Quando Carl Wilhelm si era candidato per una cattedra di fisica nella prestigiosa Università di Uppsala, nel 1909, alcuni colleghi si erano opposti. Avrebbero preferito un fisico sperimentale, non un teorico come lui.
Alla fine Carl Wilhelm aveva avuto il posto. Forse per la qualità del suo lavoro, forse perché l’altro collega scienziato che aspirava alla cattedra fu scartato per via di alcune sue idee considerate radicali e poco consone a quella storica università. Non lo si seppe mai con certezza.
Per la sua Installationsföreläsning, la lezione inaugurale come cattedratico, Carl Wilhelm aveva scelto un tema singolare per un fisico: “La questione del libero arbitrio da un punto di vista scientifico.”
Nella lezione aveva descritto un problema di fisica matematica in cui è impossibile prevedere il risultato di un movimento.
“L’idea che il corso del mondo non sia altro che la realizzazione in ogni dettaglio di un piano stabilito in anticipo” recitava il testo “ha una semplicità che sembra esercitare una forte attrazione su alcune menti. Altre hanno invece bisogno di credere che c’è qualcosa di nuovo in ciò che accade. Che il corso del mondo ha un suo sviluppo, ma è uno sviluppo creativo che dipende dal loro contributo decisivo.”
E aveva concluso: “Per come la vedo io, la futura evoluzione della scienza non contraddirà questa convinzione.”
Carl Wilhelm salì ancora una volta i gradini del Grand Hotel fino al terzo piano. Stavolta la porta della stanza era aperta.
“Permesso?”
“Entri pure, Carl Wilhelm, stavo finendo di preparare i bagagli.”
Albert stava trafficando con il contenuto di una minuscola valigia appoggiata sul letto.
“Davvero il suo bagaglio è tutto lì?” gli chiese stupito Carl Wilhelm.
“Sì, piccolina, vero? Ho viaggiato tanto in questi anni, che mi sono abituato a portare solo l’essenziale. Mi dia ancora un minuto e sarò pronto.”
“È sicuro di non voler restare ancora qualche giorno a Stoccolma?”
“No, la ringrazio, sento davvero il bisogno di tornare a casa. A proposito, Leó è già partito, mi ha chiesto di salutarla. Ma mi dica, che aria tira all’Accademia?”
Carl Wilhelm spiegò che l’atmosfera era a dir poco caliginosa. Dopo il suicidio della Baronessa von Suttner si era deciso di cancellare per quell’anno ogni attività legata ai premi Nobel, compresa la riunione speciale su “La scienza e la pace nel mondo”. Ma l’ultima novità era che l’ingegner Sohlman si era clamorosamente dimesso dalla direzione della Fondazione che lui stesso aveva creato. Aveva dichiarato di non essere stato all’altezza, di non aver saputo adempiere alle volontà di Alfred Nobel. Forse il premio sarebbe andato avanti, ma ancora non si sapeva chi avrebbe preso il suo posto.
“Oy vey,” sospirò Albert.
“Aspetti, lasci che l’aiuti,” intervenne Carl Wilhelm.
Scesero le scale in silenzio. Uscirono dall’hotel. Tirava un’aria gelida su Södra Blasieholmshamnen.
“Albert, io… lei pensa che abbiamo fatto bene a…”
“A fermare il piano della Baronessa? Non lo so, Carl Wilhelm, proprio non lo so. Lei mi ha chiesto di aiutarla a risolvere un problema, e io ci ho provato. D’altronde,” e Albert alzò le spalle curve, “è l’unica cosa che so fare. Provare a risolvere problemi. A volte ci riesco, a volte no.”
“Ma quell’idea di Alfred Nobel, creare un’arma definitiva per obbligare il mondo alla pace… insomma… lei pensa che potesse funzionare? Che forse sarebbe stato meglio farla davvero, quella riunione?”
“Ah, come possiamo saperlo? E soprattutto, chi siamo noi per poter dare una risposta? Sa che cosa mi disse il nostro comune amico Niels Bohr una volta mentre discutevamo di meccanica quantistica? Io gli avevo detto che certe idee non mi convincevano, perché Dio non gioca a dadi col mondo, e lui mi disse: ‘Albert, smettila di dire a Dio quello che deve fare’!” Poi fece una pausa, come colto da un ripensamento.
“Anzi, sa che cosa le dico, Carl Wilhelm? La colpa è tutta sua. Se lei non avesse insistito tanto per farmi dare il premio Nobel io non sarei venuto qui a Stoccolma, non mi sarei improvvisato investigatore e nessuno avrebbe ostacolato i piani della Baronessa. Un bel po’ di persone in più sarebbero morte, ma magari il mondo si sarebbe salvato, no?”
Rise di gusto alla sua stessa battuta, con quella risata che lo faceva assomigliare a una foca. Poi i due si abbracciarono, affettuosi ma impacciati come due vecchi compagni di scuola.
“Magari tra qualche anno sarò, anzi, saremo, in grado di rispondere alle sue domande. Stia bene, Carl Wilhelm,” concluse Albert.
Mentre lo guardava salire sul taxi con la valigia in una mano, l’astuccio del violino a tracolla, e la pipa stretta nell’altra mano, Carl Wilhelm pensò che quell’uomo, più che la mente che aveva rivoluzionato le idee dell’umanità sull’universo, sembrava un musicista in partenza per il prossimo concerto.
Il taxi scomparve lentamente alla sua vista, diretto verso la stazione centrale ormai tornata alla normalità.
Carl Wilhelm si incamminò verso lo Strandvägen infilando le mani nelle tasche del cappotto. L’enormità di quella vicenda gli faceva ancora girare la testa dopo giorni in cui si era sentito uno spettatore inerme, travolto da eventi molto più grandi di lui. Una particella sospesa. Un fluido anisotropico: un po’ cristallo, un po’ liquido.
Ma soprattutto non riusciva a levarsi dalla mente la battuta di Albert. Ammesso che fosse davvero una battuta. “Carl Wilhelm, la colpa è tutta sua.”
Forse dopo tutto la teoria di Carl Wilhelm sui fluidi era giusta: anche una particella minuscola, in certe condizioni, può dare il proprio contributo affinché le cose vadano in un certo modo.