prese una mano e gliela staccò dalla testa, costringendola a guardarla. Il suo cipiglio ostile non la dissuase. «Spiegati meglio.»
Avery si scostò, già pentita. Chiuse gli occhi e cercò di respirare a fondo perché aveva l'affanno.
«Avery...» la pungolò Karen dolcemente. «Che c'è? Mi stai facendo preoccupare.»
Non c'era motivo. Non era niente. Lei stava solo ingigantendo la cosa.
«Allora, vediamo...» cominciò Karen. «Hai detto di avere firmato un contratto? Stai parlando di giochi sadomaso?»
«Come?» Avery strabuzzò gli occhi. «No.» Era così? Carson non aveva parlato di niente del genere. Ma... «Almeno non credo. No» si corresse in fretta, scuotendo la testa con fermezza. «Non si tratta di questo.» La donna in effetti aveva le mani legate, ma non c'erano fruste, collari e sculacciate.
Karen la scrutò attentamente. «E allora di che cosa si tratta?» Si piegò verso di lei con un bagliore malizioso nello sguardo. «Devo prendere a calci qualcuno?»
Avery fece una risata vagamente isterica. Bevve un sorso di birra che però era ormai tiepida e non più dissetante. Non era una vergine trentenne, Cristo santo, però si comportava come se lo fosse. Perché?
Perché aveva paura.
Di sperimentare, esplorare. Della propria reazione. Di ciò che gli altri avrebbero pensato di lei. Di fare qualcosa che molti avrebbero considerato proibito, per esempio i suoi genitori.
«No» rispose infine. «Niente calci a nessuno, tranne a me, forse.»
«Ok.» Karen si strofinò le mani poi fletté le dita. «Dimmi perché, così posso decidere quanto devo colpirti forte.»
La risata di Avery stavolta fu più rilassata e il suo sorriso sincero. «Grazie.» Era proprio ciò di cui aveva bisogno.
«Prego.» Karen agitò una mano. «Avanti, vuota il sacco.»
Ma cosa dire senza superare i limite? «Allora...» Fece un respiro profondo e lo esalò in un lungo sospiro, cercando di mettere da parte l'imbarazzo. «Mi è stato...» Offerto? No. «Ho una...» Occasione? Più o meno, però a dirlo così le sembrava strano. «Se tu avessi la possibilità di esplorare...» Ecco, così va bene. «...un desiderio sessuale in un ambiente protetto, lo faresti?»
Karen si accigliò. «È una domanda trabocchetto?»
Avery scosse la testa.
«Allora sì, cavoli.» Karen le lanciò un'occhiata che le fece capire quanto giudicasse sciocca la domanda. «Perché, tu no?»
E ci risiamo con la paura.
Avery si strinse nelle spalle e distolse lo sguardo. Era sicura che Karen avrebbe reagito così, e forse era per questo che aveva esitato tanto ad affrontare l'argomento.
«Ok, aspetta.» L'amica si protese verso di lei fissandola intensamente, con le braccia incrociate sul tavolo. «È legale?» Avery annuì. «E hai detto che è sicuro, no?» Un altro cenno di assenso. «E sei interessata?» Avery deglutì e il suo cenno stavolta fu più lento. «Allora che cosa c'è che non va?»
Carson.
Era così... così tutto. Avrebbe potuto perdere la testa per lui, ma non doveva. Lui l'aveva detto chiaramente. Non era interessato ad alcun rapporto al di fuori del Meeting Room. «Non so se posso limitarmi al sesso fine a se stesso.» Quell'ammissione sembrava innaturale anche alle sue orecchie. «Cioè, mi è capitato di avere storie da una botta e via, ma mai da sobria e sapendolo prima.» Questa situazione era diversa da un'avventura in preda ai fumi dell'alcol.
«E questo ti spaventa.» Non era una domanda.
Ovviamente Karen aveva centrato il problema.
Avery gemette e abbassò la fronte contro il tavolo sbattendola più volte. «Non lo so.» Se avesse potuto assumersi con convinzione la responsabilità del suo rifiuto, non sarebbe stata tanto confusa. Ma aveva l'impressione di stare perdendo qualcosa d'importante, un'occasione che non le sarebbe più capitata, anche se c'era il rischio che non le piacesse.
Anche se dubitava che l'avrebbe disgustata, e quello era uno dei problemi.
Voleva guardare di nuovo una scena erotica, provare quell'eccitazione, assistere alla passione, con Carson.
Quell'ammissione le provocò un tuffo al cuore. Di notte non faceva altro che pensare a lui, alle sue spalle, alle sue mani che la toccavano e la faceva guardare mentre dava ordini alla coppia sul tavolo.
Deglutì a vuoto e serrò le cosce per reprimere l'eccitazione che si era risvegliata. Strinse i pugni, mentre il desiderio la spronava a cedere. E, comunque, perché resisteva?
Perché i valori che le erano stati instillati sin dall'infanzia le dicevano che non doveva.
I suoi genitori non l'avrebbero mai saputo.
Ma lei sì.
«Ohi.» Karen le urtò ancora la gamba. Avery non si mosse. «Che rischi correresti?»
«Minimi, o almeno è ciò che mi è stato promesso» rispose tenendo la fronte contro il tavolo. Poteva pretendere che non venisse mai a saperlo nessuno della Faulkner?
«Quindi sei tu ad avere problemi che ti frenano.»
Da quando la sua coinquilina era diventata tanto sagace? «Sì.»
Quando si rese conto di sembrare stupida continuando a parlare con il tavolo raddrizzò la schiena e sospirò nel vedere l'espressione ironica di Karen. Cercò di guardarla in cagnesco, ma fallì miseramente e le sorrise suo malgrado. Accidenti a lei.
Quando Henry passò accanto al loro tavolo Karen gli chiese il conto poi tornò a guardarla, divertita e incuriosita. Avery aveva voglia di buttarle in faccia la birra, ma si limitò a scuotere la testa e a guardarla con disapprovazione.
«Mi sembra che tu debba superare le tue riserve o accettarle» sentenziò infine la coinquilina. Avery alzò gli occhi al cielo e l'amica fece una risatina. «Sarà anche un'ovvietà, ma dovevi sentirtelo dire da qualcun altro.»
Era vero. Dannazione. Avery sospirò e smise di essere corrucciata. Tanto era inutile.
Divisero il conto e tornarono a casa. L'aria era frizzante e il vento che risaliva il pendio della collina portava con sé l'odore salmastro del mare. Karen non insistette oltre e Avery gliene fu riconoscente. Stava a lei prendere quella decisione nonostante una parte di sé desiderasse che fosse qualcuno a dirle che cosa fare.
Però era ormai adulta e avrebbe considerato invadente chiunque avesse avuto la pretesa di decidere al suo posto. Anche quello era un problema. A volte era veramente difficile fare una scelta.
Quando si mise a letto era ancora assillata da mille pensieri che le ronzavano in testa e al centro di tutti c'era Carson. Sarebbe mai riuscita a smettere di essere ossessionata da lui? Ma voleva smettere di pensare a lui?
No, in realtà no. E quello era il problema più grosso.