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La suoneria del cellulare fece riscuotere Carson dal suo stato inebetito. Appena vide il nome di Avery sullo schermo raddrizzò la schiena di scatto, con il cuore che aveva subito accelerato i battiti.

Rispose alla chiamata dubitando che fosse veramente lei. «Avery?» Sentiva le pulsazioni affrettate che gli percuotevano cupe le orecchie mentre la sua attenzione si concentrava esclusivamente sul silenzio che sentiva dall'altra parte. L'aveva chiamato per sbaglio? Era uno scherzo? O gli avrebbe detto qualcosa? E che cosa?

Dopo qualche lungo istante sentì: «Carson».

Era lei. Il sollievo lo invase come l'alta marea, ma fu seguito immediatamente dal dubbio. Gli avrebbe permesso di spiegarsi?

«Avery» ripeté, chiudendo gli occhi mentre appoggiava la nuca al poggiatesta dell'auto. Era seduto in macchina davanti a casa di Avery da ore in attesa del suo ritorno. Strinse il cellulare per l'ansia spasmodica di stabilire un contatto con lei. «Stai bene?»

Lei fece una risatina sommessa e sarcastica. «E me lo chiedi proprio tu?»

Quella frecciata lo colpì al cuore. Fece una smorfia, maledicendosi. «Mi dispiace.» Tantissimo. «Posso spiegarti?»

Il silenzio si protrasse sulla linea ma Carson si morse la lingua per reprimere l'impulso a parlare. Avery aveva tutto il diritto di negarglielo e lui non l'avrebbe costretta ad ascoltare le sue giustificazioni. Aveva perso quel diritto.

Un lungo sospiro gli accarezzò l'orecchio. «Devo chiederti due cose.»

«Dimmi.» la voce gli si spezzò su quell'unica parola.

«Per prima cosa voglio l'accesso all'app» dichiarò Avery con voce più salda che poté. Carson la immaginò mentre raddrizzava la schiena e i suoi occhi espressivi s'incupivano. «So che tutti i membri del gruppo ce l'hanno e voglio vedere il contenuto.»

In Carson divampò uno strano moto di orgoglio nel sentirle sfoderare il coraggio che aveva tanto ammirato sin dall'inizio. Sotto la superficie timida, Avery aveva una determinazione e ora vi stava attingendo... per opporsi a lui.

«Certo. Stasera ti mando i dati di accesso.» Dati i recenti sviluppi, forse Trevor sarebbe stato infastidito, ma Carson non poteva rifiutarsi di accontentare la sua richiesta.

«Grazie.»

La sua risposta fu tanto succinta e formale da provocargli una stretta al cuore. «Mi dispiace veramente tanto» si scusò con sincerità, affranto. «Devi credermi.»

«Devo davvero?» lo sfidò lei.

Carson avvertì un moto di nausea per il disgusto delle proprie azioni, ma se l'era voluta. «No» ammise. Avery non doveva credergli per forza. «Però lo spero. Non te l'ho tenuto nascosto per ferirti di proposito.»

«Allora perché?» Il suo tono incolore gli fece capire quanto fosse grave la situazione. Si era preparato a dover affrontare un fiume di lacrime o una scenata, ma la freddezza distaccata di Avery significava che aveva chiuso a doppia mandata le emozioni oppure le aveva già superate, e lui non aveva appigli per reagire o controbattere.

«Non lo so» sbottò, frustrato. Strizzò gli occhi e fece una smorfia. Non aveva il diritto di arrabbiarsi, tranne che con se stesso. «Scusa.» Sospirò. Le doveva una spiegazione, anche se forse era poco convincente. «All'inizio non credevo che volessi sapere dell'app e non ero sicuro che volessi tornare. Non facciamo accedere all'app chi partecipa solo una volta.»

Ci fu una breve pausa, poi lei chiese: «E dopo la prima volta? Perché non me l'hai detto allora?».

Già, perché? Poteva dirle la verità fino in fondo? «Temevo proprio questa tua reazione.» Ecco, l'aveva detto.

Carson la sentì inspirare rumorosamente ed ebbe la conferma che aveva colpito nel segno. Si passò la mano libera sulla fronte. Voleva disperatamente risolvere il problema. L'ultima cosa che desiderava era farla soffrire ancora di più.

«Eri... e sei ancora preoccupata di quello che gli altri pensano di te» disse in tono sommesso. Forse era solo stanco perché era stato in pena per lei tutto il giorno, oppure era scoraggiato, ma la verità si riversò fuori dalla sua bocca, inarrestabile. «E non volevo che smettessi di partecipare agli incontri. Avevo paura che ti saresti ritirata, e non volevo. A...» Amo guardarti. Sentirti. No, non aveva alcun diritto di dire quella parola. «Era bello guardarti» disse invece. «E volevo continuare a osservarti mentre lasciavi sbocciare la tua passione e ne prendevi il controllo.»

«Quindi era solo per il sesso.»

«No» insistette Carson, poi si corresse. «Forse all'inizio, ma neanche allora. Non proprio.»

«Allora che cos'era?»

La sua tenace insistenza gli strappò una risatina. «Era per te. Eri piena di sorprese. Forte, vivace, tenera, sensibile, trasgressiva, sensuale, bellissima. Non riuscivo a toglierti dalla testa e non volevo dividerti con altri. Non sopportavo l'idea che potessi giocare senza di me.» E con quell'ammissione si stava dimostrando troppo possessivo.

«Non mi possiedi» bisbigliò lei.

«Lo so.»

Ci fu un altro breve silenzio, poi Avery ammise: «Non l'avrei fatto». Fece una risata strozzata che lo mortificò. «Sarebbe stato tanto difficile dirmelo? Non volevo giocare senza di te.» Carson si aggrappò a quella confessione. «Ma tu hai pensato che fosse meglio mentirmi invece di fidarti di me.»

Era vero? No, non esattamente. «E tu avresti continuato a partecipare al Meeting Room se avessi saputo di Gregory e Trevor?»

Avery non replicò; la mancanza di una risposta era eloquente. No, non l'avrebbe fatto. Però lui non avrebbe comunque dovuto decidere al suo posto. Chiuse gli occhi mentre il silenzio si protraeva. Ora il cuore aveva ripreso a battere regolarmente e le sue emozioni sembravano raggelate, in uno stato di sospensione. Era privo di rimorsi, ma non poteva riscrivere la storia.

«Devi andartene» disse infine Avery a bassa voce.

Carson raddrizzò la schiena. «Come?» Trattenne il fiato, chiedendosi se fossero giunti alla fine.

«Voglio tornare a casa e non sono ancora pronta a vederti.»

Carson aveva la mente in subbuglio, respingendo e accettando contemporaneamente la realtà. Avery non voleva vederlo. «Posso chiamarti?»

«No.» Nessuna esitazione. Nessuna indecisione. «Ho bisogno di spazio.»

Carson lasciò ricadere la testa in avanti, sopraffatto dal dolore. Era finita. Il senso di perdita, il rimpianto e i rimorsi si accatastavano sul suo cuore sopra il peso dei sensi di colpa che lo soffocavano. «Te la caverai?»

Avery fece una risata carica di amarezza. «Come sempre.»

Non era una vera risposta, non quella che lui cercava. «Anch'io me la sono cavata per anni» disse, con il cuore in mano. «Ma non stavo veramente bene finché non sei arrivata tu.»

«Carson, ti prego» replicò lei implorante, con un filo di voce.

Ti prego cosa? Voleva che la lasciasse in pace? O che le dicesse qualcosa di più? «Mi chiamerai quando ti sentirai pronta?»

Più lei non rispondeva e più lui sentiva il cuore gonfio per la rassegnazione. Allora era finita davvero. Ed era solo colpa sua.

«Ok, capisco» disse infine.

Le barriere risalirono a una a una intorno alle emozioni che aveva lasciato libere di esprimersi. Era per quello che manteneva sempre le distanze. Per evitare ogni coinvolgimento sentimentale. L'amore non durava e si soffriva troppo quando finiva. Da tanto tempo non si concedeva più d'innamorarsi, e quello che era successo ora con Avery gli dimostrava che aveva fatto bene.

«Mi ero fidata di te» disse Avery in tono tanto sommesso da non essere quasi udibile. Invece lui sentì bene le sue parole, e anche il dolore che lasciavano trasparire.

Era stato lui a causarlo.

«Lo so.» Avery gli aveva fatto quel dono tante volte e lui ne aveva abusato. O non vi aveva creduto abbastanza? Non si era fidato a sua volta? «Mi dispiace di avere tradito la tua fiducia.»

«Mi hai delusa.» L'affermazione non aveva un tono di accusa, e questo gli dispiacque ancora di più, anche perché era innegabile. «E ora devi essere tu a fidarti di me. Me lo devi.»

E, con quello, le barriere intorno al cuore caddero di nuovo sotto il peso della verità delle parole di Avery. Sì, glielo doveva, e le doveva anche molto di più. «Hai ragione.» Anche su questo. «E mi fido di te, ma non perché te lo devo.» No, credeva nella sua bontà d'animo e nei suoi principi morali che adorava e detestava. I suoi sentimenti gli vibravano nel cuore, mettendo da parte il suo passato per mostrargli quello che mancava nel suo presente.

«Ci sentiamo quando sarò pronta.»

Aveva detto quando, non se.

E Carson fu nuovamente invaso dal sollievo, che però si scontrò con la delusione al fondo dello stomaco. Avery poteva comunque lasciarlo e lui non avrebbe potuto biasimarla. Tuttavia sperava proprio che non lo facesse.

«Ok.» Doveva lasciarle spazio. «Aspetterò a debita distanza.» Anche se sarebbe stata una tortura. Avrebbe trovato il modo di starle lontano anche al lavoro. Ehi, ma, a proposito... «Hai intenzione di tornare in ufficio?»

Una breve pausa, poi Avery rispose: «Non lo so».

Maledizione. Gregory l'avrebbe massacrato, e giustamente. Si strinse la radice del naso tra due dita, cercando disperatamente delle possibili soluzioni che però non trovava. «La loro opinione nei tuoi confronti non è cambiata. Non ti giudicano male, nessuno lo farà mai nel Meeting Room» insistette, dispiaciuto perché non riusciva a convincerla a cambiare prospettiva.

«E al di fuori degli incontri?»

«Neanche lì.» Poteva farglielo capire? «Non c'è niente di male in quello che desideri. Qualcuno vorrebbe farti credere che le tue fantasie siano sbagliate, ma non è così. Per questo Trevor ha creato il gruppo.»

«Trevor? È stato lui a inventare il Meeting Room

Perché l'aveva detto? «Sì» ammise Carson dopo un istante. Ormai gliel'aveva rivelato, ma non era un'informazione da tenere segreta. «Voleva una dimensione protetta per le persone che hanno molto da perdere se i loro gusti sessuali diventano di dominio pubblico. Il gruppo è ristretto, riservato e privo del giudizio moralistico che ha la società riguardo al sesso.»

«Ecco, avrei preferito non sapere questo di Trevor» mugugnò Avery. Poi fece una risata secca. «E ora sono io l'ipocrita!»

«Lo giudichi per questo?» Il silenzio di Avery fu di nuovo una risposta eloquente. «Non farlo. Ti assicuro che lui non giudica te per quello che hai fatto all'interno del Meeting Room

«E fuori?»

«Come ti ho detto, neanche fuori» ribadì Carson, facendo una smorfia, contento che lei non potesse vederlo. «A meno che tu faccia qualcosa per danneggiare l'azienda.»

Avery non rispose subito, e Carson si preoccupò di nuovo. C'erano tante cose che non poteva cambiare, né il suo passato né le priorità di Trevor, e neanche le convinzioni di Avery, evidentemente.

Stava scendendo la sera, e Carson scrutò la strada sperando di scorgerla nei paraggi. Vide una coppia che percorreva il marciapiede a passo svelto e una signora anziana che si tirava dietro il carrello della spesa pieno. Ma non c'era traccia di Avery.

«Ora vado. Ma promettimi una cosa.» Non aveva il diritto di chiederlo, ma lo fece ugualmente.

«Che cosa?»

«Non giudicarti troppo severamente.»

Avery sbuffò dal naso poi fece una risata aspra. «Troppo tardi. Mi sono già processata e condannata.»

«No, non farlo, ti prego.» Carson sentì salire in gola il dolore insieme a un sapore acre di bile per la collera. «Giudica me, condanna me per quello che ho fatto. Sei troppo intelligente per sentirti in colpa per delle azioni che ho compiuto io.»

Un altro sbuffo d'aria dal naso. «Purtroppo l'intelligenza non governa le emozioni.»

«Vero» ammise Carson. Sospirò, pentendosi già di quello che stava per dire. «Ora vado.» Mise in moto la macchina. «E mi terrò lontano. Ma non è finita qui.» Non poteva essere finita tra loro. C'era troppo che li univa.

«Grazie, Carson.» Avery tirò su col naso. Carson pensò che stesse per aggiungere qualcosa ma sentì solo un lungo silenzio. Staccò il cellulare dall'orecchio e, quando guardò lo schermo, vide con una stretta al cuore che Avery aveva chiuso la chiamata.

Era finita.

Posò il cellulare nell'alloggiamento del cruscotto, sentendosi privo di forze e stordito. Non poteva fare altro. Non c'era altro da dire, nulla da cambiare, almeno per il momento.

Tuttavia si rifiutava di accettare l'idea che tra loro fosse finita. Non poteva rassegnarsi.

Proprio ora che riusciva finalmente ad ammettere di amare Avery.