Carson si svegliò di soprassalto e aprì gli occhi di scatto, con tutti i sensi in uno stato di allerta. Perché? Con le pulsazioni accelerate, il cervello si collegò sentendo uno stridere di freni e poi una sfilza d'improperi che provenivano da fuori e lo riportavano alla percezione del mondo esterno.
Cristo. Si girò supino e si stropicciò gli occhi, poi sbadigliò. Che ore sono?
Il sole che filtrava dalle tende leggere era luminoso e Carson strizzò le palpebre guardando il soffitto, per abituare la vista alla luce. Non dormiva mai fino a tardi, qualunque ora fosse. Si svegliava sempre all'alba indipendentemente da quando andava a dormire.
Si voltò su un fianco e si bloccò, raggelato. La notte prima lo invase con i ricordi della passione e dell'ardore che avevano regnato in quelle ore. Le lenzuola erano spiegazzate dall'altro lato ma il posto era vuoto. Avery era andata via?
Si alzò a sedere di colpo e si guardò intorno, trattenendo il fiato finché non individuò le tracce della sua presenza. Le scarpe rosse erano ancora sul pavimento dove le aveva buttate, un triangolino di pizzo rosa era appallottolato a terra vicino al comò e l'abito rosso era piegato con cura sulla spalliera della sedia in un angolo della stanza.
Carson tornò a stendersi supino esalando il respiro. Perché era tanto importante che Avery non fosse andata via? Se ci fosse stata un'altra donna al suo posto, ne sarebbe stato sollevato.
Ma Avery non era come le altre.
In tutta sincerità, non lo era mai stata.
Infilò un paio di boxer aderenti di maglina e una T-shirt poi andò in bagno. Passando davanti alle altre stanze vi sbirciò all'interno ma non la vide. Dov'è?
Trovò una tazza che lo attendeva sul piano della cucina, vicino alla caffettiera accesa e carica. Nel lavello c'era un cucchiaino sporco, ma non c'erano altri segni del passaggio di Avery. Si preparò il caffè e sospirò dopo avere bevuto il primo sorso. Forse ora il cervello si sarebbe rimesso in moto.
Con la tazza in mano, salì le scale che portavano alla terrazza sul tetto, che condivideva con gli altri occupanti del palazzo. Sorrise istintivamente quando la individuò. Avery era raggomitolata su una sdraio riparata dall'ombrellone in mezzo al tavolo. Aveva le gambe piegate con i piedi sotto il corpo e indossava una sua maglietta, con la scollatura che era scivolata da un lato scoprendole una spalla. Aveva i capelli sciolti in morbide onde sulle spalle ed era concentrata a guardare qualcosa al cellulare.
Il cuore di Carson fece una capriola, una sensazione insolita come la felicità che lo invadeva. Doveva essere per la bellezza di quella mattinata di sole. Sì, sicuramente.
Ma chi credeva di prendere in giro?
In effetti il cielo era di un azzurro abbacinante, percorso solo da qualche nuvoletta leggera. Il Golden Gate si estendeva in lontananza, con una torre ben visibile attraverso il fogliame. Una lieve brezza scompigliava i capelli di Avery e faceva ondeggiare le fronde delle palme circostanti.
Nell'aria aleggiava l'aroma della colazione insieme alla freschezza onnipresente della baia. Carson sentì lo stomaco che brontolava, e si fermò per bere un altro sorso di caffè. Aveva bisogno di schiarirsi le idee perché aveva mille pensieri che gli turbinavano in testa.
Avery sollevò la testa e gli sorrise quando lo vide. «Ehi» disse mentre Carson si dirigeva verso di lei. «Spero che non sia un problema stare qui.» Indicò la terrazza.
«Nessun problema» disse avvicinando una sedia e sedendosi. Guardò il panorama, che comprendeva anche la cupola del Palazzo delle Belle Arti e le colline circostanti, sia alle loro spalle sia dall'altro lato della baia. «Dimentico sempre che c'è» disse più a se stesso che a lei. Non ricordava l'ultima volta in cui era salito in terrazza.
Avery posò il cellulare sul tavolo di vetro e si girò verso il mare. «La vista è spettacolare.»
«Sì» annuì lui, distratto. Tu sei spettacolare. Quel pensiero sdolcinato non lo infastidì come avrebbe dovuto. «Scusa se non mi sono svegliato prima» disse quando lei non aggiunse altro.
«Che problema c'è?» Avery scrollò le spalle con un sorriso. «Evidentemente avevi bisogno di dormire.»
«Avresti potuto svegliarmi.»
«Però avrei perso questo» replicò in tono leggero, stendendo una mano per abbracciare il panorama, ma il suo sorriso si spense mentre lo contemplava.
«Ehi.» Carson si protese verso di lei e le toccò il mento per farla voltare. Lesse nei suoi occhi l'esitazione e i dubbi, che gli provocarono dei sensi di colpa anche se non sapeva perché. Quello che sapeva era che non gli piaceva vederla tanto incerta. «Mi fa piacere che tu sia rimasta ieri notte.»
Avery batté le palpebre, ancora dubbiosa. «Anche a me» ammise sottovoce, esitante.
Lui l'attirò a sé per poter baciare quelle labbra di cui sembrava non stancarsi mai. Voleva darle un bacio rapido e lieve, ma il contatto mandò in fumo le sue intenzioni. Si avvicinò di più, le leccò le labbra e infilò la lingua nella sua bocca calda quando lei l'aprì. Inebriato dal sapore dolce e inconfondibile di Avery, misto a quello del caffè, non riuscì più a ragionare.
Baciandola con lente passate di lingua, muovendola pigramente intorno alla sua, si sentì piombare a capofitto in una dimensione in cui non vedeva alcun appiglio. Si ritrasse dopo un'ultima pressione intensa delle labbra. Vide che l'espressione degli occhi di Avery si era addolcita e l'incertezza era svanita. Le sfiorò le labbra con il pollice; era smarrito, non sapeva che cosa fare ora, ma in quel momento era appagato.
Tornò a sedersi meglio e bevve il caffè che si stava raffreddando, approfittandone per lasciar calmare le emozioni. Anche Avery si scostò e appoggiò la schiena alla sdraio, coprendosi le gambe con la maglietta larga. Carson notò che sembrava più rilassata e ne fu contento.
«Ho preso questa, spero che non ti dispiaccia» commentò prendendo la maglietta fra due dita.
Era grigia, con la scollatura allargata dall'uso e uno stemma ormai sbiadito di una squadra di baseball; Carson l'aveva da anni, ma era sicuro che da quel momento in poi non avrebbe più potuto guardarla senza immaginarla addosso ad Avery.
«Assolutamente no.» Sfiorò con la punta di un dito la sua spalla nuda e lei, scossa da un brivido, gli lanciò un'occhiata civettuola. Carson abbassò la mano e cercò di non pensare alla voglia di riportarla subito a letto e rimanerci per tutto il giorno. «Devi tornare a casa a fare qualcosa?»
«No.» Avery scosse la testa. «Di solito passo la domenica a fare il bucato e delle commissioni.»
Carson annuì. Anche lui approfittava della domenica per rimettersi in pari con il lavoro o semplicemente programmare. Però quel giorno non aveva alcuna fretta. «Hai dei parenti in zona?» Sapeva così poco di lei!
«No.» Avery s'illuminò. «Vivono tutti in Ohio.»
Carson sollevò un sopracciglio. «Tutti?»
Avery si strinse nelle spalle. «I miei genitori, mio fratello maggiore, nonni, cugini...»
«Insomma, sei l'unica che abbia osato allontanarsi.» E questo di per sé era già interessante. Era una spia del coraggio nascosto sotto le sue incertezze. «Come mai?»
Lei lo guardò stupita. «Cosa? Che la mia famiglia sia ancora tutta lì o che io sia andata via?»
«Tutt'e due le cose.»
Avery fece una risatina sommessa che gli strappò un sorriso. «Non so perché sono rimasti tutti a casa. Ma io...» Scrollò di nuovo le spalle. «Ho avuto una possibilità e ho pensato... perché no?» Guardò un punto fisso in lontananza e aggiunse a voce più bassa: «Che cosa ho da perdere? Posso sempre tornare lì, in fondo. Però se avessi rifiutato la prima offerta di lavoro l'avrei fatto solo per paura, e mi rifiuto di farmi condizionare dalla paura». Lo guardò con aria determinata. Quell'affermazione aveva tanti sottintesi, ma era chiaro che era orgogliosa della scelta fatta.
E, accidenti, anche lui era fiero di lei, pur non avendone alcun diritto. Era colpito, e ammirato. «Senti la mancanza della tua famiglia?»
«Sì, ma sempre meno con il passare del tempo.»
Carson annuì. «Ti capisco. Prima eravate uniti, invece ora avete vite completamente separate.»
«Esatto» sorrise Avery. «Voglio bene a tutti, intendiamoci, ma non mi conoscono più veramente.» Si appoggiò al tavolo. «Loro sono sempre gli stessi. Non hanno cambiato né amici né modo di vivere o di pensare. Invece io non mi sento la stessa che ero quando sono andata via di casa cinque anni fa.»
«Cinque anni?» ripeté Carson, incrociando le braccia sul tavolo e piegandosi verso di lei nella stessa posa rilassata. «Sei qui da tanto.»
«Sì.» Avery lanciò un'occhiata al panorama. «E non penso che tornerò mai là.»
Un'altra cosa che avevano in comune. «Comprendo perfettamente.» Non aveva mai avuto voglia di tornare nella California meridionale dopo essersi laureato a Stanford.
«E tu? Sei di qui o sei trapiantato?» Avery lo indicò con il mento.
«Trapiantato.» Carson rise per quella definizione. «Ma non vengo da tanto lontano quanto te. Sono nato e cresciuto vicino a Los Angeles.» Avery lo guardò incuriosita e lui cedette con un'altra risatina. «E va bene...» Appoggiò la schiena alla sedia e stese le braccia sopra la testa, poi le lasciò ricadere. «Ho due fratelli più grandi, uno che vive ancora nella stessa città in cui siamo cresciuti e un altro che è a Seattle. I miei sono divorziati, ma sono ancora entrambi nella California meridionale.» E quella era una versione succinta del suo albero genealogico.
Da tanto tempo nessuno si curava di chiedergli di parlare di sé. In generale gli uomini non cercavano di andare oltre la superficie e approfondire la conoscenza a meno che si conoscessero da anni.
«Che cosa fanno i tuoi genitori?» Avery appoggiò il mento sulla mano, scrutandolo. Con i capelli che le ricadevano su una spalla e il viso ormai quasi struccato era ancora più bella. Com'era possibile?
«Mio padre fa l'allenatore di una squadra di football in una scuola superiore» le rispose, riportando l'attenzione al discorso. Suo padre amava il suo lavoro e aveva trasmesso la sua passione ai figli in anni di allenamento, lezioni e impegno. «E mia madre insegna matematica all'università.»
«Davvero?» Avery stese la mano e gli toccò la bozzetta sul naso. «E questo te lo sei fatto giocando a football?»
«Sì, al primo anno di superiori.» Carson sorrise spontaneamente, nonostante il ricordo gli provocasse ancora una certa tensione, anche se erano passati anni. «Venni placcato in maniera irregolare, mi saltò il casco e sbattei la faccia a terra.» Deglutì di riflesso prima di proseguire il racconto. «L'altro mi aveva messo un braccio intorno al collo prima di cadere insieme.» Scrollò le spalle vedendola accigliarsi. Ormai non poteva più farci niente. «Restai in ospedale per più di una settimana per i danni alla gola e il trauma cranico, e mi è rimasta la voce così.» Fece un gesto vago in direzione della bocca per riferirsi al suo tono roco.
«Wow, dev'essere stato un bel trauma.» Avery lo fissò sbalordita.
Ormai era abituato a quel timbro cupo, come se avesse una leggera raucedine, ma per molto tempo gli aveva ricordato il rischio che aveva corso. Scrollò di nuovo le spalle. «Per mia madre, più che per me, devo dire.» Sorrise per quel ricordo. «Mi proibì di giocare a football da allora in poi e mio padre non cercò di opporsi.»
«E tu eri d'accordo?»
«Più o meno.» Cercò di rammentare quel periodo, ma il tempo stemperava sempre le emozioni provate. «Da allora mi sono concentrato sugli studi ed è andata bene così.» Infatti era riuscito a entrare a Stanford e ad arrivare dov'era. «E i tuoi che lavoro fanno?»
Avery fece una smorfietta. «Mio padre è commercialista e mia madre era casalinga, poi è andata a lavorare in un asilo quando abbiamo cominciato le medie.»
«Dev'essere stato bello.»
«Che cosa?» Avery raddrizzò la schiena. «Avere mia madre a casa con noi?» Carson annuì. «Sì.» Aggrottò le sopracciglia. «La tua non era molto a casa?»
Carson avvertì una leggera stretta allo stomaco e spostò lo sguardo verso le colline in lontananza, ma senza vederle veramente. Era per quello che gli uomini mantenevano conoscenze superficiali. Parlare di argomenti più profondi risvegliava emozioni che preferivano non affrontare. Bevve un sorso di caffè prima di rispondere. «Mia madre insegnava alle superiori quando ero piccolo e intanto seguiva dei corsi serali per prendere il master e poi il dottorato.»
Avery annuì lentamente, comprendendo il sottinteso. «Quindi era molto impegnata.»
Carson scrollò le spalle con noncuranza. «Era, ed è ancora, una brava madre e sono orgoglioso di lei perché ha realizzato il suo sogno.»
«Ma...» Avery chinò il capo poi lo guardò negli occhi. «Da bambino hai sentito la sua mancanza.»
Carson avvertì una stretta al cuore; era una verità che aveva superato da tempo. Ormai era adulto, la sua infanzia era lontana nel passato. Si alzò e le porse la mano. «Andiamo a fare colazione?»
Lei lo guardò confusa, corrugando la fronte, ma poi gli sorrise. «Non sono vestita per uscire» obiettò abbassando lo sguardo verso la maglietta.
Carson pensò immediatamente che era completamente nuda sotto, a meno che avesse portato delle mutandine di ricambio nella borsetta. «Già.» E c'era di meglio da fare che mangiare.
Si chinò per rubarle un bacio, infilando una mano nella scollatura della maglietta per palparle un seno. Avery emise un gridolino soffocato e lo spintonò scherzosamente, ma non era una vera protesta, altrimenti si sarebbe fermato. Giocò con il capezzolo fino a farlo inturgidire. Avery emise un gemito gutturale e gli cinse il collo con le braccia, smettendo di resistere.
Carson sentì che cominciava ad avere un'erezione e che un calore intenso si diffondeva in tutto il ventre. Smise di ragionare per un istante ma poi un clacson forte in strada lo fece tornare in sé.
«Potremmo tornare a letto» le disse con le labbra contro il suo orecchio dopo essersi staccato dalla sua bocca. Cercò l'altro capezzolo e lo torse fino a indurirlo, pensando a tutto ciò che avrebbe voluto farle. La terrazza era condominiale, e poteva salire qualcuno, per non parlare del fatto che erano circondati da palazzi più alti da cui si vedeva bene il tetto.
Il suo gusto del proibito s'infiammò a quel pensiero. Il rischio lo eccitava.
Avery inclinò la testa di lato. «E se invece avessi fame?»
Carson le mordicchiò il collo. «Ti darò da mangiare dopo, promesso.» Si allontanò da lei e il mugolio di protesta di Avery alimentò il suo desiderio. Dopo la notte passata insieme avrebbe dovuto essere appagato e invece la voleva ancora. Subito.
Tornò a sedersi e la prese sulle ginocchia senza mai staccare lo sguardo dai suoi occhi, Avery comprese al volo le sue intenzioni, a giudicare dal suo sorrisetto complice.
«Che cosa fai?» sussurrò cingendogli il collo con le braccia. Aveva le gambe piegate ed era seduta sulle sue cosce.
Era una follia. Gli batteva forte il cuore e il pene ebbe un fremito sotto i calzoncini. La brezza le spostò i capelli sugli occhi e lui li scostò poi le attirò il volto verso il suo. «Ti bacio.»
In quella posizione Avery era più in alto di lui, e ne approfittò. Incollò le labbra a quelle di Carson che lasciò ricadere la testa all'indietro e si fece guidare. L'emozione di vederla così consapevole della propria sessualità gli rese più facile darle il potere, almeno per un po'.
Lei gli prese il volto tra le mani e gli infilò la lingua in bocca, baciandolo con ardore. Anche se erano in pieno giorno il desiderio era irrefrenabile. Carson gemette, con il ventre trafitto da uno spasmo per la voglia di affondare in lei, senza curarsi del posto in cui si trovavano.
Avere un rapporto completo lì era fuori discussione, perciò fece scivolare una mano lungo la schiena di Avery e la fece risalire davanti sulla coscia per insinuarla tra le gambe. Avery sussultò e si staccò dalla sua bocca quando le toccò il clitoride. Ma Carson era già pronto a prendere il sopravvento. Avery sgranò gli occhi, stava per obiettare ma le parole le morirono sulle labbra quando le mise l'altra mano dietro la nuca e la baciò con passione.
Avery si dimenò sulle sue ginocchia, agitando i fianchi non per staccarsi ma per assecondare il ritmo serrato con cui le massaggiava il clitoride. Impresse al bacino un movimento rotatorio, poi lo lasciò ondeggiare avanti e indietro, come per guidare i movimenti di Carson. Era così sensuale!
Aveva il batticuore e il pene che smaniava per sentire il calore di Avery. Le infilò dentro un dito ed emise un gemito roco, sentendola bagnata. Il ricordo delle sensazioni sublimi provate quando era dentro di lei lo percorse tutto e saettò al pene, che era già durissimo.
Avery oscillò verso di lui, con una mano appoggiata al suo torace mentre lo baciava con totale abbandono. «Mio Dio...» mugolò sfiorandogli le labbra, con il respiro affannoso. I capelli che ricadevano in avanti creavano una specie di tenda che li riparava in parte dal mondo, anche se era solo un'illusione.
Carson girò la testa e guardò i palazzi di fronte senza smettere di giocare con il suo sesso. Riportò le dita scivolose sul clitoride e i suoni della carne bagnata aggiungevano una nota erotica ai suoi gesti coperti dalla maglietta.
Nessuno poteva vedere chiaramente che cosa stesse facendo. Non erano nudi, ma l'espressione estatica di Avery e i loro movimenti erano difficili da nascondere. Quella consapevolezza amplificò immensamente la sua eccitazione.
Le morse il labbro inferiore, massaggiandole più rapidamente il clitoride. «Potrebbe esserci qualcuno che ci guarda» mormorò. Avery s'immobilizzò e lui le infilò dentro due dita, strappandole un grido sommesso mentre lei muoveva i fianchi all'unisono con i movimenti della sua mano.
Aveva gli occhi chiusi, la testa rovesciata all'indietro, con i capelli che gli sfioravano il dorso dell'altra mano. Gli offriva uno spettacolo di voluttuoso abbandono. Carson chinò la testa e le morse un capezzolo attraverso il cotone della maglietta. Avrebbe voluto baciarle la pelle, sentire il sapore del suo sesso e al diavolo se qualcuno poteva vederli o sorprenderli. Però si trattenne, perché immaginarlo era quasi più eccitante dell'atto di per sé.
Avery raddrizzò la schiena e gli attirò la testa al busto, stringendolo forte mentre si muoveva freneticamente sulle sue dita. «Sì!» Il suo ansito era una musica soave.
Carson le succhiò il capezzolo mentre le accarezzava il clitoride con il pollice, continuando a muovere le dita dentro di lei. La sentì contrarre i muscoli interni e i suoi mugolii divennero più affannosi.
Avery tremava tutta e gli conficcò le unghie nella nuca. Lui sollevò la testa e la baciò con foga, inghiottendo le sue grida e abbracciandola mentre Avery era travolta dall'orgasmo e si dimenava sulla sua mano, sfrenata, in preda al delirio erotico.
Vederla così lo faceva impazzire. Era invasa da una strana sensazione possessiva. Era stato lui a farla godere tanto intensamente, a dimostrarle quanto fosse bella quando si abbandonava al piacere, quanto potesse essere appassionata.
Audace e libera.
E ne voleva ancora. Voleva lei, quell'estasi, loro due insieme.
I movimenti di Avery rallentarono. Lei emise un lungo sospiro tremulo. Era incapace di ragionare, sopraffatta dall'ondata di endorfine.
Inspirò a fondo, premendo la fronte contro quella di Carson. Aveva tutto il corpo percorso da fremiti. Non voleva recuperare la lucidità, non ancora. Voleva continuare ad assaporare quella sensazione di beatitudine provocata dall'ennesimo orgasmo sconvolgente.
Carson aveva veramente delle dita magiche. Avrebbe dovuto brevettare un vibratore modellato su di loro.
Fece una risatina per quel pensiero assurdo.
Lui mosse il pollice sul clitoride e Avery rabbrividì, irrigidendosi, invasa da una fitta di piacere. Non sapeva se chiedergli di smettere o pregarlo di continuare. Era possibile fare entrambe le cose?
La massaggiò lentamente e gli stimoli sul clitoride s'irradiarono alla vagina in una serie di spasmi. Chiuse gli occhi, imbarazzata ed estasiata.
«Sei bellissima così» disse Carson con voce roca, con il respiro affannoso. «Vorrei prenderti qui» aggiunse infilandole due dita dentro. Avery lo serrò dentro di sé, aggrappandosi a quella sensazione di pienezza. «Adesso, subito.»
Lei annuì, sentendo un altro orgasmo già vicinissimo. Era tutta accaldata e la brezza non riusciva a rinfrescarla. «Sì» esalò. Gliel'avrebbe permesso. Si sarebbe fatta possedere lì all'aperto, dove chiunque avrebbe potuto guardarli.
Quel pensiero le provocò un formicolio alla nuca e s'insinuò nella sua mente. Poteva esserci qualcuno a osservarli in quel momento. Avrebbe dovuto respingerlo, essere scandalizzata.
Invece non lo era.
Era coperta. Nessuno poteva vedere il suo corpo, solo la loro reazione. La libertà sensuale di esibirsi senza rivelare niente era terribilmente eccitante.
Aprì gli occhi e guardò la mano di Carson che si muoveva tra le sue gambe e i suoi fianchi che ondeggiavano istintivamente. L'erotismo dei loro movimenti aumentò il suo desiderio. Era ebbra di passione. Lo spettacolo, combinato con le sensazioni e i suoni inequivocabili, alimentava il lato spregiudicato che aveva liberato solo con lui.
Poteva essere una donna sensuale e continuare a essere rispettata.
«Guarda quanto sei bagnata» le disse Carson, tirando fuori le dita per farle vedere che erano lucide dei suoi umori.
Avery arrossì, sentendo la fragranza intensa della propria eccitazione, che inspirò a fondo. Sentì l'addome contrarsi per il desiderio.
Lui le baciò la mandibola. «Non mi stancherò mai di vederti così.» Tornò a infilarle dentro le dita e Avery rabbrividì, aggrappata al suo collo, trepidante. «Così scatenata. Libera.»
Avery mugolò. La pressione sul clitoride aumentò e lei fu scossa da un altro fremito mentre lui muoveva le dita. Le mancava poco per godere ancora. Tutta la pelle era invasa da formicolii.
«Dio, non mi sembra vero che tu sia mia» ringhiò Carson.
Fu devastata da un orgasmo improvviso, con un grido che fu subito soffocato dalla bocca di lui. Ondate di piacere indescrivibile la travolsero fino a cancellare tutto tranne l'estasi.
Avery gli si accasciò contro, appoggiando la testa sulla sua spalla, ansante. Mentre cercava di tornare in sé, si accorse vagamente che Carson aveva sfilato le dita dalla sua carne e l'abbracciava. Le massaggiò la schiena e Avery assorbì il calore della sua presenza.
La felicità si librava sulle ali delle possibilità. Si rifiutava di dare un significato eccessivo all'affermazione di Carson, ma poteva concedersi una speranza. Non c'era niente di male. Era solo un embrione che era cresciuto dopo la sera prima, ma sarebbe riuscita a tenerlo sotto controllo, in modo che Carson non la respingesse.
È solo sesso.
Le parole di Carson le riecheggiarono nella mente, offuscando la sua beatitudine. Il mondo si riaffacciò nella sua coscienza con il rombo di una motocicletta. Era solo un momento. Un momento stupendo, sconvolgente.
E lei avrebbe potuto averne altri, accumularli in una serie di momenti che un giorno avrebbero fatto parte del suo passato. Era così che andava la vita.
Gli massaggiò il busto ed emise un mugolio appagato. «Grazie» bisbigliò con una risatina. «Te lo sto dicendo spesso.» Non era mai stata con un uomo che dava tanto senza chiedere niente in cambio. Fece scorrere la mano verso il basso e gli accarezzò l'erezione.
Carson abbozzò una risata, poi le afferrò un fianco e mosse il bacino verso l'alto, strofinandosi contro di lei, ma le fermò la mano per impedirle di accarezzarlo ancora. «Attenta, che se continui vengo» l'avvertì con voce tesa.
«E sarebbe un problema?» Avery gli strinse il pene per provocarlo.
Carson emise un ringhio cupo, carico di frustrazione ma anche divertito. «Sì, enorme.» Le fece sollevare la testa per baciarla, poi la guardò con occhi torbidi. «Perché se vengo adesso, poi non posso sbatterti come voglio.» Le sue iridi s'incupirono. Smise di sorridere. «Forte, profondamente, fino a farti chiedere pietà.»
L'intensità del suo sguardo e le sue parole le provocarono un tuffo al cuore. C'era forse qualcosa di più tra loro? Aveva detto sul serio quando aveva dichiarato che era sua? No. Non doveva pensarci, ma solo vivere il momento per quello che era.
Un sorriso le incurvò le labbra mentre lo guardava stupita. «Se la metti così...» Si mise in piedi e gli prese la mano per farlo alzare. Mantienila divertente, leggera. Poteva farlo. Mosse le sopracciglia con fare allusivo, poi sollevò l'orlo della maglietta e agitò i fianchi.
«Sei una svergognata» scherzò lui stringendola per farle il solletico.
La risata allegra di Avery risuonò sul tetto. Non era solo sesso, non l'avrebbe ridotto a quella dimensione. Ma non avrebbe neppure sprecato altre energie per cercare di definire esattamente che cosa fosse.
Avery si divincolò dalla sua stretta e sgusciò via sorridendo. Il vento le scompigliò i capelli, coprendole il viso, e lei li scostò, noncurante del proprio aspetto o di quello che altri potessero vedere.
Era felice. Lì. Con lui.
«Ed è tutta colpa tua» lo stuzzicò dirigendosi verso le scale.
«Mia?» Carson prese le tazze di caffè e il cellulare di Avery che aveva dimenticato sul tavolo, e la guardò malizioso. «Davvero?»
«Sì, assolutamente» annuì lei.
Lui la raggiunse con due lunghi passi ma Avery indietreggiò ridendo.
«E perché?» le chiese Carson mentre lei arrivava alla porta.
Avery si fermò sulla soglia e tornò seria, rivelandogli la verità. «Perché avevo paura di essere così prima del tuo arrivo.» Ecco, l'aveva detto. Con semplicità e audacia, e non se ne pentiva. Se non altro, Carson meritava di saperlo.
«Ah, sì?» Si fermò davanti a lei, improvvisamente serio anche lui. La scrutò poi sollevò un angolo della bocca.
Il cuore di Avery accelerò i battiti senza alcun motivo apparente, ma non distolse lo sguardo né cercò di sfuggirgli. Fece un unico cenno d'assenso. Non si pentiva delle sue parole nonostante l'avessero esposta più di quanto volesse fargli vedere.
Lui scosse la testa, confuso. «Non so perché. Sei una donna bella, intelligente, stupefacente.» Avery ebbe un tuffo al cuore. «E non ho alcun merito per questo.»
Avery deglutì. Non sapeva cosa dire. Avrebbe potuto portare il discorso in tante direzioni diverse, tutte pericolose come un terreno minato. «Forse.» Gli strizzò l'occhio con un sorrisetto furbo. «Però vorrei comunque ringraziarti.»
«Per cosa?»
Lei si alzò in punta di piedi e avvicinò le labbra alle sue. «Per avermi fatto venire così forte.»
Carson inspirò e lei avvertì tutto il potere della sua femminilità. Si girò, gli lanciò un'ultima occhiata da sopra la spalla poi scese le scale di corsa, sentendosi disinibita, anche se forse lo era molto meno di tanti.
Fu inseguita dalla risata di Carson e sorrise. Era bello quello che c'era tra loro. E aveva intenzione di goderne fino in fondo, finché fosse durato.