Nella sua storia della Letteratura artistica, la prima a comparire [1924]* e tuttora insostituibile, Schlosser scrive del periodo che interessa qui: «L’elevata coscienza del proprio valore, negli artisti, e la loro migliorata condizione sociale, soprattutto, produrranno d’ora innanzi ... un incremento del materiale biografico». Per l’orbita fiorentina, lo storico segnala: 1550, Vite di G. Vasari; 1552, Memoriale di B. Bandinelli; 1553, Vita di Michelagnolo Buonarroti di A. Condivi; 1554-56, Diario del Pontormo; 1558-67, Vita di B. Cellini; 1565 o ’66, autobiografia di Raffaello da Montelupo; 1565-70 c. (?), autobiografia in versi di V. Danti; 1568, edizione definitiva delle Vite vasariane; 1579-84, Diario di A. Allori; 1584, Il Riposo di R. Borghini.
È evidente la concentrazione nel periodo 1550-1565, in cui anche Cellini si fa memorialista; e potremmo pensare a una moda o a qualcosa del genere, se in realtà l’elenco non fosse troppo eterogeneo per avere senso statistico. Esso significa soltanto che il prezzo della carta, divenuto più accessibile, nella seconda metà del ’500 ha agevolato la compilazione, quindi la sopravvivenza, d’un numero maggiore di certi testi; e che il diffondersi della tipografia ha permesso ad alcuni fra quei testi di venire stampati: precisamente a quelli, non tutti, che erano stati scritti in vista della pubblicazione. Invece i diari — o "ricordi" o "ricordanze", così si chiamavano — tenuti da vari artisti e artigiani, senza pretese letterarie né teoretiche (ciò che non esclude la presenza di valori sia letterari sia teoretici), per una oculata conduzione della loro bottega (difatti Schlosser ne trascura parecchi, perché estranei al tema da lui svolto) rimasero inediti fino ai nostri giorni — è il caso di Pontormo, Montelupo e Allori —, quando non andarono perduti, come avvenne anche dei versi di V. Danti, evidentemente destinati alla stampa. E rimasero ignote per secoli le memorie di Bandinelli e Cellini, sepolte dai loro stessi autori pur dopo averle composte con una «coscienza del proprio valore» addirittura narcisistica.
Dunque la crescita di grado sociale e di consapevolezza, benché storicamente provata e indispensabile premessa alla fioritura biografica del sec. XVI, se in parte può chiarire la genesi della Vita di Cellini, sicuramente non ne spiega l’interruzione e tantomeno il seppellimento. Per rendercene conto dovremo seguire Benvenuto nella sua attività plastica.
Più che una valutazione sul metro odierno delle qualità di Cellini orafo e scultore, ai fini del presente studio importa il gradimento da parte dei committenti nei trentacinque anni in cui le sue opere superstiti vennero eseguite. Committenti, bisogna ricordare, appartenuti a una gamma sociale molto ristretta e solitamente di gusti aggiornati, oltre che così consapevole delle proprie esigenze da demandare ben poche scelte tematiche, allegoriche, perfino stilistiche agli artisti di cui si serviva. L’arte era un bene materiale, come oggi la fuoriserie o l’appartamento, che piacciono se sono fatti in un certo modo e non in un altro.
Iniziamo dalla prima opera valutabile direttamente: il sigillo del 1528 per il cardinale mantovano Ercole Gonzaga, che deve esserne rimasto soddisfatto. Mentre continua a ripeterci la sua totale devozione al «divinissimo» Michelangelo [I 13, ecc.], Benvenuto impronta la vorticosa, drammatica spazialità di questa operetta al michelangiolismo frainteso in senso anti-classico dagli ex aiuti di Raffaello, che aveva frequentato a Roma. Principale esponente di tale indirizzo era Giulio Romano, l’amico che Cellini visita a Mantova, dove trionfava dal 1524 orientando i gusti della corte e, con ogni verosimiglianza, anche del cardinale.
Identici stilemi, semmai con una monumentalità più dilatata, e le prime prove di acume ritrattistico si colgono nelle monete di Clemente VII (1529-31). Ma dopo una lunga assenza, nel 1534 Michelangelo ritorna a Roma, chiamato dal papa per dipingere il Giudizio universale della Sistina. Ed ecco che, eseguendo la medaglia dello stesso pontefice (1534), l’orafo si collega in presa diretta al celebrato maestro, con speciali predilezioni per i suoi residui classici.
Il michelangiolismo di stretta osservanza non dura molto. Risalito a Firenze, Cellini lo complica, nelle monete di Alessandro de’ Medici (1535), con le linee diramate e incessantemente riannodate dall’irrequieto Pontormo, il quale durante quel giro di anni va per la maggiore nell’ambiente fiorentino. Possiamo perciò credere all’autore: «Sua Eccellenzia» rimase «molto contenta» dei nuovi conii [I 80]. Poi a Ferrara, nel sigillo del cardinale d’Este (1540), la carica anti-classica si esaspera, sempre in omaggio al Manierismo del Pontormo, ormai impostosi anche fuori di Toscana; e nascono addensamenti inestricabili, luci stralunate, atmosfere oniriche — anzi negromantiche, come suggerisce una pagina della Vita [I 64] — che addirittura solleticano la «boria» del committente [II 1].
A Parigi la tensione viene meno nella celebre Saliera di re Francesco I (1540-43 c.), unica oreficeria oggi nota dell’orafo per antonomasia. Qui le allegorie del Giorno, Crepuscolo e Notte, poste a ornamento dello zoccolo, sono esplicite citazioni buonarrotiane delle Tombe medicee in San Lorenzo. Eppure, sia esse sia le due figure maggiori conservano poco o nulla né del classicismo fiorentino né dell’ipersensibilità che gli era subentrata. Sono elementi d’uno stile diverso, ormai sul punto di farsi europeo, che era stato trapiantato alla corte di Francia e, in contatto della cultura locale ma soprattutto di quella fiammingo-tedesca, profondamente rielaborato dal Rosso Fiorentino e dal suo successore Primaticcio.
Cellini li conosce entrambi: fino alla diaspora provocata dal Sacco del 1527 Rosso era stato attivo a Roma, dove il nuovo stile aveva cominciato a manifestarsi intorno a Michelangelo e a Raffaello; Primaticcio veniva da un tirocinio a Mantova presso Giulio Romano, che di quello stile fu il responsabile maggiore. Così, non deve attardarsi molto davanti ai loro nudi sensuosi, allungati e intrecciati fra grottesche e cartigli nella rievocazione di miti oscuri e di allegorie quasi indecifrabili, per comprendere che echeggiano motivi dell’Antichità e del Rinascimento, ma per estenuarli in raffinatezze nelle quali l’eleganza fa aggio sull’espressione dei sentimenti; anzi non vuole esprimerne affatto, come si vedrà. Con la Ninfa di Fontainebleau, lunettone di bronzo (Parigi, Louvre) impostato e fuso nel 1542, l’orafo ormai scultore sa mostrarsi più chic e meno espressivo del Primaticcio. A riprova del successo, dal sovrano francese gli fioccano compensi e incarichi molto consistenti.
Rimpatriato nel 1545, Cellini trova che anche a Firenze le irrequietudini esistenziali dei primi manieristi sono passate di moda. Senza mezzi termini Vasari ricorda che i disegni approntati dal Pontormo (1545-46) per la stupenda serie di arazzi ducali con le Storie di Giuseppe scontentavano sia gli arazzieri sia il nuovo duca, Cosimo I de’ Medici.
La situazione non era differente che in Francia. Là un monarca assoluto vuole propagandare la propria potenza con ambizioni imperiali (cioè europee) per riscattarla dalle sconfitte subite nella lotta con Carlo V. Al di qua delle Alpi un’aristocrazia in crisi radicalizza la difesa dei suoi privilegi contro l’inflazione causata dalle guerre franco-absburgiche e dall’argento americano; e adotta una politica di rivalutazione delle proprietà fondiarie e dei beni immobili, basata sul convincimento che — in nome del diritto ereditario per elezione divina e del "contegno", anche religioso, derivante dalle "qualità del sangue" — ai nobili soltanto spettano i gradini superiori dei rigidi ordinamenti laico ed ecclesiastico. Cosicché, superati gli impulsi "semplicemente" umani della generazione anteriore, gli artisti di corte ragionano in termini di Nobiltà, Idea, Gerarchia, Dignità, Censo, Decoro. In Firenze sono Bronzino, Bandinelli, poi lo stesso Vasari e qualche altro a riflettere la volontà autocratica di Cosimo I, fissando le immagini stabilite dal galateo in una stasi di sofisticata aulicità, mentalistica incorruttibile esclusiva.
Il reduce Cellini mette al corrente Cosimo I dei suoi successi francesi, gli mostra disegni, attestati; e il duca, magari dopo aver assunto informazioni a parte, lo giudica idoneo per due bronzi importanti, il proprio busto e il Perseo.
La tesi, autorevolmente sostenuta, che il primo venne fuso in due tempi — la testa nel 1545 c., il torso un decennio dopo — basterebbe a suggerire che l’onnipotente Cosimo restò tanto insoddisfatto da ostacolare il corso del lavoro. Invece risulta terminato e abbondantemente dorato fin dal 1546 (cfr. Cronologia). Tuttavia, che fossero sorte difficoltà col modello-padrone si ricava dalla lettera che Cellini gli scrive il 20 maggio ’48: poiché, in accordo «coll’alta maniera degli antichi», l’opera è «piena di ... adornamenti e reca impresso «l’ardito moto del vivo», «a un così saldo iudizio, come quello di Vostra Eccellenzia, io pensavo di averla in tutto iustificata di quello che io valevo»; ma evidentemente le cose stavano altrimenti. Per di più, nel 1557 il busto viene trasferito sull’ingresso di forte Falcone a Portoferraio. In sé la destinazione non costituisce indizio di esilio: il centro elbano era una piazzaforte di prim’ordine, e il duca, confermato proprio quell’anno nel suo possesso, l’aveva ribattezzato Cosmopolis. Insomma poteva trattarsi d’un sacrificio per promuovere il nuovo dominio anche dal lato estetico, secondo la prassi del tempo. Però a Firenze il posto d’onore in palazzo Pitti, divenuto residenza ducale, sarà preso dal Cosimo I in bronzo di Bandinelli, significativamente eseguito verso il ’57.
Confrontiamo le due figure. Quella di Bandinelli si incapsula entro una compassatezza cerebralmente gelida, e così polita che la luce le scivola addosso, isolandola dallo spazio circostante. Ritratto non di una persona, ma del suo grado, coi crismi di una inaccessibilità addirittura extra-umana: opera degna del Bronzino più aulico, se si fosse occupato di scultura [Micheletti 1980]. Al suo duca, Cellini conferisce davvero il «moto del vivo», sorprendendolo in un’azione che scompiglia i capelli, rende «sgradevoli» — sostiene qualche esegeta — i lineamenti (o piuttosto li scioglie in vigile naturalezza), sottrae il torace ai rigori della simmetria; e zigrina la corazza perché sia sensibile all’atmosfera: cosicché fra le crepe aperte nel "contegno" si scorge l’uomo — un uomo propenso a comunicare con l’ambiente. Troppe deroghe alla «maniera» di corte; ed è improbabile che l’effigiato le tollerasse. La generosa doratura della lorica («300 pezzi d’oro» enumera il conto relativo), lo smalto bianco negli occhi, l’azzurro sulla base e forse sul manto, stesi dopo il getto, possono aver sepolto questo impulso di terrena disponibilità sotto «adornamenti» tali da tradurlo in memento ieratico e perentorio: un impressionante arredo per fortezza (l’aggressività psicologica dell’architettura militare rientrava pure nella buona regola).
Presso quasi tutta la critica odierna il celebre Perseo sotto la loggia dei Lanzi, in piazza della Signoria, sembra cristallizzato nei rimproveri mossi — dopo secoli di elogi, compresi quelli di Vasari — da A. Venturi [1936]: «L’orafo credette di poter passare dalle minuterie alle statue troppo grandi per lui, eccedenti la visuale ch’egli s’era fatta, fuori del mondo delle sue particolari ricerche e delle sue abitudini». Conta poco che la rimasticata condanna rimastichi a sua volta il parere formulato trentacinque anni prima da un altro critico, I. B. Supino [1901]; ma che questo fosse dei più distanti dalla sensibilità attuale riveste qualche importanza.
Con riserva di tornare sul giudizio di Venturi e seguaci, proseguiamo notando che fra la commissione e l’inaugurazione del Perseo corrono nove anni, 1545-54, neppure molti per un lavoro del genere, durante i quali il complesso non crebbe di concerto, bensì un pezzo la volta. Perciò se uno di essi non avesse ottenuto l’approvazione di Cosimo, l’impresa si sarebbe potuta arenare o dirottare, come insegnano le traversie del busto ducale. Invece proseguì senza gravi intoppi.
Anzitutto, il modelletto in cera dell’elemento maggiore (Firenze, Bargello). Figura asciutta, longilinea, trattenuta in precario equilibrio dal contrappeso delle braccia arretrate; viso reclino, dallo sguardo in tralice al capo di Medusa: la vitalità del Perseo si affida, in questa prima fase, allo scatto puramente interiore, raggiunto con l’accordo tra una realtà fenomenica rara e una sospensione astratta, esaltata dall’assenza della spada. Un accordo difficile, di marca idealizzante, introversa. Cellini lo manifesta per mezzo di moti che stimolano il riguardante a proseguire ogni «veduta» nella successiva, senza arrestarlo in una angolazione privilegiata; e che però non invadono lo spazio all’intorno, poiché dalle curve delle braccia — ossia gli impulsi maggiori della complessa dinamica — sono costretti entro un blocco chiuso a qualsiasi scambio verso l’esterno. Inutile rilevare la sintonia con le aspettative del committente.
Seguì la fusione del corpo di Medusa. Grazie ai rivoli di sangue che sgorgano dal collo come fiamme bene assettate e che mancano nel bozzetto, la figura decapitata acquista un nucleo di attrazione tale che l’occhio dell’osservatore, giù sul selciato della piazza, si svia dall’abbandono cadaverico della gamba ripiegata, del piede e del braccio disarticolati, espresso con una veridicità niente affatto aulica. Visto il complesso del Perseo assemblato nel «giardino» dell’autore fin dal 1552, il vescovo Minerbetti scrisse una lettera entusiastica a Vasari, rilevando l’importanza del fiotto «che impetuosamente esce dal tronco» di Medusa: «scaccia altrui per paura di essere insanguinato».
Poi, le statuette della base, talmente gradite a corte che la duchessa Eleonora avrebbe voluto trattenervele [II 88]. Per il Giove e la Minerva è probabile il ricorso a progetti delle statue-torciere richieste dal re di Francia, eseguite solo in parte e presto distrutte. Ciò stesso garantisce sulla idealizzazione e "inespressività" della loro raffinatezza; che invece nella Danae si vena di un tenero sentimento, sconosciuto alla Ninfa di Fontainebleau, sua non lontana parente. Il Mercurio è un apice nell’attività di Cellini e nell’intera produzione cinquecentesca di piccoli bronzi. Generato dalla «sublime unione di vigore articolato e di placida grazia, di slancio e di stasi», il volteggio della figura rimane sottoposto a una «inflessibile volontà di eleganza ordinatrice» [Camesasca 1955]. Questa viene meno nella base marmorea, i cui vari partiti decorativi — attinti in un repertorio esteso dalla classicità al classicismo, da Michelangelo ai manieristi — anziché partecipare a un discorso plastico coerente [Barbaglia 1981], formano una colossale, frastagliata e cincischiata oreficeria da piazza [Argan 1968]; eco di quelle che nell’immaginazione popolare ornavano le mense dei prìncipi. Anche così doveva andar bene al duca.
Il rilievo sottostante ha per tema la liberazione di Andromeda da parte di Perseo; però i bruschi passaggi dal corposo tuttotondo alle lievi incisioni dello stiacciato, ignorando le regole della prospettiva e della proporzione, lo trasformano in tumulto di ombre e luci spettrali: un tumulto sui generis perché finisce col subordinarsi alla legge delle curve che si cercano, si raccordano, si echeggiano o contrappongono, anche si inceppano a vicenda; e dietro le ritrosie dell’immagine fantasmagorica sono avvertibili i rigori di un bilico intricato e intrigante. Altra soluzione quintessenziata, astratta.
La mattina del 27 aprile 1554 il monumento viene scoperto, e Cosimo I, che già l’aveva visto quasi pronto [II 90], si limita a osservare da una finestra di Palazzo Vecchio quello che l’autore definisce un trionfo [II 102]. Senza dubbio lo era; ma Cosimo non lo condivide ed evidentemente le sue riserve si appuntano sulla statua «grande» del complesso.
Vediamo. Nel momento di ingrandire il bozzetto del Perseo per attuare il modello definitivo, da fondere, Cellini si interroga: portata all’altezza stabilita (m. 3,20), quale sarebbe l’effetto di una struttura umana tanto sottile? L’esempio della Giuditta e Oloferne di Donatello, allora sotto la loggia dei Lanzi, non lascia incertezze, e la sua vicinanza costituirebbe un confronto pericoloso, mentre anche altre statue del vecchio maestro — come il David bronzeo (Firenze, Bargello), per tanti versi affine al Perseo — presentano un modulo molto abbreviato rispetto alla cera celliniana: il modulo necessario a compensare lo svettamento prodotto dal sottinsù.
Occorre un’ulteriore precisazione. Non è che Cellini abbia «l’idea fissa della Giuditta di Donatello» [Pope-Hennessy 1970], alla quale vanno semmai accostati il David, appunto, i pergami di San Lorenzo (echeggiati nel rilievo di Andromeda) e chissà che altro. In realtà, quantunque eseguita per i Medici, la Giuditta aveva assunto un esplicito significato anti-mediceo (cfr. II 53 nota 8); e nelle intenzioni di Cosimo I il Perseo avrebbe dovuto controbilanciarla: quella, diventata emblema di rivolta popolare; questo, come simbolo dell’ordine ducale che annienta il mostro della sovversione, coi moniti connessi. Si spiegano i riferimenti di Benvenuto. D’altra parte nell’ambito della restaurazione aristocratico-confessionale, l’arte del ’400 appariva più «reverente di quella moderna, come avrebbe scritto da lì a poco G. A. Gilio; e si spiega il revival donatellesco nella plastica fiorentina dal 1550 al ’70, e perché il riferimento a Donatello rientrava nell’obbligo di mostrarsi aggiornati.
Da qui, il cuscino su cui giace il cadavere di Medusa (come sotto Oloferne nel gruppo della Giuditta), la nudità integrale e la posa della gamba e la testa china del suo uccisore (come nel David), la scimitarra (non quella del David, ma identica all’arma di Giuditta: un richiamo immediato); soprattutto, per le considerazioni riguardanti il sottinsù, la robusta naturalezza dell’eroe, che sostituisce la scarna, introspettiva nervosità della cera, risolvendosi in una schietta e scandita distensione di muscoli. Forse la scimitarra, perentoria direttrice orizzontale inserita verso metà del corpo, mira a ricuperare — per contrasto — parte della verticalità perduta; e si giustificherebbe la sua ingombrante presenza in ogni «veduta». Però è un intervento subito compromesso: l’elmo-autoritratto, i capelli che ne escono, i calzari alati, le serpi e il sangue della testa mozzata, dove qualunque ricciolo o squame, profilo o voluta sono prodigi di cesello, sottolineano per contrasto l’agiato tornirsi delle membra.
Dunque, un’allegoria realizzata attraverso forme direttamente riscontrabili nel quotidiano. Non si afferma nulla di nuovo. La «maraviglia» del vescovo Minerbetti [1552], ricordato poco sopra, è compendiata nel seguente brano della sua lettera: «ancorché di metallo sia, par niente di meno ... da dovero». A F. Bocchi [1581] le «fattezze» del Perseo «appariscono veraci, e non di bronzo»; secoli dopo fanno esclamare H. Taine [1866]: «sono così ben colte dal reale!». Intanto Burckhardt [1855] aveva riconosciuto il loro autore «come un naturalista ritardatario del ’400, come il seguace ideale di Donatello». Vuol essere un elogio, mentre si tratta di una patente negativa, da aggravare perché nel Perseo il naturalismo donatelliano non è che un innesto sul classicismo di Michelangelo.
E lui, l’arbitro assoluto, il duca Cosimo? Con le preferenze per Bandinelli e Bronzino punta — si è visto — sul disimpegno dalla misura umanistica e umana dei "divini", recenti più ancora che passati, e su un ideale d’arte risolto come etichetta di casta, che sigilli eventuali impulsi sotto la lorica del "contegno". Al contrario, nella statua di Perseo, che tanto prometteva in fase di progetto e che era stata preceduta da suasive conferme — corpo di Medusa, figurette della base, rilievo di Andromeda —, niente è distillato fuori dagli alambicchi tradizionali, e niente rimane "contenuto", poiché la sua tensione — proiettata alla conquista dello spazio circostante, col quale non avrebbe dovuto comunicare (così come non comunicava il bozzetto) — è continuamente obbligata a dichiararsi, e a scaricarsi: per di più, attraverso la sola «veduta» frontale, essendo le altre svuotate di prestanza plastica e mentre anche il viso dell’eroe, sollevato e girato in avanti, concorre al degrado formale.
Per Cosimo I un giudizio come quello del vecchio Venturi andava capovolto. Lo suggerisce una "supplica" che gli inoltra l’inguaiato Cellini il 17 settembre 1557: «quando ... vide il modellino del Perseo ... Vostra Eccellenzia illustrissima disse: "Se e’ ti dà ’l cuore di condurmi grande questa opera a corrispondenza di questo bel modello, chiedimi tutto quello che tu vuoi"». Non gli diamo torto. Rimanendo fedele alla sua visione di orafo, o meglio, all’intuizione risolta (apparentemente) d’acchito, senza arzigogoli sui modelli magni (in altre parole: producendo novità, condizione prima per fare arte), forse Benvenuto si sarebbe meritato il trionfo anche agli occhi del duca, e il Perseo avrebbe potuto determinare il carattere di un’epoca. Invece i rapporti dello scultore con la corte presero repentinamente una china senza ritorno; ciò che riguarda da presso il nostro tema.
Nel Trattato dell’oreficeria [XII] Cellini scrive che, inaugurato il Perseo, chiese al duca la licenza di una settimana per recarsi in pellegrinaggio, e «sua Eccellenza illustrissima benignamente fu contenta che io andassi». Di ritorno a Firenze, «dua giorni dopo io viddi turbato il mio Signore». Turbamento voleva dire indisponibilità a commissionargli l’una o l’altra delle opere importanti che aveva lasciato sperare.
In nessuno dei suoi numerosi scritti Cellini mostra di capire le ragioni di quella ostilità. L’attribuisce agli sbalzi umorali del «Signore», o alle pressioni esercitate su lui dalla duchessa, da Bandinelli, Vasari, Ammannati, da qualche cortigiano malevolo, o tutti insieme, per meschinità d’ogni tipo; e ha pronte le "pezze" più svariate. Oppure, in un sonetto del 1560 c., ripiega sugli astri: Cosimo I è un «Capricornio»; lui, il bistrattato, un Cancro («Granchio ardito») — segni opposti, dunque, e inconciliabili fra loro.
Ma sul Perseo non ha dubbi. Nella "supplica" citata qui sopra, l’artista rammenta che, sentendo il duca lodare il bozzetto, l’aveva rassicurato di saperlo realizzare «meglio», e «così si vede che ... ha fatto». Anche in un "ricordo" dichiara che l’opera fu «iscoperta ... in piaza ... con gran contento del principe».
Nemmeno gli storici hanno rilevato la concomitanza fra la scoperta del Perseo e l’improvviso crollo del prestigio di Cellini. Unico, da ultimo, se ne rende conto D. Trento [1984], e riferisce la disgrazia di Benvenuto alle sue lungaggini, alle ombre sull’impiego dei metalli ricevuti per la fusione (Cronologia, 1546 sgg.), all’«eccessiva autonomia» dell’artista, che si sentiva scultore e che invece il duca avrebbe voluto impegnare maggiormente come orafo [II 64, ecc.], infine alle intemperanze dell’uomo (protervia, rissosità, sodomia).
A quel tempo un’opera di mole era inammissibile senza il precedente di una commissione specifica. Solo Michelangelo, più che mai «divinissimo», aveva potuto intraprendere autonomamente una statua della taglia della Pietà Rondanini (Milano, Castello Sforzesco), che verso il 1554 entrava nel secondo momento operativo. Magari stuzzicato da tanto esempio, nel 1555 Cellini inizia il Crocefisso marmoreo oggi nel monastero dell’Escorial, destinandolo alla propria tomba, ma forse non escludendo un acquisto della corte medicea.
A prova che il "turbamento" del duca dipendeva dal Perseo e non da altro, nel 1565 il Crocefisso sarà effettivamente comperato per la cappella ducale in palazzo Pitti. È un’opera ambigua, sconcertante, che a Plon [1883] sembra «strana come il fantasma di una allucinazione». Per certo non si rifà né a Michelangelo né a Donatello; e rinchiude quegli impulsi «dell’intelletto e della volontà» in cui gli esteti della Controriforma stavano per identificare «l’interno Disegno», originato non dai «sensi» della «sfera bassa», umana, bensì emanante dalla potenza divina. Ambrosia per un mecenate come Cosimo I.
Ulteriore sintomo dei legami fra insuccesso del Perseo e crisi di Cellini, il duca escluse dalle collezioni medicee sia il bozzetto in cera sia il raffinato modello in bronzo del gruppo (Firenze, Bargello). Per quest’ultimo è stata supposta un’origine posteriore al compimento del Perseo «in piazza»; cosicché verrebbe di interpretarlo come parziale ripristino dei motivi plastici della cera. Ma la logica — sorretta da lievi tracce archiviali — suggerisce che sia una prova per la fusione maggiore, forse eseguita all’insaputa del duca (Cronologia, 1546); il quale difficilmente avrebbe accolto le sue varianti rispetto al primo abbozzo.
Invece Cosimo — altra testimonianza che la sua avversione era localizzata sul Perseo — ancora nel 1560 si teneva in camera, accanto alle opere più care di Michelangelo, Sansovino e Bandinelli, il Ganimede che Benvenuto gli aveva ricavato da un torso greco-romano, ora anch’esso al Bargello (ibid., 1548 e 1549). Stravolgimenti del genere si chiamavano restauro. Se, in quanto tale, è respinto dalla coscienza odierna, nulla impedisce di considerarlo una «bellissima» esercitazione manieristica sull’antico [A. Conti]; e va ricordato che proprio "restauri" simili svelarono la volontà anti-classica insita negli scultori del pieno ’500 [M. Neusser] e, con ogni probabilità, anche in coloro che glieli commissionavano.
Intanto, però, Cellini vedeva dissolversi le speranze riposte nel concorso per la fontana del Nettuno in piazza della Signoria; né gli lasciavano eccessive illusioni diversi progetti per il Duomo.
È a quel punto, nel 1558, che comincia la dettatura della Vita. Fin dalle prime pagine l’intento si rivela nitido: mostrare quale tempra di uomo e di artista fosse colui che veniva lasciato da parte quando Firenze era tutta un fervore di iniziative artistiche promosse dal Medici in trono. Un uomo che sempre si era battuto per la gloria della casata regnante, predestinato in ciò dalla devozione medicea coltivata in famiglia già prima della sua nascita; a essa un suo fratello aveva sacrificato la vita; mentre lui, Benvenuto, aveva messo a repentaglio la propria sugli spalti di castel Sant’Angelo in difesa d’un papa mediceo e, spinto da una sorta di fatalità, era riuscito inviso a tutti gli anti-medicei che aveva incontrato.
E poi, l’artista. Oltre che di Cosimo I, suppostamente entusiasta del busto e del Perseo, era stato al servizio di due suoi insigni parenti, papa Clemente VII e il duca Alessandro, così soddisfatti da sommergerlo di sempre nuove commissioni. Né erano gli unici. A parte Paolo III, che prima di essergli ostile (lo era anche con Cosimo I) non aveva esitato ad assolverlo dei peccati passati (compreso qualche omicidio) e futuri, in nome dell’abilità di orafo; e a parte i battimani d’una folla di cardinali e di prìncipi, lo stesso imperatore Carlo V — di cui Cosimo era vassallo — e il suo vice in Napoli — che di Cosimo era il potente suocero — gli avevano manifestato la loro ammirazione e il desiderio di averlo a corte. Ma soltanto un altro sovrano, nientemeno che l’antagonista di Carlo V, era riuscito ad appagare quel desiderio: re Francesco I. Dal monarca francese aveva ricevuto non una casetta come questa di Firenze, concessa dal duca e così striminzita che durante la fusione del Perseo stava per bruciare, ma un castello con cortili laboratori sale giardini, perfino il gioco della pallacorda; e tutto il resto — stipendio, commissioni, mezzi per realizzarle — era in proporzione.
Cellini ha la dettatura facile. Entro la primavera ’59 una parte dell’autobiografia è pronta per essere letta ed eventualmente corretta da B. Varchi, forse il maggior letterato presente in Firenze, di sicuro il più introdotto a corte. Già in maggio l’artista scrive all’invocato revisore ringraziandolo del giudizio che ha espresso: un «discorso» così schietto e veridico non richiedeva correzioni. Referto lusinghiero dal lato letterario: è il primo, tempestivo riconoscimento dei meriti della Vita; ma, a livello pratico, celava riserve pilatesche non recepite dall’interessato.
In effetti l’autobiografia celliniana è un dialogo fra Benvenuto e il duca Cosimo I, l’interlocutore da convincere; al quale il primo, nonostante l’accorta regia, mette in bocca più d’una battuta inopportuna, e parecchie ne dice lui stesso o ne fa dire a personaggi di contorno. Fra le doti del memorialista difetta il senso cortigiano; ma una colossale assenza di psicologia spicciola gli impedisce di rendersene conto, illudendolo anzi di averne a usura. Esempio: a una sortita di lui in presenza della corte, «’l Duca e gli altri levorono un rumore delle maggior risa»» [II 71]; il compiaciuto dicitore non si accorge che ridono alle spalle della sua sgangherata ipocrisia.
Infine qualche lettore deve essere stato meno reticente di Varchi, e Cellini corre ai ripari con energiche cancellature, come quella che nasconde la qualifica «più di mercatante che di duca» affibbiata a Cosimo I [II 53]. Ma le distrazioni suscettibili di spiacere in alto loco sono tali e tante che nessuna censura avrebbe reso possibile l’imprimatur. Al proposito si legge un’amara dichiarazione: «io mi messi a scrivere tutta la mia vita ...; e così scrissi tutti gli anni che io avevo servito questo mio glorioso signore duca Cosimo. Ma considerato poi quanto e’ prìncipi grandi hanno per male che un lor servo dolendosi dica la verità delle sue ragioni, io rimediai a questo; e tutti [i paragrafi riguardanti] gli anni che io avevo servito il mio signore duca Cosimo, quegli con gran passione, e non senza lacrime, io gli stracciai e gitta’gli al fuoco, con salda intenzione di non mai più scrivergli» [O., XII].
Nel 1567 interrompe la Vita, quasi troncando l’ultima riga; e passa ad altro. Ma il manoscritto non viene stracciato né tutto né in parte; anzi, può darsi che Benvenuto abbia lasciato aleggiare una sua prossima pubblicazione, come mostra di credere Vasari ancora nel 1568 [Borsellino 1979].
Invece, proprio quest’ultimo anno vengono editi i due Trattati, dell’oreficeria e della scultura. Con essi Cellini intende provare quanto sia estesa e approfondita la sua conoscenza dei procedimenti più disparati: alcuni, dichiara, sono sconosciuti anche a Michelangelo, per sua stessa ammissione. E in queste pagine all’insospettabile insegna del rigore didattico, egli ribadisce, contrabbandandoli da quelle ormai proibite della Vita, i motivi — i "suoi" — che gli impediscono l’esercizio di una professione così magistralmente dominata.
Tale il "dietro" dell’operazione. Che poi in Cellini l’attaccamento al mestiere fosse effettivo e il corredo professionale tutt’altro che supposito, pare indubbio: i due Trattati, quantunque non pionieristici [Grassi 1970], risultano basilari per l’intero periodo rinascimentale; e che la «virtù» del fare — l’attività «di mano» con i suoi «mirabili modi» e «bellissimi segreti» — sia determinante già nella Vita, ha ben compreso G. Pampaloni [1971] fornendo un’indispensabile traccia di lettura.
Il maestro in auge che disegna per l’artigianato rientrava nella prassi dell’artista-artigiano ereditata dal Medioevo. In età manieristica Giulio Romano e Pontormo Bronzino Vasari con molti altri progettano ori argenti bronzi ceramiche pietredure vetri tessuti legni, destinati all’arredamento di lusso. Una passione autentica, la loro, che subentra a quella che nelle generazioni anteriori era stata condiscendenza di fronte a clienti irresistibili (Raffaello che si occupa di camini per Alfonso d’Este) e, prima ancora, normalità forse rassegnata (Cosmè Tura alle prese con finimenti equestri per altri Estensi). Passione che esalta i processi tecnici, impegnandoli in continui raffinamenti di per sé vantaggiosi ai prodotti.
La corte fiorentina è un ambiente favorevole. Da tempo i Medici raccolgono oggetti di ogni genere e paese: armi e mobili nordici, tappeti e ottoni persiani turchi egiziani, porcellane cinesi, avori africani, maschere azteche. Molti ne commissionano. Consci che l’intervento dell’artista accresce i valori emblematici dei minimi dettagli, investendo vasi collane spade di significati precisi, stabiliscono con puntigliosa erudizione l’aspetto di quanto li circonda e che è destinato a essere visto anche da sudditi e rivali. Ciò li interessa alla pratica delle arti cosiddette applicate, e l’interesse assume uno speciale connotato sociologico con l’assiduità di Cosimo I nel guardaroba ducale per osservare gli orafi al lavoro, e col fatto che il duca stesso impugna i ferri per pulire pezzi di scavo [II 87].
Tuttavia dalla seconda metà del ’400 nella cerchia cólta dei Medici si verifica una svolta ermetico-platonica che incrina la concezione "artigianale" del primo Umanesimo, avviando i nuovi ideali all’intellettualismo che doveva istituzionalizzare la gerarchia delle arti "maggiori" e "minori", d’altronde latente nell’ordinamento corporativo. Per di più la restaurazione autocratica svaluta la dignità del lavoro manuale, e il cattolicesimo della Controriforma torna a considerare la materia come cosa inerte, illusoria, addirittura peccaminosa e letale [Bologna 1972].
Ciò prenderà corpo all’alba del sec. XVII. Però fin dal 1546 Varchi indice il noto referendum sul «primato» fra scultura e pittura; e ne salta fuori l’innalzamento del disegno a «principio di tutte le arti». In questo modo la discriminazione compie un gran passo giacché il disegno viene identificato anche come facoltà inventiva e mediatrice, idonea a subordinare gli artigiani, che sempre più spesso producono "sotto" i disegni di artisti.
Cellini rintuzza con una lettera notando che il disegno non esaurisce la questione: «se voi volete fare una colonna, o sì veramente un vaso, qual sono cose molto semplici facendole disegnate in carta con tutta quella misura e grazia, che in disegno si può mostrare; e poi, volendo da quel disegno colle medesime misure fare o la colonna o il vaso di scultura, diviene opera ... non graziata, come mostrava il disegno, anzi par falso e sciocco». Insomma, per quanto sia grande il progettista, la realizzazione di un progetto deve fare i conti con le esigenze pratiche — i limiti imposti dalla materia, la realtà dei mezzi disponibili, magari l’effetto provocato dall’ingrandimento... Come è stato notato [Ciardi Dupré 1980], era ancora la mentalità dell’artigiano che inventa ed esegue: una rivalsa sull’artista ormai quasi "puro".
Dunque la transizione verso la mutria accademia è ormai avanti. Con la premessa alle Vite del 1568, riguardante le tecnologie dell’architettura pittura scultura, ma anche dei «conii d’acciaio per far le medaglie», del «musaico de’ vetri» e «di legname», del «niello» e così via, Vasari è l’ultimo ad accogliere la trattazione sui procedimenti operativi, beneficiandoli di prestigio teorico.
Eppure i coevi Trattati di Cellini sono più prossimi al remoto ricettario di C. Cennini [1390 c.] che non alle celebri Vite del suo rivale. In ciò Benvenuto si rivela estremo assertore d’un certo modo di essere artisti — veramente «eroe tecnologico». Anche questo ha pesato nel suo fallimento finale.
La perizia tecnologica è una delle numerose «virtù» che Cellini ha ricevuto dal Cielo e che formano il motivo conduttore della Vita, perseguito in ogni pagina col noto scopo di mostrare quale sorta di persona si stesse sacrificando a «praticonacci» «bestioni» «ribaldacci e «pazzericci» di tutte le risme.
Sono «virtù» sue la nascita in una famiglia di origini remote e di gente attiva esperta generosa, oltre che devota ai Medici; la corporatura vigorosa e bella, requisito primario per operare con armonia; la predisposizione alla "totalità" rinascimentale: musica disegno meccanica oreficeria scultura poesia antiquariato («celebre sonatore di strumenti di fiato, singolarissimo nell’arte dell’oreficeria, eccellente intagliatore di medaglie, e non ordinario scultore, e gettatore di metalli» lo definirà Baldinucci [1728] abbreviando la lista appena di poco) ed equitazione caccia scherma guerra; la disponibilità a qualunque esperienza, professionale ed esistenziale; la fede in Dio, fino al martirio e all’estasi.
Cellini enuncia queste «virtù» a chiare lettere e le dimostra attraverso l’incalzare degli avvenimenti. Quanto all’origine, basti che «aveva Iulio Cesare un suo primo e valoroso capitano, ... Fiorino da Celino», capostipite di casa Cellini nonché eroe eponimo di Firenze. Passiamo alla nascita, ammantata di solennità nient’altro che biblica: «bellissimi panni bianchi», quasi sacrali, sono i pannicelli della «creatura»; «vecchie palme» le mani che il padre, «vero filosafo», congiunge verso il cielo per esprimere grata soddisfazione. Le doti poliedriche di Benvenuto — connesse all’aitante armoniosità del corpo, «dono prestatomi dallo Iddio della natura» — vengono celebrate dai sodali e ammesse dai rivali, sicché l’esecuzione di una fibbia da cintura lo elegge «miglior giovane dell’Arte»; il «ferrolino d’acciaio finissimo» che egli improvvisa per un chirurgo è addirittura indolore; se suona nell’orchestra pontificia, il papa dice di non aver «mai sentito musica più suavemente e meglio unita sonare»; se dorme ha «il più leggier sonno che mai altro uomo avessi al mondo», mentre se si ammala lo coglie «una grandissima febbre con freddo inistimabile», e guarisce perché, disattendendo medici «istrasordinari», adotta cure di propria invenzione; gli archibugieri da lui comandati in castel Sant’Angelo tengono lontani gli assedianti e ne colpiscono i capi supremi. La fame di sapere e sperimentare si traduce in studi indefessi («Non mai stanco per fatica») e supremamente fertili (con «gran frutto»), in continui cambi di maestri e nell’accumulo di nozioni «assai, e molto diverse l’una dall’altra»; così come sfocia nelle sedute negromantiche al Colosseo, dove mai si scatenarono altrettanti demoni («le legioni eran l’un mille più...»), e solo la sua fermezza riesce a dissolverli (l’esperto negromante responsabile della loro apparizione «non aveva mai trovato nessuno d’un saldo animo come ero io»). Il misticismo lo gratifica di visioni celesti («Dio m’ha fatto degno di mostrarmi tutta la gloria sua, quale non ha forse mai visto altro occhio mortale»), di potere divinatorio («non finirà questo giorno intero che voi...») e della «cosa meravigliosa»» che in parole povere si chiama aureola («uno isplendore... sopra il capo mio»).
Sono saggi di una egolatria illimitata, per cui, così come battibecca col papa, da pari a pari, Cellini assolve la Chiesa («se bene e’ la mi fa questo iscellerato torto, io liberamente le perdono»); oppure se la prende con una città («io essendo adirato con Mantova»). Le spiegazioni hanno fatto leva sul superomismo del Rinascimento o sulla nevrosi ossessiva del Manierismo, coinvolgendo Freud Kris Cioran Bachelard Grunberger, integrabili da Pinder Binswanger Zimbardo Musatti e chissà quanti ancora. (Decida il lettore, avendo presente che, anziché l’uomo, non interrogabile, o i fatti da lui raccontati, male o — vedremo — inutilmente valutabili, sul lettino va fatta sdraiare la sua opera superstite, affidandola a un analista che sappia comprendere i "segni" più riposti degli scritti e delle sculture; "segni" che però rimangono in maggioranza da identificare).
Perché il monumento innalzato a se stesso consegua il massimo di evidenza, Benvenuto contrappone senza tregua alle «virtù» personali la «fortuna» stabilita dalle «perverse istelle»: quasi il conflitto di Machiavelli. Conta poco se, avendo Dio dalla loro, sono le «virtù» a preponderare, come pensa qualche commentatore, mentre per altri ha la meglio il fato ostile. Importa per esempio il modo in cui Cellini spiega la «fortuna» quando si incarna nei tre avversari vincenti: Pier Luigi Farnese, che lo manda in prigione a Roma; Madame d’Étampes, che lo costringe ad abbandonare Parigi e tutte le sue promesse di gloria e ricchezza; Eleonora di Toledo, responsabile dell’inattività a Firenze. Il primo monopolizza l’autorità del papa Paolo III, di cui è figlio; la seconda domina il cuore del re di Francia, di cui è la favorita; la terza condiziona l’arbitrio del duca Cosimo, di cui è la moglie concessa o imposta da un alleato troppo poderoso.
Ce n’è di che lusingare anche un uomo «unico», come lo stesso Paolo III riconosce Benvenuto, dichiarandolo non «ubbrigato a quelle leggi che lui, l’«unico», ha spesso e pesantemente violato per sconfiggere nemici terribili quantunque non "fatali". Soprattutto si chiarisce perché la fusione del Perseo è il nucleo della Vita, dove «virtù» e «fortuna arrivano allo scontro più aspro, preparato da una catena di scontri saldata con esattezza assiomatica.
È noto che i puntigli della critica positivista per sorprendere il nostro autore con le mani nel sacco della fandonia hanno scoperchiato soltanto peccati di omissione, rari e in verità gravi, diversi però dalla millanteria che si è voluto scorgere a ogni passo e in particolare nei ragguagli sull’uccisione del conestabile di Borbone oltre che sul ferimento di Filiberto d’Orange. In un elenco che pretende essere di benemerenze, Cellini si accredita il secondo fattaccio: «Io fui quello che ferì il principe d’Orangio» [I 103]. Del primo non parla; e ricordandolo altrove, lo attribuisce non a se stesso — come invece ripetono gli storici — ma genericamente agli archibugieri che con lui sparavano da castel Sant’Angelo: «da questi nostri colpi si ammazzò Borbone» [I 34]. Perciò, se è impossibile accertare, pare altrettanto arduo smentire.
Sull’altro piatto della bilancia stanno le numerose notizie ineccepibili. Alcune, benché secondarie e soggette a disperdersi (esempio: il breve soggiorno romano di Jean de Montluc [I 104]), sono cronologizzate con precisione tale che dovremmo ammettere in Benvenuto anche la «virtù» d’una memoria di ferro, se non sapessimo che pure lui, come tanti capibottega, annotava uscite ed entrate — in sostanza, le opere eseguite, i committenti, i temi, i materiali, i tempi, i modi — con una diligenza che appare meticolosa quando ancora era giovane [Trento, 1984]. Il passare degli anni la rese maniacale, tanto che la contabilità registrata da Cellini nel periodo 1545-71 forma sette grossi volumi (Firenze, Biblioteca Riccardiana), dove si leggono gli eventi della professione, ma pure sostanziosi acquisti, vendite, investimenti presso banche fiorentine ed estere, enti pubblici e privati, e anche piccoli prestiti rilasciti a signori e artigiani, intese con garzoni e domestiche, testamenti (tutti secondo scritture notarili d’una contorsione levantina), liti, puntate al gioco d’azzardo, nascite di figli, spese per istruirli...
Inoltre ricordiamoci che la Vita è un promemoria per Cosimo I, la cui informazione su tutto e su tutti doveva essere nota perfino a un cortigiano maldestro come Benvenuto. Il quale, se poteva illudersi di gabellare vanterie su episodi lontani, era tuttavia costretto a rigare diritto con le faccende medicee, che nel suo racconto preponderano. Unica scappatoia, dunque, il silenzio: talora se ne serve [II 99, ecc.], appunto da quell’ingenuo che riusciva a dimostrarsi.
Discussi questi aspetti di attendibilità, va ribadita la loro irrilevanza. Nessuno fa questione di fondamento storico per i calzari del Perseo in bronzo o per l’acconciatura della Sibilla Eritrea affrescata da Michelangelo. Ogni requisito connesso all’involucro delle immagini scolpite o dipinte rientra, se degno, nella verità della creazione artistica, libera dalle remore di verosimiglianza e basata sulla logica spirituale dei ritmi, delle linee, colori, ecc. Il conseguimento di una coerenza analoga sul piano letterario esime la Vita dall’essere una fonte sicura per il regesto del suo autore, imponendola come costruzione autonoma e valutabile per le sole qualità stilistiche.
Cellini dipana il suo filo — «virtù» contro «fortuna» — servendosi di passaggi repentini dal quotidiano e dal terragno più sbracato all’astrazione; dall’eroico all’antieroico; da un verismo duro o ammiccante, canagliesco, lubrico al surreale della telepatia e del sogno: insomma uno scontro portato avanti a suon di contrapposizioni. A volte, poche, si intenerisce, per i pudibondi rossori d’una guancia femminile o per i vezzi di qualche bambino. Usa molto sarcasmo, urlato o insinuato, per graffiare malcapitati di mezza tacca e personaggi di gran taglia, degradandoli da «omaccioni» a «omiciattoli». La riduzione gli riesce, non si dice con papa Clemente VII, pastore e politico di anguste vedute, ma col suo ben diverso successore. Attraverso episodi scalati al punto giusto, idoneamente angolati e corredati degli opportuni dialoghi, la Vita ammannisce un Paolo III in preda del nepotismo, di tirchierie e di ripicchi miserabili (come nella storiografia più avversa del sec. XIX), proprio negli anni in cui sta ponendo le basi della riconciliazione tra Carlo V e Francesco I, allea l’Impero e Venezia contro il pericolo turco, prepara la riforma del clero, elegge cardinali "scomodi", è sul punto di varare il Concilio di Trento, e mentre fa dipingere Michelangelo nella Sistina.
Ciò e il resto, fino all’epica della fusione del Perseo, sono potuti sembrare effetti meramente comico-novellistici, sia pure — come da ultimo tenta di riscattarli Cervigni [1979] — proiettati in una direzione che conduce a don Chisciotte. Semmai rinviano al teatro — commedia ma anche tragedia — per l’essenziale articolazione degli ambienti, le tempestive entrate dei personaggi, l’urgenza di battute e a-parte, i commenti che assomigliano a laconiche didascalie di scena. Sintesi e funzionalità che, applicate per esempio alle rare determinazioni paesistiche, forniscono prove avvincenti: «cominciò il cielo a fare certi tuoni secchi, e l’aria era bianchissima» dà avvio a una bufera; «la strada bellissima per un bosco introduce un possibile agguato di briganti; il parco della delizia estense di Belfiore «grandissimo, lasciato salvatico quasi un miglio di terreno scoperto», quale promessa di selvaggina e di noia e febbre.
Ancora una volta vale la legge del contrapposto. E il contrapposto, sia di contenuti sia di masse plastiche, è basilare nella figuratività manieristica, come testimoniano le sculture celliniane e le opere di Pontormo Rosso Primaticcio Bandinelli Vasari.
Per la concreta immediatezza del dire, Cellini resta invece un isolato assieme all’Aretino migliore, forse col merito di una sagacia e di una efficacia maggiori nel conseguimento dei propri scopi. L’incipit delle sue imprese guerresche non potrebbe essere più lineare e coattivo: «Era di già tutto il mondo in arme», punto e basta. Dopo l’evasione da castel Sant’Angelo si trascina «carpone»» sul selciato, malconcio e assalito dai cani randagi; ed eccolo d’improvviso mettersi a tu per tu col sole nascente: «faccendomisi dì chiaro addosso», che ristabilisce il suo ruolo di «primo omo del mondo», anzi «unico», poiché la luce solare diventa soltanto sua.
Gli strumenti di un tuttotondo così aggettato sono stati ben riconosciuti da B. Maier. Parole collocate là dove esigono il ritmo del racconto e la tensione che lo carica, per orientarli verso l’esito voluto; e, sempre in vista degli intenti celebrativi o denigratori, continui scarti dal discorso diretto all’indiretto e viceversa, oltre a intensificazioni espressive ed espressionistiche ottenute con repentini agganci del concreto al metaforico. Aggettivi a piene mani, pertinenti o bizzarri o di fantasia («pazzericcio», «incamatito»), accresciuti fino all’iperbole («poltroncione») o diminuiti fino al vezzeggiativo che disprezza e annienta; per cui Vasari, artista uso a corti e a curie, diventa «Georgetto Vassellario» (storpiatura che finge un inesistente diminutivo latino) con «una sua lebbrolina secca», con «certe sue sporche manine» e con quel che segue sull’impiego, molto sospetto, di queste ultime [I 86].
Nella sarabanda verbale non mancano riferimenti alla prosa cólta: tentativi abortiti, per qualche critico; ma solo a volte. Spesso sono attestati di dominio sulla lingua. Benvenuto, sappiamo perché, definisce la sua «una complessione buona e ben proporzionata»; da altri la fa elogiare come «bella finnusumia e simitria di corpo», parole ricercate perché a proferirle è un «grandissimo filosofo». E i francesismi sono un altro sfoggio cólto? oppure l’ex emigrante li usa senza accorgersene o li esibisce per civetteria? Almeno in un caso le ragioni sembrano differenti. Siamo alla corte di Francia: «il re mi vedde [vide], lietamente mi chiamò e mi domandava se nella mia magione era qualcosa da mostrargli di bello» [II 15]. Chiaro il tentativo di rendere per via indiretta le parole del sovrano; rapportando però al «lietamente» le beghe che la francesistica «magione» aveva acceso fra Benvenuto e il gran prevosto di Parigi, si deve ammettere nello scrittore la volontà di uno speciale rilievo linguistico.
Alla riscoperta settecentesca della Vita, Baretti [1764] ne esalta l’immediata scioltezza del "parlato", e illuministicamente dichiara il suo stile «meglio ... che alcun altro italiano; uno stile più schietto e più chiaro, perché più secondo l’ordine naturale delle idee». Oltre duecento anni dopo anche per Maier [1968] l’autobiografia celliniana è «un capolavoro di stile».
Con ciò, ognuno rimane padrone di pensarla come gli garba. Tuttavia appare almeno strano che oggi, mentre nessuno sembra soddisfatto degli oneri che trattengono la nostra lingua scritta così lontano da quella parlata, di fronte a un fuoristrada che chiacchiera anche sulla carta alcuni studiosi ripeschino superate questioni di grammatica e di sintassi, sottolineando in blu e in rosso anacoluti, ripetizioni, approssimazioni (anche nei francesismi), intemperanze vernacole, contorsioni «per incapacità di dominare la troppo folta selva dei fatti e fatterelli nei quali si smarrisce il racconto».
Certo, sovente la frase di Cellini si avvita — come la composizione dei pittori e scultori manieristi —, sembra che inciampi, poi riprende e magari sviottola in una direzione secondaria. La sua «è la sintassi di uno scrittore che non conosce la prospettiva»» («mi vedde, ... chiamò e ... omandava se ... era»: anarchia, caos, ma d’un brio che è vita vivente); o che la rifiuta, come quando modella in creta il magnifico rilievo della Liberazione di Andromeda. Gli rinfacciano di perdersi nei particolari a scapito dell’armonia classica — quella che compromette la statua di Perseo, nonostante la bontà dei dettagli —, insomma di non essere un Bembo — personaggio strapazzato nella Vita —, salvo poi riconoscerlo autore di un «grande affresco» del suo secolo, che mai si è sognato di pitturare.
Vogliamo leggerlo quando smette di litigare a colpi di penna e fa ordine nella selva "perturbata e contorta"? Caso insolito, di Cellini rimangono due versioni dello stesso episodio, la fusione del Perseo esposta nella Vita e, forse meno di due-tre anni dopo, nel Trattato della scultura. Mettiamone a riscontro la parte finale, dal momento in cui si informa Benvenuto, costretto per la febbre ad abbandonare la fornace e a coricarsi, che l’impresa sembra fallita:
Stando in queste smisurate tribulazione, io mi veggo entrare in camera un certo orno, il quale nella sua persona ei mostrava d’essere storto come una «esse» maiuscola; e cominci ò a dire con un certo suon di vocie mesto, afflitto, come coloro che danno il commandamento dell’anima a quei che hanno a ’ndare a giostizia [i condannati a morte], e disse: «O Benvenuto! la vostra opera si è guasta, e non ci è più un rimedio al mondo». Subito che io senti’ le parole di quello sciagurato, messi un grido tanto smisurato, che si sarebbe sentito dal cielo ..., e Ora, essendo io con la gran febbre prostrato nel letto, venne uno di questi nel quale io avevo più fede, e in un certo suo bel modo mi disse:
«Benvenuto, abbiate pazienzia, ché per essere la fornace stata a disagio [accudita male] ei s’è fatto un migliaccio». Onde io mi volsi a lui, e feci chiamare tutti quelli altri pratichi in sollevatomi dal letto presi li mia panni e mi cominciai a vestire; e le serve e ’l mio ragazzo e ognuno che mi si accostava per aiutarmi, a tutti io davo o calci o pugnia, e mi lamentavo dicendo: «Ahi traditori, invidiosi! Questo si è un tradimento fatto a arte; ma io giuro per Dio che benissimo i’ lo conoscerò [smaschererò] e innanzi che io muoia lascerò di me un tal saggio al mondo, che più d’uno ne resterà maravigliato». Essendomi finito di vestire, mi avviai con cattivo animo inverso bottega, dove io viddi tutte quelle gente, che con tanta baldanza avevo lasciate, tutti stavano attoniti e sbigottiti. Cominciai, e dissi: «Orsù intendetemi, e dappoi che voi non avete o saputo o voluto ubbidire al modo che io v’insegniai, ubbiditemi ora che io sono con voi alla presenza dell’opera mia; e non sia nessuno che mi si contraponga, perché questi cotai casi hanno bisognio di aiuto e non di consiglio». A queste mie parole e’ mi rispose un certo maestro Alessandro Lastricati e disse: «Vedete, Benvenuto, voi vi volete mettere a fare una inpresa, la quale mai nollo promette [permette] l’arte, né si può fare in modo nissuno». A queste parole io mi volsi con tanto furore e rechi io avevo fede, e domanda’li se e’ vi sapevano [porre] alcuno rimedio. I detti valent’uomini mi dissono che e’ non vi era altro rimedio se non disfare la fornace; e in quel mentre che la fornace si disfarebbe, per esser la mia figura sotterrata in terra, loro non vedevano modo nessuno che la non si guastassi; ... e non vi conoscevano altro rimedio al mondo. Or sappia, benigno lettore, che co’ il male che io avevo, e con la cattiva nuova [notizia], la qual m’importava [investiva] tutto l’onor mio, io sentii uno de’ maggiori dolori che mai uomo al mondo si possa inmaginare. Ma non soprastetti a dar campo al dolore: subito ricorsi a quella natural virtù dell’animosità ...; e furioso con essa saltai dal letto, e spaventato quella smisurata febbre con alcune mordace parole che io dissi a quei detti maestri, in fra le quali furno che io dissi: «Da poi che voi non avete saputo fare, anzi mi avete guasto le mie onorate fatiche, avvertite [badate] addunque e state in cervello a ubbidirmi, perché per tutto quello che io intendo dell’arte, io mi prometto certo di risuscitare questo che voi mi avete dato per morto, pur che il mal che io ho addosso non sforzi la virtù del corpo soluto al male, che ei e tutti gli altri, tutti a una vocie dissono: «Sù, comandate, ché tutti vi aiuteremo tanto quanto voi ci potrete comandare, in quanto si potrà resistere ...». E queste amorevol parole io mi penso ei le dicessino pensando che io dovessi poco soprastare a cascar morto. Subito andai a vedere la fornacie, e viddi tutto rappreso il metallo, la qual cosa si domanda [chiama] l’essersi fatto un migliaccio. Io dissi a dua manovali che andassino al dirimpetto, in casa ’l [del] Capretta beccaio, per [prendere] una catasta di legnie di quercioli giovani, che erano secchi di più di un anno, le quali legnie madonna Ginevra, moglie del detto Capretta, me l’aveva offerte; e venute che furno le prime bracciate, cominciai a empiere la braciaiuola. E perché la quercia di quella sorte fa ’l più vigoroso fuoco che tutte l’altre sorte di legnie ...; oh quando quel migliaccio cominciò a sentire quel terribil fuoco, ei si cominciò a schiarire, e lampeggiava. Dall’altra banda sollecitavo [facevo tenere sgombri] i canali; e altri avevo mandato sul tetto a riparare al fuoco [spegnere l’incendio], il quale per la maggior forza di quel fuoco [dei quercioli] si era maggiormenpiù che tanto». E così brontolando corsi con loro in bottega e comandai a sei a un colpo tutte diverse cose; e la prima fu che io dissi a un di loro che mi facessi condure una catasta di legne di quercia secche, le quali erano appunto al dirimpetto, in casa el Capretta beccaio; e in mentre che quelli ne portavano, cominciai a metterne nella fornace parecchi pezzi per volta ... Or con la forza di questo legno e di questo fuoco, subito il metallo si cominciò a muovere. A dua altri comandai che con certe lunghe verghe di ferro lo pugnessino [attizzassero] per l’una e per l’altra buca della fornace; e perché e’ traeva [tirava] vento, e pioveva quanto il cielo ne sapeva mandare, e il vento e l’acqua mi imboccavano la [entravano nella] mia fornace, di modo che quelli dua con quelli artifizii che io avevo insegnato loro riparavano al vento e all’acqua. A dua te appiccato; e di verso l’orto avevo fatto rizzare certe tavole e altri tappeti e pannacci, che mi riparavano [la fornace] dall’acqua [dalla pioggia].
Di poi che io ebbi dato il rimedio a tutti questi gran furori, con vocie grandissima dicievo, ora a questo e ora a quello: «Porta qua, leva là»: di modo che, veduto che ’l detto migliaccio si cominciava a liquefare, tutta quella brigata con tanta voglia mi ubbidiva, che ogniuno faceva per tre. Allora io feci pigliare un mezzo pane di stagnio, il quale pesava in circa a 60 libbre, e lo gittai in sul migliaccio dentro alla fornacie, il quale cone gli altri aiuti e di legnie e di stuzzicare or co’ ferri e or cone stanghe, in poco spazio di tempo e’ divenne liquido. Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al credere di tutti quegli ignioranti, e’ mi tornò tanto vigore che io non mi avvedevo se io avevo più febbre o più paura di morte. In un tratto ei si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo, che parve propio che una saetta si fussi creata quivi alla presenza nostra: per la quale insolita spaventosa paura ogniuno s’era sbigottito, e io più degli altri. Passato che fu quel grande romore e splendore, noi ci cominciamaltri messi in opera perché la violenzia del gran fuoco per la parte di drento di bottega aveva appiccato fuoco a certe finestre grande di legno, le quale ardevano con tanta veemenzia, che mi dava spavento che non si appiccassi fuoco al palco della bottega ... Con li altri, che erono assai, io mi messi a pulire e’ canali, dove aveva a correre il mio metallo, e scoperti tutti e’ mia sfiatatoi e aperto tutte le bocche; e in mentre che io avevo condotto tutta la mia opera alla sua fine,
in un momento viddi alzare tutto il coperchio della fornace, e questo avvenne per quel terribil fuoco di legne di quercia, di modo che il metallo si versava per tutti e’ versi, dove io viddi sbigottito di nuovo tutti quelli che con tanta ubbidienza e timore mi avevano servito, ed erano pieni di mo a rivedere in viso l’un l’altro; e veduto che ’l coperchio della fornacie si era scoppiato e si era sollevato di modo che ’l bronzo si versava, subito feci aprire le bocche della mia forma e nel medesimo tempo feci dare [colpi] alle due spine [per aprirle]. E veduto che ’l metallo non correva con quella prestezza ch’ei soleva fare, conosciuto che la causa forse era per essersi consumata la lega [lo stagno] per virtù di quel terribil fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a dugiento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e parte ne feci gittare drento nella fornacie: di modo che, veduto ogniuno che ’l mio bronzo s’era benissimo fatto liquido, e che la mia forma si empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano e ubbidivano; e io or qua e or là comandavo, aiutavo e dicievo: «O Dio, che con le tue immense virtù risuscitasti da e’ morti, e glorioso te ne salisti al cielo!»; di modo che in un tratto e’ s’empié la mia forma: per la qual cosa io m’inginochiai e con tutto ’l mio cuore ne ringraziai Iddio; dipoi mi volsi a un piatto d’insalata che era quivi in sur un anchettaccio, e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con maraviglia di vedere che io avevo risuscitato e fatto liquido il migliaccio.
E perché il valore [potenza] di quel gran fuoco mi aveva consumata tutta la lega, io avevo dato ordine di rimetter la lega nella fornace con un pane grosso di stagno fine, il quale era quivi presente. Or veduto di non lo poter fare, perché il mio metallo si fuggiva, ... subito comandai a dua altri uomini che corressino in casa mia, e portassino dugento libbre di piatti e scodelle di stagno; e gittatone subito una parte, feci a un di loro pigliare il mandriano e percuotere la spina, la quale era durissima, e così all’altra spina ...;, e di mano in mano che il metallo correva per i canali, io gittavo quei piatti sottili sopra i detti canali, e per essere il metallo tanto disordinatamente caldo, in un tratto correva insieme co’ il detto stagno, di modo che in brevissimo tempo io viddi pieno la mia forma ... Fatto questo, io subito ringraziai Dio, e poi mi volsi a coloro, e dissi: «Vedete voi ora che a ogni cosa è rimedio?»» E fu tanto il dolore intutta quella brigata; e dipoi me n’andai a letto sano e lieto ... [II 76,77]. sieme con tanta allegrezza, che la fatica non si sentì, e la febbre si andò subito con Dio, e mangiai e bevei lietamente con tutta quella turba ... [S., III].
Non che nella seconda versione manchino le spezie: la febbre che ha paura delle escandescenze del suo portatore è una chicca apprezzabile; anche lui che ordina cose differenti a sei persone per volta. Ma invece dell’ometto-anguilla col «certo suon di vocie mesto», ci ritroviamo qualcuno che porta la notizia «in un certo suo bel modo» appena troppo pacato. Niente pugni e pedate del protagonista alle comparse da petit lever che vorrebbero aiutarlo a vestirsi, tutte abolite; né accuse di diserzione premeditata e invettive omeriche del caso, ma un brontolamento quasi sommesso; né i due manovali catapultati a prendere la legna del miracolo, ma un tizio incaricato di farla portare, quasi per piacere (non più comandi da nave nel ciclone che si accavallano di «qua» e di «là»), ed è ignorata quella madonna Ginevra dal nome di maga toccasana. Svapora la bruma di fucina stregata; ridimensionati, vento e pioggia non pretendono più il riparo di tavole tappeti pannacci; così l’incendio, circoscritto a qualche imposta... Via lo scoppio, degno del Giove più scatenato, l’assenza di effetti sonori deprime l’immagine: il coperchio della fornace si alza alla buona e spaventa senza abbagliare, come quello di una pentola in bollore. Nel passaggio dalla numerazione al peso, diminuisce anche il corredo dei piatti in stagno di casa Cellini. E malgrado lo spiegamento di insulti, commozioni e allegrie, manca l’indicibile finale, dall’orchestra wagneriana all’assolo di cicorino.
Soprattutto, le parole non ci investono più a rotta di collo, una spintonata dal suono dell’altra e convogliate dall’inarrestabile necessità di esibire il superman stile Cinquecento. Con le sue ricette a norma di fonderia e di ortografia, il capobottega attento a risparmiare metallo e aggettivi istruisce ma non diverte, e lo lasciamo agli specialisti di arti e mestieri.
Del resto, dopo l’apoteosi scatenata per il Perseo, anche la Vita cala di tono, insabbiandosi nel mugugno su una vecchiaia tutta guai e carte legali. Per un po’ lo scrittore vi si tuffa dentro con la passionalità di quando riviveva le vicende della giovinezza; e la piccineria delle beghe riesce a intingersi di avventura.
Però nelle ultime pagine si fatica a seguirlo. La materia pesa sì e no; anzi, spente le luci di corte e le urla contro avversari o lavoranti, scomparsi gli splendori dei gioielli e dei successi, potevano interessare, e come, le penombre dell’anticamera ducale, degli studi notarili, delle cene improvvisate dalla moglie del mezzadro. Ma il racconto si appiattisce in cronaca di una biografia che non diventa storia né microstoria, nemmeno storia romanzata. Succede lo stesso di quando aveva rinunciato all’irresistibile (e controllatissimo e personalissimo) scatto dell’abbozzo in cera di Perseo per l’impeccabilità della statua «grande». Cellini tiene conto dei modelli illustri; e ormai è pronto alla accomodante diligenza dei Trattati, e a lasciarla piallare da altri, se ricade nella polemica contro Cosimo I, perché diventi precettistica neutra e sentenzioso encomio di casa Medici — assolutamente irreprensibile anche come lessico, grammatica e sintassi.
ETTORE CAMESASCA