XLVI. Ancora lavoravo in bottega di quel Raffaello del Moro sopraditto. Questo uomo da bene aveva una sua bella figlioletta, per la quale lui mi aveva fatto disegno adosso 1; e io, essendomene in parte avveduto, tal cosa desideravo, ma inmentre che io avevo questo desiderio, io non lo dimostravo niente al mondo; anzi istavo tanto costumato, che i’ gli facevo maravigliare. Accadde che a questa povera fanciulletta gli venne una infirmità inella mana ritta 2, la quale gli aveva infradiciato quelle dua ossicina che seguitano il dito mignolo e l’altro accanto al mignolo. E perché la povera figliuola era medicata per la inavvertenza del padre da un medicaccio ignorante, il quale disse che questa povera figliuola resterebbe storpiata di tutto quel braccio ritto, non gli avenendo peggio 3; veduto io il povero padre tanto sbigottito, gli dissi che non credessi tutto quel che diceva quel medico ignorante. Per la qual cosa lui mi disse non avere amicizia di medici nissuno cerusici 4, e che mi pregava che se io ne conoscevo qualcuno, gnene avviassi 5. Subito feci venire un certo maestro Iacomo perugino6, uomo molto eccellente nella cerusia 7; e veduto che egli ebbe questa povera figlioletta, la quale era sbigottita perché doveva avere presentito quello che aveva detto quel medico ignorante, dove 8 questo intelligente disse che ella non arebbe mal nessuno e che benissimo si servirebbe della sua man ritta, se bene quelle dua dita ultime fussino state 9 un po’ più debolette de l’altre, per questo non gli darebbe una noia al mondo. E messo mano a medicarla, in ispazio di pochi giorni volendo mangiare 10 un poco di quel fradicio di quelli ossicini, il padre mi chiamò, che io andassi anch’io a vedere un poco quel male, che a questa figliuola si aveva a fare. Per la qual cosa preso il ditto maestro Iacopo certi ferri grossi, e veduto che con quelli lui faceva poca opera e grandissimo male alla ditta figliuola, dissi al maestro che si fermassi e che mi aspettassi uno ottavo d’ora. Corso in bottega, feci un ferrolino d’acciaio finissimo e torto; e radeva 11. Giunto al maestro, cominciò con tanta gentilezza a lavorare, che lei non sentiva punto di dolore, e in breve di spazio ebbe finito. A 12 questo, oltra l’altre cose, questo uomo da bene mi pose tanto amore, più che non aveva a dua figliuoli mastii 13, e così attese14 a guarire la bella figlioletta. Avendo grandissima amicizia con un certo misser Giovanni Gaddi, il quale era cherico di Camera; questo misser Giovanni si dilettava grandemente delle virtù, con tutto che in lui nessuna non ne fussi. Istava seco un certo misser Giovanni, greco, grandissimo litterato; 15un misser Lodovico da Fano simile a quello,16litterato; messer Antonio Allegretti; allora misser Annibal Caro giovane.17 Di fuora eramo18 misser Bastiano 19 veniziano, eccellentissimo pittore, e io; e quasi ogni giorno una volta ci rivedevamo col ditto misser Giovanni: dove che per20 questa amicizia quell’uomo da bene di Raffaello orefice disse al ditto misser Giovanni: "Misser Giovanni mio, voi mi cognoscete, e perché io vorrei dare quella mia figlioletta a Benvenuto, non trovando miglior mezzo che vostra Signoria, vi prego che me ne aiutate, e voi medesimo delle mie facultà 21 gli facciate quella dota che a lei piace". Questo uomo cervellino 22 non lasciò a pena finir di dire quel povero uomo da bene, che sanza un proposito 23 al mondo gli disse: "Non parlate più, Raffaello, di questo, perché voi ne siete più discosto che il gennaio dalle more 24". Il povero uomo, molto isbattuto 25, presto cercò di maritarla; e meco istavano la madre d’essa e tutti ingrogniati 26, e io non sapevo la causa; e parendomi che mi pagassin di cattiva moneta di più 27 cortesie che io avevo usato loro, cercai di aprire una bottega vicino a loro. Il ditto misser Giovanni non mi disse nulla in sin che la ditta figliuola non fu maritata, la qual cosa fu in ispazio di parecchi mesi. Attendevo con gran sollecitudine a finire l’opera mia e servire la zecca, ché di nuovo mi commisse il Papa una moneta di valore di dua carlini 28, inella quale era il ritratto della testa di sua Santità, e da rovescio un Cristo in sul mare, il quale porgeva la mana a san Pietro, con lettere intorno che dicevano: "Quare dubitasti 29?" Piacque questa moneta tanto oltramodo, che un certo segretario del Papa, uomo di grandissima virtù, domandato il Sanga 30, disse: "Vostra Santità si può gloriare d’avere una sorta di monete, la quale non si vede negli antichi con tutte le lor pompe". A questo il Papa rispose: «Ancora 31 Benvenuto si può gloriare di servire uno imperatore 32 par mio, che lo cognosca 33". Seguitando la grande opera d’oro, mostrandola spesso al Papa, la qual cosa lui mi sollecitava di vederla, e ogni giorno più si maravigliava.
XLVII. Essendo un mio fratello 1 in Roma al servizio del duca Lessandro 2, al quale in questo tempo il Papa gli aveva procacciato il ducato di Penna 3; stava al servizio di questo Duca moltissimi soldati, uomini da bene, valorosi, della scuola di quello grandissimo signor Giovanni de’ Medici 4, e il mio fratello in fra di loro, tenutone conto 5 dal ditto Duca quanto ciascuno di quelli altri più valorosi. Era questo mio fratello un giorno doppo desinare in Banchi in bottega d’un certo Baccino della Crocie, dove tutti quei bravi 6 si riparavano: erasi messo in su una sedia e dormiva. In questo tanto7 passava la corte del bargello 8, la quale ne menava prigione un certo capitan Cisti, lombardo, anche lui della scuola di quel gran signor Giovannino, ma non istava già 9 al servizio del Duca. Era il capitano Cattivanza degli Strozzi 10 in su la bottega del detto Baccino della Crocie.11 Veduto il ditto capitan Cisti il capitan Cattivanza degli Strozzi, gli disse: "Io vi portavo quelli parecchi scudi che io v’ero debitore; se voi gli volete, venite per essi prima che meco ne vadino in prigione". Era questo capitano volentieri a mettere altri al punto, non si curando sperimentarsi 12: per che, trovatosi quivi alla presenza certi bravissimi giovani più volonterosi che forti a sì grande impresa, disse loro che si accostassino al capitan Cisti, e che si facessin dare quelli sua danari, e che, se la corte faceva resistenza, loro a lei facessin forza, se a loro ne bastava la vista 13. Questi giovani erano quattro solamente, tutti a quattro sbarbati 14; e il primo si chiamava Bertino Aldobrandi, l’altro Anguillotto da Lucca: degli altri non mi sovviene il nome. Questo Bertino era stato allevato e vero discepolo del mio fratello, e il mio fratello voleva a lui tanto smisurato bene, quanto inmaginar si possa. Eccoti i quattro bravi giovani accostatisi alla corte del bargello, i quali erano più di cinquanta birri in fra picche, archibusi e spadoni a dua mane. In breve parole si misse mano a l’arme, e quei quattro giovani tanto mirabilmente strignevano la corte, che se il capitano Cattivanza solo si fussi mostro15 un poco, sanza metter mano all’arme, quei giovani mettevano la corte in fuga; ma soprastati alquanto, 16 quel Bertino toccò certe ferite d’importanza, le quale lo batterno17 per terra: ancora Anguillotto nel medesimo tempo toccò una ferita inel braccio dritto, che non potendo più sostener la spada, si ritirò il meglio che potette; gli altri feciono il simile; Bertino Aldobrandi fu levato di terra malamente ferito.
XLVIII. In tanto che queste cose seguivano 1, noi eramo tutti a tavola, perché la mattina s’era desinato più d’un’ora più tardi che ’l solito nostro. Sentendo questi romori, un di quei figliuoli, il maggiore, si rizzò da tavola per andare a vedere questa mistia 2. Questo si domandava Giovanni, al quale io dissi: "Di grazia non andare, perché a simili cose sempre si vede la perdita sicura sanza nulla di guadagno": il simile gli diceva suo padre: "Deh, figliuol mio, non andare". Questo giovane, senza udir persona 3, corse giù pella scala. Giunto in Banchi, dove era la gran mistia, veduto Bertino levar di terra, correndo, tornando adrieto, si riscontrò in Cechino mio fratello, il quali lo domandò che cosa quella era4. Essendo Giovanni da alcuni accennato 5 che tal cosa non dicessi al ditto Cecchino, disse a la ’npazzata 6 come gli era che Bertino Aldobrandi era stato ammazzato dalla corte. Il mio povero fratello misse sì grande il mugghio 7, che dieci miglia si sarebbe sentito; di poi disse a Giovanni: "Oimè, saprestimi tu dire chi di quelli me l’ha morto8?" Il ditto Giovanni disse che sì, e che gli era un di quelli che aveva uno spadone a dua mane, con una penna azzurra nella berretta. Fattosi innanzi il mio povero fratello e conosciuto per quel contrassegno lo omicida, gittatosi con quella sua maravigliosa prestezza e bravuria in mezzo a tutta quella corte, e sanza potervi rimediare punto 9, messo una stoccata nella trippa,10 e passato dall’altra banda il detto, cogli elsi della spada lo spinse in terra, voltosi agli altri con tanta virtù e ardire, che tutti lui solo gli metteva in fuga: se non che, giratosi per dare a uno archibusiere, il quale per propia necessità 11 sparato l’archibuso, colse il valoroso sventurato giovane sopra il ginocchio della gamba dritta; e posto in terra 12, la ditta corte mezza in fuga sollecitava a ’ndarsene, acciò che un altro simile a questo sopraggiunto non fussi. Sentendo continuare quel tomulto, ancora13 io levatomi da tavola, e messomi la mia spada accanto, che per ugniuno14 in quel tempo si portava, giunto al ponte Sant’Agnolo viddi un ristretto15 di molti uomini: per la qual cosa fattomi innanzi, essendo da alcuni di quelli conosciuto, mi fu fatto largo e mostromi 16 quel che manco io arei voluto vedere, se bene mostravo grandissima curiosità di vedere. In prima giunta 17 nol cognobbi, per essersi vestito di panni diversi da quelli che poco innanzi io l’avevo veduto: di modo che, conosciuto lui prima me, disse: "Fratello carissimo, non ti sturbi il mio gran male, perché l’arte mia18 tal cosa mi prometteva; fammi levare di qui presto, perché poche ore ci è di vita". Essendomi conto il caso19 in mentre che lui mi parlava, con quella brevità che cotali accidenti promettono, gli risposi: "Fratello, questo è il maggior dolore e il maggior dispiacere che intervenir mi possa in tutto il tempo della vita mia; ma istà di buona voglia che innanzi che tu perda la vista, di chi t’ha fatto male vedrai le tua vendette fatte per le mia mane". Le sue parole e le mie furno di questa sustanzia, ma brevissime.
XLIX. Era la corte discosto da noi cinquanta passi, perché Maffio 1, ch’era lor bargello, n’aveva fatto tornare una parte per levar via quel caporale che il mio fratello aveva ammazzato: di modo che, avendo camminato prestissimo quei parecchi passi rinvolto 2 e serrato nella cappa, ero giunto a punto accanto a Maffio, e certissimo l’ammazzavo, perché i populi 3 erano assai, e io m’ero intermesso fra quelli. Di già con quanta prestezza inmaginar si possa avendo fuor mezza la spada, mi si gettò per di drieto alle braccia Berlinghier Berlinghieri, giovane valorosissimo e mio grande amico, e seco era quattro altri giovani simili a lui, e’ quali dissono a Maffio: "Lévati, ché questo solo t’ammazzava". Dimandato Maffio: "Chi è questo?", dissono: "Questo è fratello di quel che tu vedi là, carnale4". Non volendo intendere altro, con sollecitudine si ritirò in Torre di Nona5, e a me dissono: "Benvenuto, questo impedimento che noi ti abbiamo dato contra tua voglia, s’è fatto a fine di bene: ora andiamo a soccorrere quello6 che starà poco a morire". Così voltici, andammo dal mio fratello, il quale io lo feci portare in una casa. Fatto subito un consiglio di medici, lo medicorno, non si risolvendo a spiccargli 7 la gamba affatto, che talvolta 8 sarebbe campato. Subito che fu medicato, comparse quivi il duca Lessandro, il quale faccendogli carezze (stava ancora il mio fratello in sé 9), disse al duca Lessandro: "Signor mio, d’altro non mi dolgo, se none che vostra Eccellenzia perde un servitore, del quale quella 10 ne potria trovare forse de’ più valenti di questa professione, ma non che con tanto amore e fede vi servissino, quanto io faceva". Il Duca disse che s’ingegniasse di11 vivere: de’ resto benissimo lo cognosceva per uomo da bene e valoroso. Poi si volse a certi sua, dicendo loro che di nulla si mancasse a quel valoroso giovane. Partito che fu il Duca, l’abundanzia del sangue, qual non si poteva stagnare, fu causa di cavarlo del cervello12: in modo che la notte seguente tutta farneticò, salvo che volendogli dare la comunione, disse: "Voi facesti bene a confessarmi dianzi; ora questo sacramento divino non-è possibile che io lo possa ricevere in questo di già guasto istrumento 13: solo contentatevi che io lo gusti con la divinità 14 degli occhi, per i quali sarà ricevuto dalla inmortale anima mia; e quella sola a lui chiede misericordia e perdono". Finite queste parole, levato il Sacramento, subito tornò alle medesime pazzie15 di prima, le quali erano composte dei maggiori furori, delle più orrende parole che mai potessino inmaginare gli uomini; né mai cessò in tutta notte insino al giorno. Come il sole fu fuora del nostro orizzonte si volse a me e mi disse: "Fratel mio, io non voglio più star qui, perché costoro mi farebbon fare qualche gran cosa, di che e’ s’arebbono a pentire d’avermi dato noia"; e scagliandosi con l’una e l’altra gamba, la quale noi gli avevamo messo in una cassa molto ben grave 16, la tramutò in modo di montare a cavallo; voltandosi a me col viso disse tre volte: "Adio, adio"; e l’ultima parola se ne andò con quella bravosissima 17 anima. Venuto l’ora debita, che fu in sul tardi a ventidua ore, io lo feci sotterrare con grandissimo onore inella chiesa de’ Fiorentini 18; e di poi gli feci fare una bellissima lapida di marmo, inella quale vi si fece alcuni trofei e bandiere intagliate. Non voglio lasciare in drieto, che domandandolo un di quei sua amici, chi gli aveva dato quell’archibusata, se egli lo ricognoscessi, disse di sì, e dettegli e’ contrassegni; e’ quali, se bene il mio fratello s’era guardato da me che tal cosa io non sentissi, benissimo lo avevo inteso, e al suo luogo si dirà il seguito.
L. Tornando alla ditta lapida, certi maravigliosi litterati, che conoscevano il mio fratello, mi dettono una epigramma 1 dicendomi che quella meritava quel mirabil giovane, la qual diceva così: "Francisco Cellino Florentino, qui quod in teneris annis ad Ioannem Medicem ducem plures victorias retulit et signifer fuit, facile documentum dedit quantae fortitudinis et consilii vir futurus erat, ni crudelis fati archibuso transfossus, quinto aetatis lustro iaceret, Benvenutus frater posuit. Obiit die XXVII Maii MDXXIX 2". Era dell’età di venticinque 3 anni; e perché domandato in fra i soldati Cecchino del Piffero, dove il nome suo propio era Giovanfrancesco Cellini, io volsi fare quel nome propio, di che gli 4 era conosciuto, sotto la nostra arme 5. Questo nome io l’avevo fatto intagliare di bellissime lettere antiche; le quali avevo fatto fare tutte rotte 6, salvo che la prima e l’ultima lettera. Le quali lettere rotte, io fui domandato per quel che così avevo fatto da quelli litterati, che mi avevano fatto quel bello epigramma. Dissi loro quelle lettere esser rotte, perché quello strumento mirabile del suo corpo era guasto e morto; e quelle dua lettere intere, la prima e l’ultima, si erano, la prima, memoria di quel gran guadagno di quel presente che ci dava Idio, di questa nostra anima accesa dalla sua divinità; questa non si rompeva mai; quella altra ultima intera si era per la gloriosa fama delle sue valorose virtù. Questo piacque assai e di poi qualcuno altro se n’è servito di questo modo. Appresso feci intagliare in detta lapida l’arme nostra de’ Cellini, la quale io l’alterai da quel che l’è propia: perché si vede in Ravenna, che è città antichissima, i nostri Cellini onoratissimi gentiluomini,é quali hanno per arme un leone rampante, di color d’oro in campo azzurro, con un giglio rosso posto nella zampa diritta, e sopra il rastrello con tre piccoli gigli d’oro. Questa è la nostra vera arme de’ Cellini.7 Mio padre me la mostrò, la quale era la zampa sola 8 con tutto il restante delle ditte cose; ma a me più piacerebbe che si osservassi quella dei Cellini di Ravenna sopra detta. Tornando a quella che io feci nel sepulcro del mio fratello, era la branca del lione, e in cambio del giglio gli feci una accetta in mano, col campo di detta arme partito9 in quattro quarti; e quell’accetta che io feci, fu solo perché non mi si scordassi di fare le sue vendette.
LI. Attendevo con grandissima sollecitudine a finire quell’opera d’oro 1 a papa Clemente, la quale il ditto Papa grandemente desiderava, e mi faceva chiamare dua e tre volte la settimana, volendo vedere detta opera, e sempre gli cresceva di piacere; e più volte mi riprese quasi sgridandomi della gran mestizia che io portavo di 2 questo mio fratello; e una volta in fra l’altre, vedutomi sbattuto e squallido 3 più che ’l dovere, mi disse: "Benvenuto, oh! i’ non sapevo che tu fussi pazzo: non hai tu saputo prima che ora, che alla morte non è rimedio? Tu vai cercando di andargli drieto4". Partitomi dal Papa, seguitava l’opera e i ferri della zecca, e per mia innamorata5 mi avevo preso il vagheggiare quello archibusieri, che aveva dato al mio fratello. Questo tale era già stato soldato cavalleggieri, di poi s’era messo per archibusieri nel numero de’ caporali col bargello; e quello che più mi fece cresciere la stizza, fu che lui s’era vantato in questo modo, dicendo: "Se non ero io, che ammazzai quel bravo giovane, ogni poco che si tardava, che egli solo con nostro gran danno tutti ci metteva in fuga". Cognoscendo io che quella passione di vederlo tanto ispesso6 mi toglieva il sonno e il cibo e mi conduceva per il mal cammino, non mi curando di far così bassa inpresa e non molto lodevole, una sera mi disposi a volere uscire di tanto travaglio. Questo tale istava a casa vicino a un luogo chiamato Torre Sanguigna 7, accanto a una casa dove stava alloggiato una cortigiana delle più favorite di Roma, la quali si domandava la signora Antea. Essendo sonato di poco le ventiquattro ore, questo archibusieri si stava in su l’uscio suo con la spada in mano, e aveva cenato. Io con gran destrezza me gli acostai con un gran pugnal pistolese, e girandogli un marrovescio,8 pensando levargli il collo di netto 9, voltosi anche egli prestissimo, il colpo giunse inella punta della spalla istanca 10; e fiaccato tutto l’osso, levatosi sù, lasciato la spada smarrito dal gran dolore, si messe a corsa 11; dove che seguitandolo, in quattro passi lo giunsi, e alzando il pugnale sopra la sua testa, lui abassando forte il capo, prese il pugnale apunto l’osso del collo e mezza la collottola, e inell’una e nell’altra parte entrò tanto dentro il pugnale che io, se ben facevo gran forza di riaverlo, non possetti: perché della ditta casa de l’Antea saltò fuora quattro soldati con le spade inpugnate in mano, a tale che io fui forzato a metter mano per la mia spada per difendermi da loro. Lasciato il pugniale mi levai di quivi, e per paura di non essere conosciuto me ne andai in casa il duca Lessandro 12, che stava in fra piazza Navona e la Ritonda. Giunto che io fui, feci parlare al Duca, il quale mi fece intendere che se io ero solo, io mi stessi cheto e non dubitassi di nulla, e che io me ne andassi a lavorare l’opera del Papa, che la desiderava tanto, e per otto giorni io mi lavorassi drento 13; massimamente essendo sopraggiunto quei soldati che mi avevano inpedito, li quali avevano quel pugnale in mano, e contavano la cosa come l’era ita 14, e la gran fatica che egli avevano durato a cavare quel pugnale dell’osso del collo e del capo di colui, il quale loro non sapevano chi quel15 si fussi. Sopraggiunto in questo Giovan Bandini, disse loro: "Questo pugnale è il mio, e l’avevo prestato a Benvenuto, il quale voleva far le vendette del suo fratello". I ragionamenti di questi soldati furno assai,16 dolendosi d’avermi inpedito, se bene la vendetta s’era fatta a misura di carboni 17. Passò più di otto giorni: il Papa non mi mandò a chiamare come e’ soleva. Da poi mandatomi a chiamare per18 quel gentiluomo bolognese suo cameriere, che già dissi, questo con gran modestia19 mi accennò come il Papa sapeva ogni cosa, e che sua Santità mi voleva un grandissimo bene, e che io attendessi a lavorare e stessi cheto. Giunto al Papa, guardatomi così coll’occhio del porco 20, con i soli sguardi mi fece una paventosa bravata21; di poi atteso a l’opera 22, cominciatosi a rasserenare il viso, mi lodò oltra modo, dicendomi che io avevo fatto un gran lavorare in sì poco tempo; da poi guardatomi in viso, disse: "Or che tu se’ guarito 23, Benvenuto, attendi a vivere"; e io, che lo ’ntesi, dissi che così farei. Apersi una bottega subito bellissima in Banchi, al dirimpetto a quel Raffaello,24 e quivi fini’ la detta opera in pochi mesi a presso.25
LII. Mandatomi il Papa tutte le gioie, dal diamante in fuora 1, il quale per alcuni sua bisogni lo aveva impegnato a certi banchieri genovesi, tenevo tutte l’altre gioie, e di questo diamante avevo solo la forma. Tenevo cinque bonissimi lavoranti, e fuora di 2 questa opera facevo di molte faccende: in modo che la bottega era carica di molto valore d’opere e di gioie, d’oro e di argento. Tenendo in casa un cane peloso, grandissimo e bello, il quale me lo aveva donato il duca Lessandro, se bene questo cane era buono per la caccia, perché mi portava ogni sorta di uccelli e d’altri animali che ammazzato io avessi con l’archibuso, ancora per guardia d’una casa questo era maravigliosissimo. Mi avenne in questo tempo, promettendolo la stagione 3 inella quale io mi trovava, inel’età di ventinove anni, avendo preso per mia serva una giovane di molta bellissima forma e grazia, questa tale io me ne servivo per ritrarla, a proposito per l’arte mia: ancora mi compiaceva alla giovanezza mia del diletto carnale. Per la qual cosa, avendo la mia camera molto apartata da quelle dei mia lavoranti, e molto discosto alla bottega, legata 4 con un bugigattolo d’una cameruccia di questa giovane serva; e perché molto ispesso io me la godevo; e se bene io ho auto il più leggier sonno che mai altro uomo avessi al mondo, in queste tali occasioni de l’opere della carne egli 5 alcune volte si fa gravissimo e profondo: sì come avvenne che una notte in fra l’altre, essendo istato vigilato 6 da un ladro, il quale sott’ombra 7 di dire che era orefice, aocchiando 8 quelle gioie disegnò rubarmele, per la qual cosa sconfittomi 9 la bottega, trovò assai lavoretti d’oro e d’argento; e soprastando10 a sconficcare alcune cassette per ritrovare le gioie che gli aveva vedute, quel cane ditto se gli gettava a dosso, e lui con una spada malamente da quello si difendeva: di modo che più volte il cane corse per la casa, entrato inelle camere di quei lavoranti, che erano aperte per esser di state. Da poi che quel suo gran latrare quei non volevan sentire, tirato lor le coperte da dosso, ancora non sentendo, pigliato per i bracci or l’uno or l’altro, per forza gli svegliò, e latrando con quel suo orribil modo, mostrava loro il sentiero avviandosi loro inanzi. E’ quali veduto che lor seguitare non lo volevano, venuto a questi traditori a noia, tirando al detto cane sassi e bastoni, e questo lo potevano fare, perché era di mia commessione 11 che loro tutta la notte tenessino il lume, per ultimo serrato molto ben le camere, il cane, perso la speranza de l’aiuto di questi ribaldi, da per sé solo si messe all’impresa; e corso giù, non trovato il ladro in bottega, lo raggiunse; e combattendo seco, gli aveva di già stracciata la cappa e tolta; e se non era che lui chiamò l’aiuto di certi sarti, dicendo loro che per l’amor di Dio l’aiutassino difendere12 da un cane arrabiato, questi credendo che così fussi il vero, saltati fuora iscacciorno il cane con gran fatica. Venuto il giorno, essendo iscesi13 in bottega, la vidono sconfitta e aperta, e rotto tutte le cassette. Cominciorno ad alta voce a gridare "Oimè, oimè!": onde io resentitomi, ispaventato da quei romori, mi feci fuora. Per la qual cosa fattimisi innanzi, mi dissono: "Oh sventurati a noi, che siamo stati rubati da uno che ha rotto e tolto ogni cosa!" Queste parole furno di tanta potenzia, che le non mi lasciorno andare al mio cassone a vedere se v’era drento le gioie del Papa; ma per quella cotal gelosia ismarrito quasi affatto il lume degli occhi, 14 dissi che loro medesimi aprissino il cassone, vedendo quante vi mancava di quelle gioie del Papa. Questi giovani si erano tutti in camicia; e quando di poi aperto il cassone videro tutte le gioie e l’opera d’oro insieme con esse, rallegrandosi mi dissono: "E’ non ci è mal nessuno, da poi che l’opera e le gioie son qui tutte; se bene questo ladro ci ha lasciati tutti in camicia, causa che iersera per il gran caldo noi ci spogliammo tutti in bottega, ed ivi lasciammo i nostri panni". Subito ritornatomi le virtù al suo luogo, ringraziato Idio, dissi: "Andate tutti a rivestirvi di nuovo, e io ogni cosa pagherò, intendendo più per agio il caso come gli è passato 15". Quello che più mi doleva, e che fu causa di farmi smarrire e spaventare tanto fuor della natura mia, si era che talvolta il mondo16 non avessi pensato che io avessi fatto quella finzione di quel ladro sol per rubare io le gioie; e perché a papa Clemente fu detto da un suo fidatissimo e da altri, e’ quali furno Francesco del Nero, il Zana de’ Biliotti suo computista, il vescovo di Vasona17 e molti altri simili: "Come fidate 18 voi, beatissimo Padre, tanto gran valor di gioie a un giovine, il quale è tutto fuoco, ed è più ne l’arme inmerso che ne l’arte, e non ha ancora trenta anni?" La 19 qual cosa il Papa rispose, se nessun di loro sapeva che io avessi mai fatto cose da dare loro tal sospetto. Francesco del Nero, suo tesauriere, presto rispose dicendo: "No, beatissimo Padre, perché e’ non ha auto mai una tale occasione". A questo il Papa rispose: "Io l’ho per intero uomo da bene, e se io vedessi un mal di lui, io non lo crederrei". Questo fu quello che mi dette il maggior travaglio, e che subito mi venne a memoria. Dato che io ebbi ordine a’ giovani che fussino rivestiti, presi l’opera insieme con le gioie, accomodandole meglio che io potevo a’ luoghi loro,20 e con esse me ne andai subito dal Papa, il quale da Francesco del Nero gli era stato detto parte di quei romori, che nella bottega mia s’era sentito; e subito messo sospetto al Papa. Il Papa più presto immaginato male che altro, fattomi uno guardo adosso terribile, disse con voce altiera: "Che se’ tu venuto a far qui? che c’è?" "Ècci tutte le vostre gioie e l’oro, e non manca nulla." Allora il Papa, rasserenato il viso, disse: "Così sia tu il benvenuto". Mostratogli l’opera, e inmentre che la vedeva, io gli contavo tutti gli accidenti del ladro e de’ mia affanni, e quello che m’era di maggior dispiacere. Alle qual parole molte volte si volse a guardarmi in viso fiso, e alla presenza era quel Francesco del Nero, per la qual cosa pareva che avessi mezzo per male non si essere aposto 21. All’utimo il Papa, cacciatosi a ridere di quelle tante cose che io gli avevo detto, mi disse: "Va, e attendi a essere uomo da bene, come io mi sapevo".
LIII. Sollecitando la ditta opera e lavorando continuamente per la zecca, si cominciò a vedere per Roma alcune monete false istampate con le mie proprie stampe. Subito furno portate dal Papa; e datogli sospetto di 1me, il Papa disse a Iacopo Balducci zecchiere: "Fa diligenza grandissima di trovare il malfattore, perché sappiamo che Benvenuto è uomo da bene". Questo zecchiere traditore, per esser mio nimico, disse: "Idio voglia, beatissimo Padre, che vi riesca così qual 2 voi dite: perché noi abbiamo qualche riscontro 3". A questo il Papa si volse al governatore di Roma, e disse che lui facessi un poco di diligenza di trovare questo malfattore. In questi dì il Papa mandò per me; di poi con destri4 ragionamenti entrò in su le5 monete, e bene a proposito mi disse: "Benvenuto, darebbet’egli il cuore6 di far monete false?" Alla quàl cosa io risposi che le crederrei far meglio che tutti quanti gli uomini, che a tal vil cosa attendevano: perché quelli che attendono a tal poltronerie non sono uomini che sappin guadagnare, né sono uomini di grande ingegno; e se io col mio poco ingegno guadagniavo tanto che mi avanzava, perché quando io mettevo ferri per la zecca, ogni mattina inanzi che io desinassi mi toccava guadagniare tre scudi il manco7; che così era stato sempre l’usanza del pagare i ferri delle monete, e quello sciocco del zecchiere mi voleva male, perché e’ gli arebbe voluti avere a miglior mercato; a me mi bastava assai questo che io guadagniavo con la grazia di Dio e del mondo; che a far monete false non mi sarebbe tocco a 8 guadagniar tanto. Il Papa attinse 9 benissimo le parole; e dove 10 gli aveva dato commessione che con destrezza avessin cura che io non mi partissi di Roma, disse loro che cercassino con diligenza, e di me non tenessin cura, perché non arebbe voluto isdegniarmi, qual fussi11 causa di perdermi. A chi e’ commesse12 caldamente, furno alcuni de’ chierici di Camera, e’ quali, fatto quelle debite diligenze 13, perché a lor toccava, subito lo trovorno. Questo si era uno istampatore della propia 14 zecca, che si domandava per nome Ceseri Macheroni, cittadin romano; e insieme seco fu preso uno ovolatore 15 di zecca.
LIV. In questo dì medesimo, passando io per piazza Naona 1, avendo meco quel mio bello can barbone, quando io sono giunto dinanzi alla porta del Bargello, il mio cane con grandissimo impito 2 forte latrando si getta dentro alla porta del Bargello adosso a un giovane, il quale aveva fatto così un poco sostenere 3 un certo Donnino 4, orefice, da Parma, già discepol di Caradosso, per aver auto indizio che colui l’avessi rubato. Questo mio cane faceva tanta forza di volere sbranare quel giovane, che mosso i birri a compassione, massimamente il giovane audacie difendeva bene le sue ragione, e quel Donnino non diceva tanto che bastassi 5, maggiormente 6 essendovi un di quei caporali de’ birri, ch’era genovese e conoscieva il padre di questo giovane: in modo che, fra il cane e quest’altre occasione, facevan di sorte 7 che volevan lasciar andar via quel giovane a ogni modo. Accostato che io mi fui, il cane, non cognoscendo paura né di spada né di bastoni, di nuovo gittatosi adosso a quel giovane, coloro mi dissono che se io non rimediavo 8 al mio cane, me lo ammazzerebbono. Preso il cane il meglio che io potevo, inel ritirarsi 9 il giovane in su la cappa, gli cadde certe cartuzze della capperuccia 10: per la qual cosa quel Donnino ricogniobbe esser cose sue. Ancora io vi ricogniobbi un piccolo anellino: per la qual cosa subito io dissi: "Questo è il ladro che mi sconfisse e rubò la mia bottega: però 11 il mio cane lo ricogniosce"; e lasciato il cane, di nuovo si gli gettò adosso; dove che il ladro mi si raccomandò, dicendomi che mi renderebbe quello che aveva di mio. Ripreso il cane, costui mi rese d’oro e di argento e di anelletti quel che gli aveva di mio, e venticinque scudi da vantaggio 12; di poi mi si raccomandò. Alle quali parole io dissi che si raccomandassi a Dio, perché io non gli farei né ben né male. E tornato alle mie faccende, ivi a pochi giorni quel Ceseri Macherone delle monete false fu impiccato in Banchi dinanzi alla porta della zecca; il compagno fu mandato in galea 13; il ladro genovese fu impiccato in Campo di Fiore;14 e io mi restai in maggior concetto di uomo da bene che prima non ero.
LV. Avendo presso a fine 1 l’opera mia, sopravenne quella grandissima inundazione 2, la quale traboccò d’acqua tutta Roma. Standomi a vedere quel che tal cosa faceva, essendo di già il giorno logoro3, sonava ventidua ore, e l’acque oltramodo crescievano. E perché la4mia casa e bottega el dinanzi era in Banchi e il di drieto saliva parecchi braccia, perché rispondeva 5 in verso Monte Giordano, di modo che, pensando prima alla salute della vita mia, di poi all’onore, mi missi tutte quelle gioie adosso e lasciai quell’opera d’oro 6 a quelli mia lavoranti in guardia, e così scalzo disciesi per le mie finestre di drieto, e il meglio che io potetti passai per quelle acque, tanto che io mi condussi a Monte Cavallo 7, dove io trovai misser Giovanni Gaddi cherico di Camera, e Bastiano Veniziano pittore. Accostatomi a misser Giovanni, gli detti tutte le ditte gioie, che me le salvassi; il quale tenne conto di me, come se fratello gli fussi stato. Di poi a pochi giorni, passati i furori dell’acqua, ritornai alla mia bottega, e finii la ditta opera con tanta buona fortuna, mediante la grazia de Dio e delle mie gran fatiche, che ella fu tenuta la più bella opera che mai fussi vista a Roma: di modo che, portandola al Papa, egli non si poteva saziare di lodarmela; e disse: "Se io fussi uno imperatore ricco, io donerei al mio Benvenuto tanto terreno, quanto il suo occhio scorressi; ma perché noi dal8 dì d’oggi siamo poveri imperatori falliti, ma a ogni modo gli darem tanto pane, che basterà alle sue piccole voglie". Lasciato che io ebbi finire al Papa quella sua smania9 di parole, gli chiesi un mazzieri ch’era vacato 10. Alle qual parole il Papa disse che mi voleva dar cosa di molta maggiore importanza. Risposi a sua Santità che mi dessi quella piccola, intanto, per arra 11. Cacciandosi a ridere, disse che era contento, ma che non voleva che io servissi, e che io mi convenissi 12 con li compagni mazzieri di non servire, dando loro qualche grazia, 13che già gli avevano domandato al Papa, qual era di potere con autorità riscuotere le loro entrate. Ciò fu fatto 14. Questo mazziere mi rendeva poco manco di dugento scudi l’anno di entrata.
LVI. Seguitando appresso di servire il Papa or di un piccolo lavoro or di un altro, m’inpose che io gli facessi un disegno di un calice ricchissimo: il1 quale io feci il ditto disegno e modello. Era questo modello di legno e di ciera; in luogo del bottone 2 del calice avevo fatto tre figurette di buona grandezza, tonde, le quale erano la Fede, la Speranza e la Carità; inel piede poi avevo fatto a conrispondenza tre storie in tre tondi di basso rilievo: ché inel’una era la natività di Cristo, inell’altra la resurressione di Cristo, inella terza si era san Pietro crocifisso a capo di sotto: ché così mi fu commesso che io facessi. Tirando inanzi questa ditta opera, il Papa molto ispesso la voleva vedere: in modo che, avvedutomi che sua Santità non s’era poi mai più ricordato di darmi nulla, essendo vacato un frate del Piombo 3, una sera io gnene chiesi. Al buon Papa non sovvenendo più di quella ismania che gli aveva usato in quella fine di quella altra opera, mi disse: "L’ufizio del Piombo rende più di ottocento scudi, di modo che se io te lo dessi, tu ti attenderesti a grattare il corpo 4, e quella bell’arte che tu hai alle mane si perderebbe, e io ne arei biasimo". Subito risposi che le gatte di buona sorte 5 meglio uccellano 6 per grassezza che per fame: "Così quella sorte degli uomini dabbene che sono inclinati alle virtù, molto meglio le mettono in opera quando egli 7 hanno abundantissimamente da vivere: di modo che quei principi che tengono abundantissimi questi cotali uomini, sappi vostra Santità che eglino annaffiano 8 le virtù: così per il contrario le virtù nascono ismunte e rogniose9; e sappi vostra Santità che io non lo chiesi con intenzione di averlo. Pur beato che io ebbi quel povero mazziere! Di questo tanto m’inmaginavo. Vostra Santità farà bene, non l’avendo voluto dar a me, a darlo a qualche virtuoso che lo meriti, e non a qualche ignorantone che si attenda a grattare il corpo, come disse vostra Santità. Pigliate esemplo dalla buona memoria di papa Iulio 10, che un tale ufizio dette a Bramante, eccellentissimo architettore11". Subito fattogli reverenza, infuriato mi parti’. Fattosi innanzi Bastiano Veniziano, pittore, disse: "Beatissimo padre, vostra Santità sia contenta di darlo a qualcuno che si affatica ne l’opere virtuose; e perché, come sa vostra Santità, ancora12 io volentieri mi affatico in esse, la priego che me ne faccia degnio". Rispose il Papa: "Questo diavolo di Benvenuto non ascolta le riprensioni. Io ero disposto a dargniene, ma e’ none13 sta bene essere così superbo con un Papa: pertanto io non so quel che io mi farò". Subito fattosi innanzi il vescovo di Vasona14,pregò per il ditto Bastiano, dicendo: "Beatissimo padre, Benvenuto è giovane e molto meglio gli sta la spada accanto che la vesta da frati: vostra Santità sia contenta di darlo a questo virtuoso uomo di Bastiano; e a Benvenuto talvolta 15 potrete dare qualche cosa buona, la quale forse sarà più a proposito16 che questa". Allora il Papa, voltosi a messer Bartolomeo Valori, gli disse: "Come voi scontrate 17 Benvenuto, ditegli da mia parte che lui stesso ha fatto avere il Piombo a Bastiano dipintore; e che stia avvertito 18 che la prima cosa migliore che vaca 19, sarà la sua; e che intanto attenda a far bene, e finisca l’opere mie". L’altra sera seguente a dua ore di notte, scontrandomi in messer Bartolomeo Valori in sul cantone della zecca: lui aveva due torcie innanzi e andava in furia, domandato 20 dal Papa; faccendogli riverenza, si fermò e chiamommi, e mi disse con grandissima affezione tutto quello che gli aveva ditto il Papa che mi dicessi. Alle qual parole io risposi che con maggiore diligenzia e istudio finirei l’opera mia, che21nessuna mai de l’altre; ma sì bene senza punto di 22 speranza d’avere nulla mai dal Papa. Il detto misser Bartolomeo ripresemi, dicendomi che così non si doveva rispondere a le offerte d’un Papa. A cui io dissi che ponendo isperanza a tal parole, saputo che io non l’arei a ogni modo, pazzo sarei a rispondere altrimenti; e partitomi, me ne andai a ’ttendere alle mie faccende. Il ditto messer Bartolomeo dovette ridire al Papa le mie ardite parole, e forse più che io non dissi, di modo che il Papa stette più di dua mesi a23 chiamarmi, e io in questo tempo non volsi mai andare al palazzo per nulla. Il Papa, che di tale opera si struggeva, commesse a messer Ruberto Pucci che attendessi 24 un poco a quel che io facevo. Questo omaccion da bene ogni dì mi veniva a vedere, e sempre mi diceva qualche amorevol parola, ed io a lui. Appressandosi il Papa a voler partirsi per andare a Bologna 25, a l’utimo 26 poi, veduto che da per me 27 io non vi andavo, mi fece intendere dal 28 ditto misser Ruberto che io portassi sù l’opera mia, perché voleva vedere come io l’avevo innanzi 29. Per la qual cosa io la portai, mostrando detta opera esser fatto tutta la inportanza 30, e lo pregavo che mi lasciassi cinquecento scudi, parte a buon conto, e parte31 mi mancava assai bene 32 de l’oro da poter finire detta opera. Il Papa mi disse: "Attendi, attendi a finirla". Risposi, partendomi, che io la finirei, se mi lasciava danari. Così me ne andai.
LVII. Il Papa andato alla volta di Bologna lasciò il cardinale Salviati Legato1 di Roma, e lasciògli commessione che mi sollecitassi questa ditta opera, e li disse: "Benvenuto è persona che stima poco la sua virtù, e manco noi 2: sì che vedete di sollecitarlo, in modo che io la truovi finita". Questo Cardinal bestia mandò per me in capo di otto dì, dicendomi che io portassi sù l’opera; a il quale io andai a lui senza l’opera. Giunto che io fui, questo Cardinale subito mi disse: "Dov’è questa tua cipollata 3? ha’la tu finita?" Al quale io risposi: "O Monsignor reverendissimo, io la mia cipollata non ho finita, e non la finirò, se voi non mi date delle cipolle da finirla". A queste parole il ditto Cardinale, che aveva più viso di asino che di uomo, divenne più brutto la metà 4; e venuto al primo a mezza spada 5, disse: "Io ti metterò in una galea, e poi arai di grazia di6 finir l’opera". Ancora io con questa bestia entrai in bestia, e gli dissi: "Monsignore, quando io farò peccati che meritino la galea, allora voi mi vi metterete; ma per questi peccati io non ho paura di vostra galea; e di più vi dico, a causa di vostra Signoria, io non la 7 voglio mai più finire; e non mandate mai più per me, perché io non vi verrò mai più inanzi, se già voi non mi facessi venir co’ birri". Il buon Cardinale provò alcune volte amorevolmente a farmi intendere che io doverrei lavorare e che i’ gniene doverrei portare a mostrare: in modo che a quei tali 8 io dicevo: "Dite a Monsigniore che mi mandi delle cipolle, se vuol che io finisca la cipollata"; né mai gli risposi altre parole: di sorte 9 che lui si tolse da questa disperata cura 10.
LVIII. Tornò il Papa da Bologna 1, e subito domandò di me, perché quel Cardinale di già gli aveva scritto il peggio che poteva de’ casi mia. Essendo il Papa inel maggior furore che inmaginar si possa, mi fece intendere che io andassi con l’opera. Così feci. In questo tempo che il Papa stette a Bologna, mi si scoperse una scesa 2 con tanto affanno agli occhi, che per il dolore io non potevo quasi vivere, in modo che questa fu la prima causa che io non tirai 3 innanzi l’opera; e fu sì grande il male, che io pensai certissimo rimaner cieco: di modo che io avevo fatto il mio conto, quel che mi bastassi a vivere cieco. Mentre che io andavo al Papa, pensavo il modo che io avevo a tenere a far la mia scusa di non aver potuto tirare innanzi l’opera. Pensavo che in quel mentre che il Papa la vedeva e considerava, poterli dire i fatti: la qual cosa non mi venne fatta 4, perché giunto da lui, subito con parole villane disse: "Dà qua quell’opera: è ella finita?" Io la scopersi 5; subito con maggior furore disse: "In verità de Dio dico a te, che fai professione di non tener conto di persona 6, che se e’ non fussi per onor di mondo 7, io ti farei insieme con quell’opera gittar da terra 8 quelle finestre ’". Per la qual cosa, veduto io il Papa diventato così pessima bestia, sollecitavo 9 di levarmigli dinanzi. In mentre che lui continuava di bravare 10, messami l’opera sotto la cappa, borbottando dissi: "Tutto il mondo non farebbe 11 che un cieco fussi tenuto a lavorare opere cotali". Maggiormente alzato la voce, il Papa disse: "Vien qua: che dì tu?" Io stetti infra dua 12 di cacciarmi a correre giù per quelle scale 13; di poi mi risolsi, e gettatomi in ginocchioni, gridando fortė, perché lui non cessava di gridare, dissi: "E se io sono per una infirmità divenuto cieco, sono io tenuto a lavorare?" A questo e’ disse: "Tu hai pur veduto lume 14 a venir qui, né credo che sia vero nessuna di queste cose che tu dí". Al quale io dissi, sentendogli alquanto abbassar la voce: "Vostra Santità ne dimandi il suo medico, e troverrà il vero". Disse: "Più all’agio 15 intenderemo se la sta come tu di". Allora, vedutomi prestare audienza, dissi: "Io non credo che di questo mio gran male ne sia causa altri che il cardinal Salviati, perché e’ mandò per me subito che vostra Santità fu partito, e giunto a lui, pose alla mia opera nome una cipollata, e mi disse che me la farebbe finire in una galea; e fu tanto la potenzia di quelle inoneste 16 parole, che per la estrema passione 17 subito mi senti’ infiammare il viso, e vennemi inegli occhi un calore tanto ismisurato, che io non trovavo la via a tornarmene a casa; di poi a pochi giorni mi cadde dua cataratti 18 in su gli occhi: per la qual cosa io non vedevo punto di lume, e da poi la partita 19 di vostra Santità io non ho mai potuto lavorare nulla". Rizzatomi di ginocchioni, mi andai con Dio; e mi fu ridetto che il Papa disse: "Se e’ si dà gli ufizi 20, non si può dare la discrezione con essi. Io non dissi al Cardinale che mettessi tanta mazza 21: ché se gli è il vero che abbia male inegli occhi, quale intenderò 22 dal mio medico, sarebbe da ’vergli 23 qualche compassione". Era quivi alla presenza un gran gentiluomo molto amico del Papa e molto virtuosissimo. Domandatogli24 il Papa che persona io ero, dicendo: "Beatissimo Padre, io ve ne domando, perché m’è parso che voi siete venuto in un tempo medesimo nella maggior collora che io vedessi mai, e inella maggiore compassione: sì che per questo io domando vostra Santità chi egli è; ché se gli è persona che meriti essere aiutato, io gli insegnerei un segreto da farlo guarire di quella infermità", a queste parole disse il Papa: "Quello è il maggiore uomo che nascessi mai della sua professione; e un giorno che noi siamo insieme vi farò vedere delle maravigliose opere sue, e lui con esse; e mi sarà piacere 25 che si vegga se si gli può fare qualche benifizio". Di poi tre giorni il Papa mandò per me un dì doppo desinare, ed eraci questo gentiluomo alla presenza. Subito che io fui giunto, el Papa si fece portare quel mio bottone del piviale. In questo mezzo io avevo cavato fuora quel mio calice: per la qual cosa quel gentiluomo diceva di non aver mai visto un’opera tanto maravigliosa. Sopraggiunto il bottone, gli accrebbe molto più maraviglia; guardatomi in viso disse: "Gli è pur giovane a saper tanto, ancora molto atto a ’cquistare 26". Di poi me domandò del mio nome. Al quale io dissi: "Benvenuto è il mio nome". Rispose: "Benvenuto sarò io questa volta per te: piglia de’ fioralisi con il gambo, col fiore e con la barba 27 tutto insieme, di poi gli fa’ stillare con gentil fuoco,28e con quell’acqua ti bagna gli occhi parecchi volte il dì, e certissimamente guarrai 29 di cotesta infirmità; ma fatti prima purgare, e poi continua la detta acqua". Il Papa mi usò qualche amorevol parola: così me ne andai mezzo contento.
LIX. La infirmità gli era il vero che io l’avevo, ma credo che io l’avessi guadagniata mediante quella bella giovane serva che io tenevo nel tempo che io fui rubato 1. Soprastette quel morbo gallico a scoprirmisi più di quattro mesi interi, di poi mi coperse tutto tutto a un tratto: non era inel modo de l’altro 2 che si vede, ma pareva che io fussi coperto di certe vescichette, grandi come quattrini, rosse. I medici non mel volson mai battezzare 3 mal franzese; e io pure dicevo 4 le cause che credevo che fussi. Continuavo di medicarmi a lor modo, e nulla mi giovava; pur poi a l’ultimo, risoltomi a pigliare il legnio 5 contra la voglia di quelli primi medici di Roma, questo legnio io lo pigliavo con tutta la disciplina e astinenzia che inmaginar si possa, e in brevi giorni senti’ grandissimo miglioramento: a tale che in capo a cinquanta giorni io fui guarito e sano come un pescie. Da poi, per dare qualche ristoro a quella gran fatica che io avevo durato 6, entrando inel inverno, presi per mio piacere la caccia dello scoppietto, la quale mi induceva a andare a l’acqua e al vento, e star pe’ pantani: a tale che in brevi giorni mi tornò l’un cento 7 maggior male di quel che io avevo prima. Rimessomi nelle man de’ medici, continuamente medicandomi, sempre peggioravo. Saltatomi la febbre adosso, io mi disposi di ripigliare il legno: gli medici non volevano, dicendomi che se io vi entravo con8 la febbre, in otto dì morrei. Io mi disposi di far contro la voglia loro; e tenendo i medesimi ordini 9 che all’altra volta fatto avevo, beuto che io ebbi quattro giornate di questa santa acqua de il legno, la febbre se ne andò afatto 10. Cominciai a pigliare grandissimo miglioramento, e in questo che 11io pigliavo il detto legno sempre tiravo inanzi i modelli di quella opera; e’ quali in cotesta astinenzia io feci le più belle cose e le più rare invenzione che mai facessi alla vita mia. In capo di cinquanta giorni io fui benissimo guarito, e di poi con grandissima diligenzia io mi attesi a ’ssicurare la sanità adosso 12. Di poi che io fui sortito di quel gran digiuno, mi trovai in modo netto 13 dalle mie infirmità, come se rinato io fussi. Se bene io mi pigliavo piacere ne l’assicurare quella mia desiderata sanità, non mancavo ancora 14 di lavorare: tanto che inel’opera detta e inella zecca, ad ogniona 15 di loro certissimo davo la parte del suo dovere.16
LX. Abbattessi ad essere 1 fatto Legato di Parma quel ditto cardinale Salviati, il quale aveva meco quel grande odio sopraditto. In Parma fu preso un certo orefice milanese falsatore di monete, il quali per nome si domandava Tobbia 2. Essendo giudicato 3 alla forca e al fuoco, ne fu parlato al ditto Legato, messogli innanzi 4 per gran valente uomo. Il ditto Cardinale fece sopratenere la eseguizione della giustizia 5, e scrisse a papa Clemente, dicendogli essergli capitato in nelle mane uno uomo il maggiore del mondo della professione de l’oreficeria, e che di già gli era condennato alle forche e al fuoco, per essere lui falsario di monete; ma che questo uomo era simplice e buono, perché diceva averne chiesto parere da 6 un suo confessoro, il quale diceva che gnene aveva dato licenzia che le 7 potessi fare. Di più diceva: "Se voi fate venire questo grande uomo a Roma, vostra Santità sarà causa di abbassare quella grande alterigia del vostro Benvenuto, e sono certissimo che le opere di questo Tobbia vi piaceranno molto più che quelle di Benvenuto". Di modo che il Papa lo fece venire subito a Roma. E poi che fu venuto, chiamatici tutti a dua, ci fece fare un disegno per uno a un corno di liocorno 8, il più bello che mai fusse veduto: si era venduto diciassette mila ducati di Camera. Volendolo il Papa donare a il re Francesco 9, lo volse in prima guarnire riccamente d’oro, e commesse a tutti a dua noi che facessimo i detti disegni. Fatti che noi gli avemmo, ciascun di noi il portò al Papa. Era il disegno di Tubbia a foggia di un candegliere, dove, a guisa della candela, si imboccava quel bel corno, e del piede di questo ditto candegliere faceva quattro testoline di liocorno con semplicissima 10 invenzione: tanto che quando tal cosa io vidi, non mi potetti tenere che in un destro 11 modo io non sogghignassi. Il Papa s’avvide e subito disse: "Mostra qua il tuo disegno"; il quale era una sola testa di liocorno, a conrispondenza di quel ditto corno. Avevo fatto la più bella sorte di testa che veder si possa: il perché si era che io avevo preso parte della fazione 12 della testa del cavallo e parte di quella del cervio 13, arricchita con la più bella sorte di velli 14 e altre galanterie 15, tale che, subito che la mia si vide, ogniuno gli dette il vanto. Ma perché alla presenza di questa disputa era certi milanesi di grandissima autorità, questi dissono: "Beatissimo Padre, vostra Santità manda a donare questo gran presente in Francia: sappiate che i Franciosi sono uomini grossi 16, e non cognosceranno l’eccellenzia di questa opera di Benvenuto; ma sì bene piacerà loro questi ciborii 17, li quali ancora saranno fatti più presto; e Benvenuto vi attenderà a finire il vostro calice, e verravi fatto 18 dua opere in un medesimo tempo; e questo povero uomo, che voi avete fatto venire, verrà ancora 19 lui ad essere adoperato". Il Papa, desideroso di avere il suo calice, molto volentieri s’appiccò 20 al consiglio di quei milanesi: così l’altro giorno 21 dispose 22 quella opera a Tubbia di quel corno di liocorno, e a mė fece intendere per il suo guardaroba 23 che io dovessi finirgli il suo calice. Alle qual parole io risposi che non desideravo altro al mondo che finire quella mia bella opera; ma che se la fussi d’altra materia che d’oro, io facilissimamente da per me 24 la potrei finire; ma per essere a quel modo d’oro, bisogniava che sua Santità me ne dessi 25, volendo che io la potessi finire. A queste parole questo cortigiano plebeo disse: "Oimè, non chiedere oro al Papa, che tu lo farai venire in tanta còllora, che guai, guai a te". Al quale io dissi: "O misser voi, la Signoria vostra, insegnatemi un poco come sanza farina si può fare il pane? così sanza oro mai si finirà quell’opera". Questo guardaroba mi disse, parendogli alquanto che io lo avessi uccellato 26, che tutto quello che io avevo ditto riferirebbe al Papa; e così fece. Il Papa, entrato in un bestial furore, disse che voleva stare a vedere se io ero un così pazzo che io non la finissi. Così si stette dua mesi passati e se bene io avevo detto di non vi voler dar sù colpo 27, questo non avevo fatto, anzi continuamente io avevo lavorato con grandissimo amore. Veduto che io non la portavo, mi cominciò a disfavorire assai 28, dicendo che mi gastigherebbe a ogni modo. Era alla presenza di29 queste parole uno milanese suo gioielliere. Questo si domandava Pompeo, il quale era parente stretto di un certo misser Traiano30, il più favorito servitore che avessi papa Clemente. Questi dua d’accordo dissono al Papa: "Se vostra Santità gli togliessi la zecca, forse voi gli faresti venir voglia di finire il calice". Allora il Papa disse: "Anzi sarebbon dua mali: l’uno, che io sarei mal servito della zecca che m’inporta tanto; e l’altro, che certissimo io non arei mai il calice". Questi dua detti milanesi, veduto il Papa mal volto 31 inverso di me, a l’utimo possetton 32 tanto che pure mi tolse la zecca, e la dette a un certo giovane perugino 33, il quale si domandava Fagiuolo per soprannome. Venne quel Pompeo a dirmi da parte del Papa come sua Santità mi aveva tolto la zecca, e che se io non finivo il calice mi torrebbe de l’altre cose 34. A questo io risposi: "Dite a sua Santità che la zecca e’ l’ha tolta a sé e non a me, e quel medesimo gli verrebbe fatto di quell’altre cose; e che quando sua Santità me la vorrà rendere, io in modo nessuno non la rivorrò". Questo isgraziato e sventurato gli parve mill’anni di giugnere dal Papa per ridirgli tutte queste cose, e qualcosa vi messe di suo di bocca.35Ivi a otto giorni mandò il Papa per questo medesimo uomo dirmi che non voleva più che io gli finissi quel calice, e che lo rivoleva appunto in quel modo e a quel termine 36 che io l’avevo condotto. A questo Pompeo io risposi: "Questa non è come la zecca, che me la possa torre; ma sì ben e’ cinquecento scudi, che io ebbi sono di sua Santità, i quali subito gli renderò; e l’opera è mia, e ne farò quanto m’è di piacere". Tanto corse a riferir Pompeo, con qualche altra mordace parola, che a lui stesso con giusta causa 37 io avevo detto.
LXI. Di poi tre giorni apresso, un giovedì, venne a me dua Camerieri di sua Santità favoritissimi, che ancora oggi n’è vivo uno di quelli, ch’è vescovo, il quale si domandava misser Pier Giovanni, ed era guardaroba 1 di sua Santità; l’altro si era ancora di maggior ligniaggio di questo, ma non mi sovviene il nome. Giunti a me mi dissono così: "Il Papa ci manda, Benvenuto: da poi che tu non l’hai voluta intendere per la via più agevole, dice o che tu ci dia l’opera sua, o che noi ti meniamo prigione". Allora io li guardai in viso lietissimamente, dicendo: "Signori, se io dessi l’opera a sua Santità, io darei l’opera mia e non la sua; e per tanto l’opera mia io non gnene vo’ dare: perché avendola condotta molto innanzi con le mia gran fatiche, non voglio che la vada in mano di qualche bestia ignorante, che con poca fatica me la guasti". Era alla presenza, quando io dicevo questo, quell’orefice chiamato Tobbia ditto di sopra, il quale temerariamente mi chiedeva ancora 2 i modelli di essa opera: le parole, degne di un tale sciagurato, che io gli dissi, qui non accade 3 riplicarle. E perché quelli signori Camerieri mi sollecitavano che io mi spedissi 4 di quel che io volevo fare, dissi a loro che ero spedito: preso la cappa, e innanzi che io uscissi della mia bottega, mi volsi a una inmagine di Cristo con gran riverenza e con la berretta in mano, e dissi: "O benigno e immortale, giusto e santo Signor nostro, tutte le cose che tu fai sono secondo la tua giustizia, quale5 è sanza pari: tu sai che appunto io arrivo all’età de’ trenta anni della vita mia, né mai insino a qui mi fu promesso carcere per cosa alcuna: da poi che ora tu ti contenti 6 che io vadia 7 al carcere, con tutto il cuor mio te ne ringrazio". Di poi voltomi ai dua Camerieri, dissi così con un certo mio viso alquanto rabbuffato: "Non meritava un par mio birri di manco valore che voi Signori: sì che mettetemi in mezzo, e come prigioniero mi menate dove voi volete". Quelli dua gentilissimi uomini, cacciatisi a ridere, mi messono in mezzo, e sempre piacevolmente ragionando mi condussono dal Governatore di Roma, il quale era chiamato il Magalotto 8. Giunto a lui, insieme con esso si era il Procurator fiscale 9, li quali mi attendevano, quelli signor Camerieri ridendo pure dissono 10 al Governatore: "Noi vi consegniamo questo prigione 11, e tenetene buona cura. Ci siamo rallegrati assai che noi abbiamo tolto l’uffizio alli vostri secutori 12: perché Benvenuto ci ha detto che essendo questa la prima cattura sua, non meritava birri di manco valore che noi ci siamo". Subito partitisi giunsono al Papa; e dettogli precisamente ogni cosa, in prima fece segno di voler entrare in furia, appresso si sforzò di ridere, per essere alla presenza alcuni Signori e Cardinali amici mia, li quali grandemente mi favorivano. Intanto il Governatore ed il Fiscale parte mi bravavano, parte mi esortavano, parte mi consigliavano, dicendomi che la ragione voleva, che uno che fa fare una opera a un altro, la può ripigliare a sua posta 13, e in tutti i modi che a lui piace. Alle quali cose io dissi che questo non lo prometteva 14 la giustizia, né un papa non lo poteva fare: perché e’ non era un papa di quella sorte che sono certi signoretti tirannelli, che fanno a’ lor popoli il peggio che possono, non osservando né legge né giustizia: però un vicario di Cristo non può far nessuna di queste cose. Allora il Governatore con certi sua birreschi 15atti e parole disse: "Benvenuto, Benvenuto, tu vai cercando che io ti faccia quel che tu meriti". "Voi mi farete onore e cortesia, volendomi fare quel che io merito." Di nuovo disse: "Manda per l’opera subito, e fa di non aspettar la siconda16parola". A questo io dissi: "Signori, fatemi grazia che io dica ancora quattro parole sopra le mie ragione". Il Fiscale, che era molto più discreto birro che non era il Governatore, si volse a il Governatore, e disse: "Monsigniore, facciangli grazia di cento delle parole; pur che dia l’opera, assai ci basta". Io dissi: "Se e’ fussi qualsivoglia sorte di uomo che facessi murare 17 un palazzo o una casa, giustamente potrebbe dire a il maestro che la murassi: ‘Io non voglio che tu lavori più in su la mia casa o in su ’l mio palazzo’: pagandogli le sue fatiche giustamente ne lo può mandare.18 Ancora se fussi un signore che facessi legare una gioia di mille scudi, veduto che il gioielliere non lo servissi sicondo la voglia sua, può dire: ’Dammi la mia gioia perché io non voglio l’opera tua’. Ma a questa cotal cosa non c’è nessuno di questi capi 19: perché la non è né una casa, né una gioia; altro non mi si può dire, se non che io renda e’ cinquecento scudi che io ho auti. Sì che, Monsignori, fate tutto quel che voi potete, ché altro non arete da me, che e’ cinquecento scudi. Così direte al Papa. Le vostre minaccie non mi fanno una paura al mondo: perché io sono uomo da bene, e non ho paura de’ mia peccati". Rizzatosi 20 il Governatore e il Fiscale, mi dissono che andavano dal Papa e che tornerebbono con commessione 21, che guai a me. Così restai guardato 22. Mi passeggiavo per un salotto; e gli stettono presso a tre ore a tornare dal Papa. In questo mezzo mi venne a visitare tutta la nobiltà della nazion nostra di mercanti, 23pregandomi strettamente che io non la24volessi stare a disputare con un Papa, perché potrebbe essere la rovina mia. Ai quali io risposi che m’ero risoluto benissimo di quel che io volevo fare.
LXII. Subito che il Governatore insieme col Fiscale furono tornati da Palazzo, fattomi chiamare, disse in questo tenore: "Benvenuto, certamente e’ mi sa male 1 d’esser tornato dal Papa con una commessione tale, quale io ho: sì che o tu truova l’opera subito, o tu pensa a’ fatti tua". Allora io risposi che, da poi che io non avevo mai creduto insino a quell’ora che un santo Vicario di Cristo potessi fare un’ingiustizia, "però io lo voglio vedere prima che io lo creda: sì che fate quel che voi potete". Ancora il Governatore replicò, dicendo: "Io t’ho da dire dua altre parole da parte del Papa, dipoi seguirò la commessione datami. Il Papa dice che tu mi porti qui l’opera, e che io la vegga’ mettere in una scatola e suggellare; di poi io l’ho a portare al Papa, il quale promette per la fede sua di non la muovere dal suo suggello chiusa, e subito te la renderà; ma questo e’ vuol che si faccia così per averci anch’egli la parte dell’onor suo 2". A queste parole io ridendo risposi che molto volentieri gli darei l’opera mia in quel modo che diceva, perché io volevo saper ragionare 3 come era fatta la fede di un papa. E così mandato per l’opera mia, suggellata in quel modo che e’ disse, gliene 4 detti. Ritornato il Governatore dal Papa con la ditta opera inel modo ditto, presa la scatola il Papa, sicondo che mi riferì il Governatore ditto, la volse parecchi volte; dipoi domandò il Governatore se l’aveva veduta; il qual disse che l’aveva veduta e che in sua presenza in quel modo s’era suggellata; di poi aggiunse che la gli era paruta 5 cosa molto mirabile. Per la qual cosa il Papa disse: "Direte a Benvenuto che i papi hanno autorità di sciorre e legare molto maggior cosa di questa 6"; e in mentre che diceva queste parole, con qualche poco di sdegno aperse la scatola, levando le corde e il suggello con che l’era legata; dipoi la guardò assai, e per quanto io ritrassi 7, e’ la mostr ò a quel Tubbia orefice, il quale molto la lodò. Allora il Papa lo domandò se gli bastava la vista 8 di fare una opera a quel modo 9... il Papa gli disse che lui seguitassi quell’ordine apunto 10; di poi si volse al Governatore e gli disse: "Vedete se Benvenuto ce la vuol dare; che dandocela così, se gli 11 paghi tutto quel che l’è stimata da valenti uomini; o sì veramente, volendocela finir lui, pigli un termine; e se voi vedete che la voglia fare, diesigli 12 quelle comodità che lui domanda giuste". Allora il Governatore disse: "Beatissimo Padre, io che cogniosco la terribil qualità di quel giovane, datemi autorità che io glie ne possa dare una sbarbazzata 13 a mio modo". A questo il Papa disse che facessi quel che volessi con le parole, benché gli era certo che e’ farebbe il peggio; di poi quando e’ vedessi di non poter fare altro, mi dicessi che io portassi li sua cinquecento scudi a quel Pompeo suo gioielliere sopraditto. Tornato il Governatore, fattomi chiamare in camera sua, e con un birresco sguardo, mi disse: "E’ papi hanno autorità di sciorre e legare tutto il mondo, e tanto 14 subito si afferma in Cielo per ben fatto: eccoti là la tua opera sciolta e veduta da sua Santità". Allora subito io alzai la voce e dissi: "Io ringrazio Idio, che io ora so ragionare com’è fatta la fede de’ papi". Allora il Governatore mi disse e fece molte sbardellate braverie 15; e da poi veduto che lui dava in nonnulla 16, affatto disperatosi dalla impresa, riprese alquanto la maniera più dolce, e mi disse: "Benvenuto, assai m’increscie che tu non vuoi intendere il tuo bene: però 17 va, porta i cinquecento scudi, quando tu vuoi, a Pompeo sopra ditto". Preso la mia opera, me ne andai, e subito portai li cinquecento scudi a quel Pompeo. E perché talvolta 18 il Papa, pensando che per incomodità o per qualche altra occasione19 io non dovessi così presto portare i dinari, desideroso di rattaccare il filo della servitù mia; quando e’ vedde che Pompeo gli giunse innanzi sorridendo con li dinari in mano, il Papa gli disse villania, e si condolse assai che tal cosa fussi seguita 20 in quel modo; di poi gli disse: "Va, truova Benvenuto a bottega sua, e fagli più carezze che può la tua ignorante bestialità, e digli che se mi vuol finire quell’opera per farne un reliquiere per portarvi drento il Corpus Domini, quando io vo con esso a pricissione 21, che io gli darò le comodità che vorrà a finirlo; purché egli lavori". Venuto Pompeo a me, mi chiamò fuor di bottega, e mi fece le più isvenevole carezze d’asino, dicendomi tutto quel che gli aveva commesso il Papa. Al quale io risposi subito che il maggior tesoro che io potessi desiderare al mondo, si era l’aver riauto la grazia d’un così gran Papa, la quale si era smarrita da me, e non per mio di- 22 fetto, ma sì bene per difetto della mia smisurata infirmità,22 e per la cattività 23 di quelli uomini invidiosi che hanno piacere di commetter male24; "e perché il Papa ha ’bundanzia 25 di servitori, non mi mandi più voi intorno, per la salute vostra: ché badate bene al fatto vostro. Io non mancherò mai né dì né notte di pensare e fare tutto quello che io potrò in servizio del Papa; e ricordatevi bene, che detto che voi avete questo al Papa di me, in modo nessuno non vi intervenire 26 in nulla de’ casi mia, perché io vi farò cognioscere gli errori vostri con la penitenzia che meritano". Questo uomo riferì ugni 27 cosa al Papa in molto più bestial modo che io non gli aveva porto 28. Così si stette la cosa un pezzo, e io m’attendevo alla mia bottega e mie faccende.
LXIII. Quel Tubbia orefice sopra ditto attendeva a finire quella guarnitura e ornamento a quel corno di liocorno; e di più 1 il Papa gli aveva detto che cominciassi il calice in su quel modo che gli aveva veduto il mio.2 E cominciatosi a farsi mostrare dal ditto Tubbia quel che lui faceva, trovatosi mal sodisfatto, assai si doleva di aver rotto con esso meco, e biasimava l’opere di colui, e chi gnene aveva messe inanzi, e parecchi volte mi venne a parlare Baccino della Croce da parte del Papa, che io dovessi fare quel reliquiere. Al quale io dicevo che io pregavo sua Santità, che mi lasciassi riposare della grande infirmità che io avevo auto, della quale io non ero ancor ben sicuro 3; ma che io mostrerrei a sua Santità, di quelle ore ch’io potevo operare, che tutte le spenderei in servizio suo. Io m’ero messo a ritrarlo, e gli facevo una medaglia segretamente; e quelle stampe di acciaio per istampar detta medaglia, me le facevo in casa; e alla mia bottega tenevo un compagno che era stato mio garzone, il qual si domandava Felice 4. In questo tempo, sì come fanno i giovani, m’ero innamorato d’una fanciulletta siciliana, la quale era bellissima; e perché ancor lei dimostrava volermi gran bene, la madre sua accortasi di tal cosa, sospettando di quello che gli poteva intervenire5: questo si era che io avevo ordinato6 per un anno fuggirmi con detta fanciulla a Firenze, segretissimamente dalla madre: accortasi lei di tal cosa, una notte segretamente si partì di Roma e andossene alla volta di Napoli; e dette nome7 d’esser ita da Civitavecchia, e andò da8 ostina. Io l’andai drieto a Civitavecchia, e feci pazzie inistimabile per ritrovarla. Sarebbon troppo lunghe a dir tal cose per l’apunto: 9 basta che io stetti in procinto o d’inpazzare o di morire. In capo di dua mesi lei mi scrisse che si trovava in Sicilia molto mal contenta. In questo tempo io avevo atteso a tutti i piaceri che inmaginar si possa, e avevo preso altro amore, solo per istigner 10 quello.
LXIV. Mi accadde per certe diverse stravaganze, che io presi amicizia di 1 un certo prete siciliano, il quale era di elevatissimo ingegno e aveva assai buone lettere latine e grecie2. Venuto una volta in un3 proposito d’un ragionamento, in el quale s’intervenne a parlare dell’arte della negromanzia 4, alla qual cosa io dissi: "Grandissimo desiderio ho avuto tutto il tempo della vita mia di vedere o sentire qualche cosa di quest’arte". Alle qual parole il prete aggiunse: "Forte animo e sicuro bisogna che sia di quel uomo che si mette a tale impresa". Io risposi che della fortezza e della sicurtà dell’animo me ne avanzerebbe, pur che i’ trovassi modo a far tal cosa. Allora rispose il prete: "Se di cotesto ti basta la vista5, di tutto il resto io te ne satollerò6". Così fummo d’acordo di dar principio a tale impresa. Il detto prete una sera in fra l’altre si messe in ordine7, e mi disse che io trovassi un compagno insino in dua8. Io chiamai Vincenzio Romoli mio amicissimo, e lui menò seco un pistolese,9 il quale attendeva ancora lui alla negromanzia. Andaticene al Culiseo10, quivi paratosi il prete a uso 11 di negromante, si misse a disegnare i circuli 12 in terra con le più belle cirimonie che inmaginar si possa al mondo; e ci aveva fatto portare profummi prezioso13 e fuoco, ancora 14 profummi cattivi. Come e’ fu in ordine, fece la porta 15 al circulo; e presoci per mano, a uno a uno ci messe drento al circulo; di poi conpartì gli uffizii:16 dette il pintàculo 17 in mano a quell’altro suo compagno negromante, agli altri dette la cura del fuoco per e’ profummi; poi messe mano agli18 scongiuri. Durò questa cosa più d’una ora e mezzo; comparse parecchi legione19, di modo che il Culiseo era tutto pieno. Io che attendevo ai profummi preziosi, quando il prete cognobbe esservi tanta quantità,20 si volse a me e disse: "Benvenuto, dimanda lor qualcosa". Io dissi che facessino che io fussi con la mia Angelica siciliana. Per quella notte noi non avemmo risposta nessuna; ma io ebbi bene grandissima satisfazione di quel che io desideravo di tal cosa. Disse il negromante che bisogniava che noi ci andassimo un’altra volta, e che io sarei satisfatto di tutto quello che io domandavo, ma che voleva che io menassi meco un fanciulletto vergine. Presi un mio fattorino21, il quale era di dodici anni in circa, e meco di nuovo chiamai quel ditto Vincenzio Romoli; e, per essere nostro domestico compagno un certo Agniolino Gaddi, ancora lui menammo a questa faccenda. Arrivati di nuovo a il luogo deputato22, fatto il negromante le sue medesime preparazione con quel medesimo e più ancora maraviglioso ordine, ci misse inel circulo, qual di nuovo aveva fatto con più mirabile arte e più mirabil cerimonie; di poi a quel mio Vincenzio diede la cura de’ profummi e del fuoco; insieme23 la prese il detto Agniolino Gaddi; di poi a me pose in mano il pintàculo, qual mi disse che io lo voltassi sicondo e’ luoghi dove lui m’accennava, e sotto il pintàculo tenevo quel fanciullino mio fattore. Cominciato il negromante a fare quelle terrebilissime invocazioni, chiamato per nome una gran quantità di quei demonii capi di quelle legioni, e a quelli comandava per la virtù e potenzia di Dio increato 24, vivente ed eterno, in voce25 ebree, assai ancora greche e latine: in modo che in breve di spazio si empié tutto il Culiseo l’un cento 26 più di quello che avevan fatto quella prima volta. Vincenzio Romoli attendeva a fare fuoco insieme con quell’Agniolino detto, e molta quantità di profummi preziosi. Io per consiglio del negromante di nuovo domandai potere essere con Angelica. Voltosi il negromante a me, mi disse: "Senti che gli hanno detto? Che in ispazio di un mese tu sarai dove lei"; e di nuovo aggiunse che mi pregava che io gli tenessi il fermo 27, perché le legioni eran l’un mille più di quel che lui aveva domandato, e che l’erano le più pericolose; e poi che gli avevano istabilito quel che io avevo domandato, bisogniava carezzargli e pazientemente gli licenziare.28 Da l’altra banda il fanciullo, che era sotto il pintàculo, ispaventatissimo diceva che in quel luogo si era un milione di uomini bravissimi29, e’ quali tutti ci minacciavano; di più disse che gli era comparso quattro smisurati giganti, e’ quali erano armati e facevan segno di voler entrar da noi30. In questo il negromante, che tremava di paura, attendeva con dolce e suave modo el meglio che. poteva a licenziarli. Vincenzio Romoli, che tremava a verga a verga, attendeva ai profummi. Io, che avevo tanta paura quant’e loro, mi ingegniavo di dimostrarla manco31, e a tutti davo maravigliosissimo animo; ma certo io m’ero fatto 32 morto, per la paura che io vedevo nel negromante. Il fanciullo s’era fitto il capo in fra le ginocchia, dicendo: "Io voglio morire a questo modo, ché morti siàno33. Di nuovo io dissi al fanciullo: "Queste creature son tutte sotto a di noi34, e ciò che tu vedi si è fummo e ombra: sì che alza gli occhi". Alzato che gli ebbe gli occhi, di nuovo disse: "Tutto il Culiseo arde, e ’l fuoco viene adosso a noi"; e missosi le mane al viso, di nuovo disse che era morto, e che non voleva più vedere. Il negromante mi si raccomandò, pregandomi che io gli tenessi il fermo, e che io facessi fare profummi di zaffetica35: così, voltomi a Vincenzo Romoli, dissi che presto profumassi di zaffetica. In mentre che io così diceva, guardando Agniolino Gaddi, il quale si era tanto ispaventato che le luce degli occhi aveva fuor del punto36, ed era più che mezzo morto, al quale io dissi: "Agniolo, in questi luoghi non bisogna aver paura, ma bisogna darsi da fare e aiutarsi: sì che mettete sù presto di quella zaffetica". Il ditto Agniolo, in quello che 37 lui si volse muovere, fece una strombazzata di coreggie con tanta abundanzia di merda, la qual potette più che la zaffetica. Il fanciullo, a quel gran puzzo e quel romore alzato un poco il viso, sentendomi ridere alquanto, assicurato 38 un poco la paura, disse che se ne cominciavano a ’ndare a gran furia. Così soprastemmo in fino a tanto che e’ cominciò a sonare i mattutini39. Di nuovo ci disse il fanciullo che ve n’era restati pochi, e discosto. Fatto che ebbe il negromante tutto il resto delle sue cerimonie, spogliatosi e riposto un gran fardel di libri, che gli aveva portati, tutti d’accordo seco ci uscimmo del circulo, ficcandosi l’un sotto l’altro;40 massimo il fanciullo, che s’era messo in mezzo, e aveva preso il negromante per la veste e me per la cappa; e continuamente, in mentre che noi andavamo inverso le case nostre in Banchi, lui ci diceva che dua di quelli, che gli aveva visti nel Culiseo, ci andavano saltabeccando41 innanzi, or correndo su pe’ tetti e or per terra. Il negromante diceva che di tante volte quante lui era entrato inelli circuli, non mai gli era intervenuto una così gran cosa, e mi persuadeva che io fussi contento di volere esser seco a consacrare un libro 42: da il quale noi trarremmo infinita ricchezza, perché noi dimanderemmo li demonii che ci insegnassino delli tesori, i quali n’è pien la terra, e a quel modo noi diventeremmo ricchissimi; e che queste cose d’amore si erano vanità e pazzie, le quale non rilevavano 43 nulla. Io li dissi che se io avessi lettere latine44, che molto volentieri farei una tal cosa. Pur lui mi persuadeva45, dicendomi che le lettere latine non mi servivano a nulla, e che se lui avessi voluto, trovava di molti con buone lettere latine; ma che non aveva mai trovato nessuno d’un saldo animo come ero io, e che io dovessi attenermi al suo consiglio. Con questi ragionamenti noi arrivammo alle case nostre, e ciascun di noi tutta quella notte sogniammo diavoli.
LXV. Rivedendoci poi alla giornata1, il negromante mi strigneva2 che io dovessi attendere a quella inpresa: per la qual cosa io lo domandai che tempo vi si metterebbe a far tal cosa, e dove noi avessimo a ’ndare. A questo mi rispose che in manco d’un mese noi usciremmo di quella inpresa, e che il luogo più a proposito si era nelle montagne di Norcia3; benché un suo maestro aveva consacrato 4 quivi vicino al luogo detto alla Badia di Farfa5; ma che vi aveva auto qualche difficultà, le quali non si arebbono nelle montagne di Norcia; e che quelli villani norcini son persone di fede 6, e hanno qualche pratica di questa cosa, a tale che possan dare a un 7 bisogno maravigliosi aiuti. Questo prete negromante certissimamente mi aveva persuaso tanto, che io volentieri mi ero disposto a far tal cosa, ma dicevo che volevo prima finire quelle medaglie che io facevo per il Papa, e con il detto8 m’ero conferito9 e non con altri, pregandolo che lui me le tenessi segrete10. Pure continuamente lo domandavo se lui credeva che a quel tempo11 Il io mi dovessi trovare con la mia Angelica siciliana, e veduto che s’appressava12 molto al tempo, mi pareva molta gran cosa13 che di lei io non sentissi 14 nulla. Il negromante mi diceva che certissimo io mi troverrei dove lei, perché loro15 non mancan mai, quando e’ promettono in quel modo come ferno allora16; ma che io stessi con gli occhi aperti, e mi guardassi da qualche scandolo17, che per quel caso mi potrebbe intervenire; e che io mi sforzassi di sopportare qualche cosa contra la mia natura18, perché vi conoscieva drento un grandissimo pericolo; e che buon per me se io andavo seco a consacrare il libro, che per quella via quel mio gran pericolo si passerebbe,19 sarei causa di far me e lui felicissimi. Io, che ne cominciavo avere più voglia di lui, gli dissi che per essere venuto in Roma un certo maestro Giovanni da Castel Bolognese20, molto valentuomo per far medaglie di quella sorte che io facevo, in acciaio, e che non desideravo altro al mondo che di fare a gara con questo valentomo, e uscire al mondo adosso21 con una tale impresa, per la quale io speravo con tal virtù22, e non con la spada, ammazzare quelli parecchi mia nimici. Questo uomo pure mi continuava dicendomi23: "Di grazia, Benvenuto mio, vien meco e fuggi un gran pericolo che in te io scorgo". Essendomi io disposto in tutto e per tutto di voler prima finir la mia medaglia, di già eramo vicini al fine del mese: al quale, per essere invaghito tanto inella medaglia, io non mi ricordavo più né di Angelica né di null’altra cotal cosa, ma tutto ero intento a quella mia opera.
LXVI. Un giorno fra gli altri, vicino a l’ora del vespro, mi venne occasione di trasferirmi fuor delle mie ore1 da casa alla mia bottega: perché avevo la bottega in Banchi, e una casetta mi tenevo drieto a Banchi, e poche volte andavo a bottega: ché tutte le faccende io le lasciavo fare a quel mio compagno che avea nome Felice. Stato così un poco a bottega, mi ricordai che io avevo a ’ndare a parlare a Lessandro del Bene. Subito levatomi e arrivato in Banchi, mi scontrai in un certo molto mio amico, il quale si domandava per nome ser Benedetto. Questo era notaio ed era nato a Firenze, figliuolo d’un cieco che diceva l’orazione2, che era sanese. Questo ser Benedetto era stato a Napoli molt’e molt’anni; dipoi s’era ridotto3 in Roma, e negoziava per certi mercanti sanesi de’ Chigi. E perché quel mio compagno più e più volte gli aveva chiesto certi dinari, che gli aveva4 aver da lui di alcune anellette che lui gli aveva fidate5, questo giorno, iscontrandosi in lui in Banchi li6 chiese li sua dinari in un poco di ruvido modo, il quale era l’usanza sua: ché7 il detto ser Benedetto era con quelli sua padroni, in modo che, vedendosi far quella cosa così fatta, sgridorno grandemente quel ser Benedetto, dicendogli che si volevano servir d’un altro, per non avere a sentir più tal baiate 8. Questo ser Benedetto il meglio che e’ poteva si andava con loro difendendo, e diceva che quello orefice lui l’aveva pagato, e che non era atto a affrenare il furore de’ pazzi. Li detti Sanesi presono quella parola in cattiva parte e subito lo cacciorno via. Spiccatosi da loro, affusolato9 se ne andava alla mia bottega, forse per far dispiacere al 10 detto Felice. Avvenne che appunto inel mezzo di Banchi noi ci incontrammo insieme: onde io, che non sapevo nulla, al mio solito modo piacevolissimamente lo salutai; il quale con molte villane parole mi rispose. Per la qual cosa mi sovvenne tutto quello che mi aveva detto il negromante: in modo che, tenendo la briglia il più che io potevo a quello che con le sue parole il detto mi sforzava a fare, dicevo: "Ser Benedetto fratello, non vi vogliate adirar meco, che non v’ho fatto dispiacere, e non so nulla di questi vostri casi, e tutto quello che voi avete che fare con Felice, andate di grazia e finitela seco 11: ché lui sa benissimo quel che v’ha a rispondere: onde io, che none so nulla, voi mi fate torto a mordermi di questa sorte, maggiormente sapendo che io non sono uomo che sopporti ingiurie". A questo il detto disse che io sapevo ogni cosa, e che era uomo atto a farmi portar maggior soma12 di quella, e che Felice e io eramo13 dua gran ribaldi. Di già s’era ragunato molte persone a vedere questa contesa. Sforzato 14 dalle brutte parole, presto mi chinai in terra e presi un mòzzo 15 di fango, perché era piovuto, e con esso presto gli menai a man salva 16 per dargli in sul viso. Lui abbassò il capo, di sorte che con esso gli detti in sul mezzo del capo. In questo fango era investito17 un sasso di pietra viva con molti acuti canti 18, e cogliendolo 19 con un di quei canti in sul mezzo del capo, cadde come morto svenuto in terra: il che, vedendo tanta abondanzia di sangue, si giudicò per 20 tutti e’ circostanti che lui fossi morto.
LXVII. In mentre che il detto 1 era ancora in terra, e che alcuni si davano da fare per portarlo via, passava quel Pompeo gioielliere già ditto di sopra. Questo il Papa aveva mandato per lui2 per alcune sue faccende di gioie. Vedendo quell’uomo mal condotto3, domandò chi gli aveva dato4. Di che gli fu detto: "Benvenuto gli ha dato, perché questa bestia se l’ha cerche5". Il detto Pompeo, prestamente giunto che fu al Papa, gli disse: "Beatissimo padre, Benvenuto adesso adesso ha ammazzato Tubbia: ché io l’ho veduto con li mia occhi". A questo il Papa infuriato comesse al Governatore, che era quivi alla presenza, che mi pigliassi, e che m’inpiccassi subito inel luogo dove si era fatto l’omicidio, e che facessi ogni diligenzia a ’vermi 6, e non gli capitassi innanzi prima che lui mi avessi inpiccato. Veduto che io ebbi quello sventurato in terra, subito pensai a’ fatti mia, considerato alla potenzia de’ mia nimici, e quel che di tal cosa poteva partorire 7. Partitomi di quivi, me ne ritirai a casa misser Giovanni Gaddi cherico di Camera, volendomi metter in ordine8 il più presto che io potevo, per andarmi con Dio. Alla qual cosa, il detto misser Giovanni mi consigliava che io non fussi così furioso a partirmi, ché tal volta potria essere che ’l male non fussi tanto grande quanto e’ mi parve; e fatto chiamare messer Anibal Caro, il quale stava seco, gli disse che andassi a ’intendere il caso. Mentre che di questa cosa si dava i sopraditti ordini, conparse un gentiluomo romano che stava col cardinal de’ Medici9 e da quello mandato. Questo gentiluomo, chiamato a parte misser Giovanni e me, ci disse che il Cardinale gli aveva detto quelle parole che gli aveva inteso dire al Papa, e che non aveva rimedio nessuno da potermi aiutare, e che io facessi tutto il mio potere di scampar10 questa prima furia, e che io non mi fidassi in 11 nessuna casa di Roma. Subito partitosi il gentiluomo, il ditto misèr Giovanni, guardandomi in viso, faceva segno di lacrimare, e disse: "Oimè, tristo a me! che io non ho rimedio nessuno a poterti aiutare!" Allora io dissi: "Mediante Idio, io mi aiuterò ben da me; solo vi richieggo che voi mi serviate di 12 un de’ vostri cavalli". Era di già messo in ordine un cavai morello turco, il più bello e il miglior di Roma. Montai in sun esso con uno archibuso a ruota 13 dinanzi a l’arcione, stando in ordine 14 per difendermi con esso. Giunto che io fui a Ponte Sisto, vi trovai tutta la guardia del bargello a cavallo e a piè; così faccendomi della necessità virtù, arditamente spinto modestamente il cavallo, merzé di Dio, oscurato gli occhi loro15, libero passai, e con quanta più fretta io potetti me ne andai a Palombara16, luogo del signor Giovanbatista Savello17, e di quivi rimandai il cavallo a misser Giovanni, né manco volsi ch’egli sapessi dove io mi fussi. Il detto signor Gianbatista, carezzato 18 ch’egli m’ebbe dua giornate, mi consigliò che io mi dovessi levar di quivi e andarmene alla volta di Napoli, per 19 tanto che passassi questa furia; e datomi conpagnia, mi fece mettere in sulla strada di Napoli, in su la quale io trovai uno scultore mio amico, che se ne andava a San Germano20 a finire la seppoltura di Pier de’ Medici a Monte Casini21. Questo si chiamava per nome il Solosmeo 22: lui mi dette nuove23, come quella sera medesima papa Clemente aveva mandato un suo cameriere a intendere come stava Tubbia sopraditto; e trovatolo a lavorare, e che in lui non era avvenuto cosa nissuna, né manco non sapeva nulla, referito al Papa, il ditto si volse a Pompeo e gli disse: "Tu sei uno sciagurato, ma io ti protesto bene24 che tu hai stuzzicato un serpente, che ti morderà e faratti il dovere 25". Di poi si volse al cardinal de’ Medici, e gli commisse che tenessi un poco di conto di me, che per nulla lui non mi arebbe voluto perdere. Così il Solosmeo ed io ce ne andavamo cantando alla volta di Monte Casini, per andarcene a Napoli insieme.
LXVIII. Riveduto che ebbe il Solosmeo le sue faccende a Monte Casini, insieme ce ne andammo alla volta di Napoli. Arrivati a un mezzo miglio presso a Napoli, ci si fece incontro uno oste il quale ci invitò alla sua osteria, e ci diceva che era stato in Firenze mòlt’ anni con Carlo Ginori; e se noi andavamo alla sua osteria, che ci arebbe fatto moltissime carezze, per esser noi Fiorentini. Al quale oste noi più volte dicemmo che seco noi non volevamo andare. Questo uomo pur ci passava inanzi e or ristava indrieto, sovente dicendoci le medesime cose, che ci arebbe voluti alla sua osteria. Il perché venutomi a noia, io lo domandai se lui mi sapeva insegnare1 una certa donna siciliana, che aveva nome Beatrice, la quale aveva una sua bella figliuoletta che si chiamava Angelica, ed erano cortigiane. Questo ostiere2, parutoli3 che io l’uccellassi4, disse: "Idio dia il malanno alle cortigiane e chi vuoi lor bene"; e dato il piè5 al cavallo, fece segno di andarsene resoluto da noi. Parendomi essermi levato da dosso in un bel modo quella bestia di quell’oste, con tutto che di tal cosa io non estessi in capitale6, perché mi era sovvenuto quel grande amore che io portavo a Angelica, e ragionandone col ditto Solosmeo non senza qualche amoroso sospiro, vediamo con gran furia ritornare a noi l’ostiere, il quale, giunto da noi, disse: "E’ sono o dua over tre giorni che accanto alla mia osteria è tornato una donna e una fanciulletta, le quali hanno cotesto nome; non so se sono siciliane o d’altro paese". Allora io dissi: "Gli ha tanta forza in me quel nome di Angelica, che io voglio venire alla tua osteria a ogni modo". Andammocene d’accordo insieme coll’oste nella città di Napoli, e scavalcammo alla sua osteria, e mi pareva mill’anni di dare assetto alle mie cose, qual feci prestissimo; e entrato nella ditta casa accanto a l’osteria, ivi trovai la mia Angelica, la quale mi fece le più smisurate carezze che inmaginar si possa al mondo. Così mi stetti seco da quell’ora delle ventidua ore in sino alla seguente mattina con tanto piacere, che pari non ebbi mai. E in mentre che in questo piacere io gioiva, mi sovvenne che quel giorno apunto spirava7 il mese che mi fu promisso inel circulo di negromanzia dalli demonii. Sì che consideri ogni uomo, che s’inpaccia con loro, e’ pericoli inistimabili che io ho passati.
LXIX. Io mi trovavo inella mia borsa a caso un diamante, il quale mi venne mostrato1 in fra gli orefici; e se bene io ero giovane ancora, in Napoli io ero talmente conosciuto per uomo da qualcosa2, che mi fu fatto moltissime carezze. Infra gli altri un certo galantissimo uomo3 gioielliere, il quale aveva nome misser Domenico Fontana. Questo uomo da bene lasciò la bottega per tre giorni che io stetti in Napoli, né mai si spiccò4 da me, mostrandomi molte bellissime anticaglie che erano in Napoli e fuor di Napoli; e di più mi menò a fare reverenzia al Viceré di Napoli5, il quale gli aveva fatto intendere che aveva vaghezza6 di vedermi. Giunto che io fui da sua Eccellenzia, mi fece molte onorate accoglienze; e in mentre che così facevamo, dette inegli occhi di sua Eccellenzia il sopra ditto diamante; e fattomiselo 7mostrare, disse che se io ne avessi a privar me, non cambiassi lui8, di grazia. Al quale io, ripreso il diamante, lo porsi di nuovo a sua Eccellenzia, e a quella9 dissi che il diamante e io eramo al servizio di quella. Allora e’ disse che aveva ben caro il diamante, ma che molto più caro li sarebbe che io restassi seco; che mi faria tal patti, che io mi loderei di lui. Molte cortese parole ci usammo l’un l’altro; ma venuti poi ai meriti del diamante, comandatomi da sua Eccellenzia che io ne domandassi pregio10, qual mi paressi a una sola parola11, al quale io dissi che dugento scudi era il suo pregio a punto. A questo sua Eccellenzia disse che gli pareva che io non fussi niente iscosto dal dovere12; ma per esser legato di mia mano, conoscendomi per il primo uomo del mondo, non riuscirebbe, se un altro lo legasse, di quella eccellenzia 13 che dimostrava. Allora io dissi che il diamante non era legato di mia mano e che non era ben legato; e quello che egli faceva14, lo faceva per sua propria bontà; e che se io gnene rilegassi, lo migliorerei assai da quel che gli era. E messo l’ugna del dito grosso ai filetti 15 del diamante, lo trassi del suo anello, e nettolo 16 alquanto lo porsi al Viceré; il quale satisfatto e maravigliato, mi fece una polizza 17, che mi fussi pagato li dugento scudi che io l’aveva domandato. Tornatomene al mio alloggiamento18, trovai lettere che venivano dal cardinale de’ Medici 19, le quali mi dicevano che io ritornassi a Roma con gran diligenzia, e di colpo me ne andassi a scavalcare a casa sua 20 Signoria reverendissima. Letto alla mia Angelica la lettera, con amorosette lacrime lei mi pregava che di grazia io mi fermassi in Napoli, o che io ne la menassi meco. Alla quale io dissi che se lei ne voleva venir meco, che io gli darei in guardia 21 quelli dugento ducati che io avevo presi dal Viceré. Vedutoci la madre a questi serrati ragionamenti, si accostò a noi, e mi disse: "Benvenuto, se tu ti vuoi menare la mia Angelica a Roma, lassami un quindici ducati, acciocché io possa partorire, e poi me ne verrò ancora22 io". Dissi alla vecchia ribalda che trenta volentieri gnene lascierei, se lei si contentava di darmi la mia Angelica. Così restati d’accordo, Angelica mi pregò che io li comperassi una vesta di velluto nero, perché in Napoli era buon mercato. Di tutto fui contento; e mandato per il velluto, fatto il mercato e tutto, la vecchia, che pensò che io fussi più cotto 23 che crudo, mi chiese una vesta di panno fine per sé, e molt’altre spese per sua figliuoli, e più danari assai di quelli che io gli avevo offerti. Alla quale io piacevolmente mi volsi e le dissi: "Beatrice mia cara, bastat’egli24 quello che io t’ho offerto?" Lei disse che no. Allora io dissi che quel che non bastava a lei basterebbe a me; e baciato la mia Angelica, lei con lacrime e io con riso ci spiccammo25, e me ne tornai a Roma subito.
LXX. Partendomi di Napoli a notte con li dinari addosso, per non essere appostato1 ne assassinato, come è il costume di Napoli, trovatomi alla Selciata2, con grande astuzia e valore di corpo mi difesi da più cavagli3, che mi erano venuti per assassinare. Di poi gli altri giorni appresso, avendo lasciato il Solosmeo alle sue faccende di Monte Casini, giunto una mattina per desinare all’osteria di Adagnani4, essendo presso all’osteria, tirai a certi uccelli col mio archibuso, e quelli ammazzai; e un ferretto, che era nella serratura del mio stioppo, mi aveva stracciato 5 la man ritta. Se bene non era il male d’inportanza, appariva assai, per molta quantità di sangue che versava la mia mano. Entrato ne l’osteria, messo il mio cavallo al suo luogo, salito in sun un palcaccio6, trovai molti gentiluomini napoletani, che stavano per entrare7 a tavola; e con loro era una gentil donna giovane, la più bella che io vedessi mai. Giunto che io fui, appresso a me montava 8 un bravissimo giovane mio servitore con un gran partigianone 9 in mano: in modo che noi, l’arm’e il sangue messe10 tanto terrore a quei poveri gentili uomini, massimamente per esser quel luogo un nidio 11 di assassini; rizzatisi da tavola, pregorno Idio con grande spavento che gli aiutassi. Ai quali io dissi ridendo che Idio gli aveva aiutati, e che io ero uomo per difendergli da chi gli volesse offendere; e chiedendo a loro qualche poco di aiuto per fasciar la mia mana, quella bellissima gentil donna prese un suo fazzoletto riccamente lavorato d’oro, volendomi con esso fasciare: io non volsi: subito lei lo stracciò pel mezzo, e con grandissima gentilezza di sua mano mi fasciò. Così assicuratisi12 alquanto, desinammo assai lietamente. Di poi il desinare montammo a cavallo, e di 13 compagnia ce ne andavamo. Non era ancora assicurata14 la paura: ché quelli gentili uomini astutamente mi facevano trattenere a15 quella gentildonna, restando alquanto indietro; e io a pari con essa me ne andavo in sun un mio bel cavalletto, accennato al mio servitore che stessi un poco discosto da me, in modo che noi ragionavamo di quelle cose che non vende lo speziale16. Così mi condussi a Roma col maggior piacere che io avessi mai.
Arrivato che io fui a Roma, me ne andai a scavalcare al palazzo del cardinale de’ Medici; e trovatovi sua Signoria reverendissima, gli feci motto,17 lo ringraziai de l’avermi fatto tornare. Di poi pregai sua Signioria reverendissima che mi facessi sicuro dal carcere, e se gli era possibile ancora della pena pecuniaria. Il ditto Signiore mi vidde molto volentieri; mi disse che io non dubitassi di nulla; di poi si volse a un suo gentiluomo, il quale si domandava misser Pierantonio Pecci, sanese, dicendogli che per sua parte dicessi al bargello che non ardissi toccarmi. Appresso lo domandò come stava quello a chi io avevo dato del 18 sasso in sul capo. Il ditto messer Pierantonio disse che lui stava male, e che gli starebbe ancor peggio: i19l perché si era saputo che io tornavo a Roma, diceva volersi morire per farmi dispetto. Alle qual parole con gran risa il Cardinale disse: "Costui non poteva fare altro modo che questo, a volerci fare cognioscere che gli era nato di sanesi 20". Di poi voltosi a me, mi disse: "Per onestà nostra e tua, abbi pazienzia quattro o cinque giorni, che tu non pratichi in Banchi; da questi in là 21 va poi dove tu vuoi, e i pazzi muoiano a lor posta 22". Io me ne andai a casa mia, mettendomi a finire la medaglia, che di già avevo cominciata, della testa di papa Clemente, la quale io facevo con un rovescio figurato una23 Pace. Questa si era una femminetta vestita con panni sottilissimi, soccinta, con una faccellina 24 in mano, che ardeva un monte di arme legate insieme a guisa di un trofeo; e ivi era figurato una parete di un tempio, inel quale era figurato il Furore con molte catene legato, e all’intorno si era un motto di lettere, il quale diceva "Clauduntur belli portae 25". In mentre ch’io finivo la ditta medaglia, quello che io avevo percosso era guarito, e ’l Papa non cessava di domandar di me; e perché io fuggivo 26 di andare intorno al cardinale de’ Medici, avvenga che tutte le volte che io gli capitavo inanzi, sua Signioria mi dava da fare qualche opera d’inportanza, per la qual cosa m’inpediva assai alla fine27 della mia medaglia, avvenne che misser Pier Carnesecchi, favoritissimo del Papa, prese la cura di tener conto di me: così in un destro modo28 mi disse quanto il Papa desiderava che io lo servissi. Al quale io dissi che in brevi giorni io mostrerrei a sua Santità, che mai io non m’ero scostato dal servizio di quella.
LXXI. Pochi giorni appresso, avendo finito la mia medaglia, la stampai in oro e in argento e in ottone. Mostratala a messer Piero, subito m’introdusse dal Papa. Era un giorno doppo desinare del mese di aprile, ed era un bel tempo: il Papa era in Belvedere 1. Giunto alla presenza di sua Santità, li porsi in mano le medaglie insieme con li conii di acciaio. Presele, subito cogniosciuto la gran forza di arte che era in esse, guardato misser Piero in viso, disse: "Gli antichi non furno mai sì ben serviti di medaglie". In mentre che lui e gli altri le consideravano ora i conii ora le medaglie, io modestissimamente cominciai a parlare e dissi: "Se la potenzia delle mie perverse istelle non avessino auto una maggior potenzia2, che a loro avessi inpedito quello che violentemente in atto le mi dimostrorno, vostra Santità senza sua causa e mia perdeva un suo fidele e amorevole servitore. Però,3 beatissimo Padre, non è error nessuno in questi atti, dove si fa del resto 4, usar quel modo che dicono certi poveri semplici uomini, usando dire che si dee segnar sette e tagliar uno 5. Da poi che una malvagia bugiarda lingua d’un mio pessimo avversario,6 che aveva così facilmente fatto adirare vostra Santità, che ella venne in tanto furore commettendo al Governatore che subito preso m’inpiccassi; veduto da poi un tale inconveniente, faccendo un così gran torto a se medesima a privarsi di un suo servitore, qual vostra Santità istessa dice che egli è, penso certissimo che, quanto a Dio e quanto al mondo, da poi vostra Santità n’arebbe auto un non piccolo rimordimento 7. Però i buoni e virtuosi padri, similmente i padroni tali 8, sopra i loro figliuoli e servitori non debbono così precipitatamente lasciar loro cadere il braccio addosso; avvenga che lo increscerne lor da poi non serva a nulla. Da poi che Idio ha inpedito questo maligno corso di stelle, e salvatomi a 9 vostra Santità, un’altra volta priego quella 10 che non sia così facile a l’adirarsi meco". Il Papa, fermato di guardare le medaglie, con grande attenzione mi stava a udire; e perché alla presenzia era molti Signori di grandissima inportanza, il Papa, arrossito alquanto, fece segno di vergogniarsi, e non sapendo altro modo a uscir di quel viluppo 11, disse che non si ricordava di aver mai dato una tal commessione. Allora avvedutomi di questo, entrai in altri ragionamenti, tanto che io divertissi 12 quella vergognia che lui aveva dimostrato. Ancora sua Santità entrato in e’ ragionamenti delle medaglie, mi dimandava che modo io avevo tenuto a stamparle così mirabilmente, essendo così grande: il che lui non aveva mai veduto degli antichi, medaglie di tanta grandezze.13 Sopra quello si ragionò un pezzo, e lui, che aveva paura che io non gli facessi un’altra orazioncina 14 peggio di quella, mi disse che le medaglie erano bellissime e che gli erano molto grate 15, e che arebbe voluto fare un altro rovescio a sua fantasia 16, se tal medaglie si poteva istampare con dua rovesci. Io dissi che sì. Allora sua Santità mi commesse che io facessi la storia di Moisè quando e’ percuote la pietra, ch’e’ n’escie l’acqua17, con un motto sopra, il qual dicessi "Ut bibat populus 18". E poi aggiunse: "Va, Benvenuto, che tu non l’arai finita sì tosto che io arò pensato a’ casi tua".19 Partito che io fui, il Papa si vantò alla presenza di tutti di darmi tanto, che io arei potuto riccamente vivere, senza mai più affaticarmi con altri 20. Attesi sollecitamente a finire il rovescio del Moisè.
LXXII. In questo mezzo 1 il Papa si ammalò; e, giudicando i medici che ’l male fussi pericoloso, quel mio avversario 2, avendo paura di me, commise a certi soldati napoletani che facessino a me quello che lui aveva paura che io non 3 facessi a lui. Però 4 ebbi molte fatiche a difendere la mia povera vita. Seguitando fini’ il rovescio afatto: portatolo sù al Papa, lo trovai nel letto malissimo condizionato 5. Con tutto questo egli mi fece gran carezze, e volse veder le medaglie e e6 conii; e faccendosi dare occhiali e lumi, in modo alcuno non iscorgeva nulla. Si messe a brancolarle 7 alquanto con le dita; di poi fatto così un poco, gittò un gran sospiro e disse a certi che gl’incresceva di me, ma che se Idio gli rendeva la sanità, acconcerebbe ogni cosa. Da poi tre giorni il Papa morì 8; e io, trovatomi aver perso le mie fatiche, mi feci di buono animo, e dissi a me stesso che mediante quelle medaglie io m’ero fatto tanto cognioscere che da ogni papa, che venissi, io sarei adoperato forse con miglior fortuna. Così da me medesimo mi missi animo 9, cancellando in tutto e per tutto le grande ingiurie che mi aveva fatte Pompeo; e missomi l’arme indosso e accanto 10, me ne andai a San Piero, baciai li piedi al morto Papa non sanza lacrime; di poi mi ritornai in Banchi a considerare la gran confusione che avviene in cotai occasione. E in mentre che io mi sedeva in Banchi con molti mia amici, venne a passare Pompeo in mezzo a dieci uomini benissimo armati; e quando egli fu a punto a rincontro 11 dove io era, si fermò alquanto in atto di voler quistione con esso meco12. Quelli ch’erano meco, giovani bravi e volontoriosi 13, accennatomi che io dovessi metter mano 14, alla qual cosa subito considerai che se io mettevo mano alla spada, ne sarebbe seguito qualche grandissimo danno in quelli che non vi avevano una colpa al mondo: però giudicai che e’ fussi il meglio, che io solo mettessi a ripintaglio la vita mia. Soprastato che Pompeo fu del dir dua Avemarie 15, con ischerno rise inverso di me; e partitosi, quelli sua anche risono16 scotendo il capo; e con simili atti facevano molte braverie 17: quelli mia compagni volson metter mano alla quistione 18: ai quali io adiratamente dissi che le mie brighe io ero uomo da per me a saperle finire, che io non avevo bisogno di maggior bravi di me: sì che ognun badassi al fatto suo. Isdegnati quelli mia amici si partirno da me brontolando. In fra questi era il più caro mio amico, il quale aveva nome Albertaccio del Bene, fratel carnale di Alessandro e di Albizzo, il quale è oggi in Lione grandissimo ricco. Era questo Albertaccio il più mirabil giovane che io cognoscessi mai, e il più animoso, e a me voleva bene quanto a se medesimo; e perché lui sapeva bene che quello atto di pazienzia non era stato per pusillità 19 d’animo, ma per aldacissima 20 bravuria, che benissimo mi conosceva, e replicato alle parole 21, mi pregò che io gli facessi tanta grazia di chiamarlo meco a tutto quel che io avessi animo di fare. Al quale io dissi: "Albertaccio mio, sopra tutti gli altri carissimo, ben verrà tempo che voi mi potrete dare aiuto; ma in questo caso, se voi mi volete bene, non guardate 22 a me, e badate al fatto vostro, e levatevi via presto sì come hanno fatto gli altri, perché questo non è tempo da perdere". Queste parole furno dette presto.23
LXXIII. Intanto li nimici mia, di Banchi a lento passo s’erano avviati inverso la Chiavica, luogo detto così, e arrivati in su una crociata 1 di strade le quali vanno in diversi luoghi; ma quella dove era la casa del mio nimico Pompeo, era quella strada che diritta porta a Campo di Fiore; e per alcune occasione 2 de il detto Pompeo, era entrato in quello ispeziale 3 che stava in sul canto della Chiavica, e soprastato con ditto speziale alquanto per alcune sue faccende; benché a me fu ditto che lui si era millantato di quella bravata che a lui pareva aver fattami; 4ma in tutti i modi la fu pur sua cattiva fortuna: perché arrivato che io fui a quel canto, apunto lui usciva dallo speziale, e quei sua bravi si erano aperti 5, e l’avevano di già ricevuto in mezzo. Messi mano a un picol pungente pugnaletto, e sforzato 6 la fila de’ sua bravi, li messi le mane al petto con tanta prestezza e sicurtà d’animo, che nessuno delli detti rimediar non possettono 7. Tiratogli per dare al viso, lo spavento che lui ebbe li fece volger la faccia, dove io lo punsi apunto sotto l’orecchio; e quivi raffermai dua colpi soli, che al sicondo8 mi cadde morto di mano, qual non fu mai mia intenzione; 9ma, sì come si dice, li colpi non si danno a patti10. Ripreso il pugnale con la mano istanca, e con la ritta tirato fuora la spada per la difesa della vita mia, dove11 tutti quei bravi corsono al morto corpo, e contro a me non feceno atto nessuno, così soletto mi ritirai per strada Iulia 12, pensando dove io mi potessi salvare. Quando io fui trecento passi, mi raggiunse il Piloto, orefice, mio grandissimo amico, il quale mi disse: "Fratello, da poi che ’l male è fatto, veggiamo di salvarti". Al quale io dissi: "Andiamo in casa di Albertaccio del Bene, che poco inanzi gli avevo detto che presto verrebbe il tempo che io arei bisogno di lui". Giunti che noi fummo a casa 13’ Albertaccio, le carezze furno inistimabile, e presto comparse la nobilità delli giovani di Banchi d’ogni nazione, da’ milanesi in fuora14; e tutti mi si offersono di mettere la vita loro per salvazione della vita mia. Ancora 15 misser Luigi Rucellai mi mandò a offerire maravigliosamente 16, che io mi servissi delle cose sua, e molti altri di quelli omaccioni 17 simili a lui: perché tutti d’accordo mi benedissono le mani, parendo loro che colui 18 mi avessi troppo assassinato 19, e maravigliandosi molto che io avessi tanto soportato.
LXXIV. In questo istante 1 il cardinal Cornaro 2, saputo la cosa, da per sé mandò trenta soldati, con tanti partigianoni, picche e archibusi, li quali mi menassino in camera sua per ogni buon rispetto 3; e io accettai l’offerta, e con quelli me ne andai, e più di altretanti di quelli ditti giovani mi feciono compagnia. In questo mezzo saputolo quel misser Traiano suo parente, primo cameriere del Papa, mandò al cardinal de’ Medici un gran gentiluomo milanese, il qual dicessi al Cardinale il gran male che io avevo fatto, e che sua Signoria reverendissima era ubbrigata 4a gastigarmi. Il Cardinale rispose subito, e disse: "Gran male arebbe fatto a non fare questo minor male: ringraziate messer Traiano da mia parte, che m’ha fatto avvertito di quel che io non sapeva"; e subito voltosi, in presenza del ditto gentiluomo, al vescovo di Frullì 5 suo gentiluomo e familiare, li disse: "Cercate con diligenzia il mio Benvenuto, e menatemelo qui, perché io lo voglio aiutare e difendere; e chi farà contra di lui, farà contra di me". Il gentiluomo molto arrossito si partì, e il vescovo di Frullì mi venne a trovare in casa il 6 cardinal Cornaro; e trovato il Cardinale, disse come il cardinale de’ Medici mandava per Benvenuto, e che voleva esser lui quello che lo guardassi 7. Questo cardinal Cornaro, ch’era bizzarro come un orsacchino 8, molto adirato rispose al Vescovo, dicendogli che lui era così atto a guardarmi come il cardinal de’ Medici. A questo il Vescovo disse che di grazia facessi che lui mi potessi parlare una parola fuor di quello affare, per altri negozii 9 del cardinale. Il Cornaro li disse che per quel giorno facessi conto di avermi parlato. Il cardinal de’ Medici era molto isdegniato; ma pure io andai la notte seguente senza saputa 10 del Cornaro, benissimo accompagniato, a visitarlo; dipoi lo pregai che mi facessi tanto di grazia di lasciarmi in casa del ditto Cornaro, e li dissi la gran cortesia che Cornaro m’aveva usato; dove che,11 se sua Signoria reverendissima mi lasciava stare col ditto Cornaro, io verrei ad avere un amico più nelle mie necessitate; o pure che disponessi di me tutto quello che piacessi a sua Signoria. Il quale mi rispose che io facessi quanto mi pareva. Tornatomene a casa il 12 Cornaro, ivi a pochi giorni fu fatto papa il cardinal Farnese 13; e subito dato ordine alle cose di più inportanza, apresso il Papa domandò di me, dicendo che non voleva che altri facessi le sue monete, che io. A queste parole rispose a sua Santità un certo gentiluomo suo domestichissimo, il quale si chiamava messer Latino Iuvinale 14: disse che io stavo fuggiasco per uno omicidio fatto in persona di un Pompeo milanese, e aggiunse tutte le mie ragione molto favoritamente.15 Alle qual parole il Papa disse: "Io non sapevo della morte di Pompeo, ma sì bene sapevo le ragioni di Benvenuto, sì che facciasigli subito un salvo condotto 16, con il quale lui stia sicurissimo". Era alla presenza un grande amico di quel Pompeo e molto domestico del Papa, il quale si chiamava misser Anbruogio 17, ed era milanese, e disse al Papa: "In e’ primi dì del vostro papato non saria bene far grazie di questa sorte". Al quale il Papa voltosigli, gli disse: "Voi non la sapete bene sì come me. Sappiate che gli uomini come Benvenuto, unici nella lor professione, non hanno da essere ubrigati 18 alla legge: or maggiormente lui, che so quanta ragione e’ gli ha". E fattomi fare il salvo condotto, subito lo cominciai a servire con grandissimo favore.
LXXV. Mi venne a trovare quel Latino Iuvinale detto, e mi commesse che io facessi le monete del Papa. Per la qual cosa si destò 1 tutti quei mia nimici: cominciorno a inpedirmi, che io non le facessi. Alla qual cosa il Papa, avvedutosi di tal cosa, gli sgridò tutti, e volse che io le facessi. Cominciai a fare le stampe degli scudi, inelle quali io feci un mezzo san Pagolo 2, con un motto di lettere che diceva "Vas elecfionis3 ". Questa moneta piacque molto più che quelle di quelli che avevan fatto a mia concorrenza: di modo che il Papa disse che altri non gli parlassi più di monete, perché voleva che io fussi quello che le facessi e no altri. Così francamente 4 attendevo a lavorare; e quel messer Latino Iuvinale m’introduceva al Papa, perché il Papa gli aveva dato questa cura.5 Io desideravo di riavere il moto proprio dell’uffizio dello stampatore della zecca 6. A questo il Papa si lasciò consigliare, dicendo che prima bisogniava che avessi 7 la grazia dell’omicidio, la quale io riarei 8 per le Sante Marie di Agosto 9 per ordine de’ caporioni 10 di Roma, ché così si usa ogni anno per questa solenne festa donare a questi caporioni dodici sbanditi 11; intanto mi si farebbe un altro salvo condotto, per il quale io potessi star sicuro per insino al ditto tempo. Veduto questi mia nimici che non potevano ottenere per via nessuna inpedirmi la12 zecca, presono un altro espediente. Avendo il Pompeo morto lasciato tremila ducati di dota a una sua figliuolina bastarda, feciono che un certo favorito del signior Pier Luigi 13, figliuol del Papa, la chiedessi per moglie per mezzo del detto Signiore: così fu fatto. Questo ditto favorito era un villanetto allevato dal ditto Signiore, e per quel che si disse a lui toccò pochi di cotesti dinari, perché il ditto Signiore vi messe sù le mane, e se ne volse servire 14. Ma perché più volte questo marito di questa fanciulletta, per compiacere alla sua moglie, aveva pregato il Signiore ditto che mi facessi pigliare, il quale Signiore aveva promisso di farlo come ei vedessi abbassato un poco il favore che io avevo col Papa; stando così in circa a dua mesi, perché quel suo servitore cercava di avere la sua dota, el Signore non gli rispondendo a proposito, ma faceva intendere alla moglie che farebbe le vendette del padre 15 a ogni modo. Con tutto che io ne sapevo qualche cosa, e appresentatomi più volte al ditto Signore, il quale mostrava di farmi grandissimi favori; dalla altra banda 16 aveva ordinato 17 una delle due vie, o di farmi ammazzare o di farmi pigliare dal bargello. Commesse a un certo diavoletto di un suo soldato còrso che la facessi più netta che poteva 18; e quelli altri mia nimici, massimo messer Traiano, aveva promesso di fare un presente 19 di cento scudi a questo corsetto 20; il quale disse che la farebbe così facile come bere uno vuovo 21 fresco. Io, che tal cosa intesi, andavo con gli occhi aperti e con buona compagnia e benissimo armato con giaco e con maniche 22, che tanto 23 avevo aùto licenzia. Questo ditto corsetto per avarizia pensando guadagniare quelli dinari tutti a man salva, credette tale inpresa poterla fare da per sé solo: in modo che un giorno, doppo desinare, mi feciono chiamare da parte del signior Pier Luigi: onde io subito andai, perché il Signore mi aveva ragionato di voler fare parecchi vasi grandi di argento. Partitomi di casa in fretta, pure con le mie solite armadure, me ne andavo presto per istrada Iulia, pensando di non trovar persona in su quell’ora. Quando io fui sù alto 24 di strada Iulia per voltare al palazzo del Farnese, essendo il mio uso di voltar largo ai canti, viddi quel corsetto già ditto, levarsi da sedere e arrivare al mezzo della strada: di modo che io non mi sconciai 25 di nulla, ma stavo in ordine per difendermi; e allentato il passo alquanto, mi accostai al muro per dare larga istrada al ditto corsetto. Anche lui accostatosi al muro, e di già appressatici bene, cognosciuto ispresso 26 per le sue dimostrazione che lui aveva voluntà di farmi dispiacere, e vedutomi solo a quel modo, pensò che la gli riuscissi: in modo che io cominciai a parlare e dissi: "Valoroso soldato, se e’ fussi di notte, voi potresti dire di avermi preso in iscambio; ma perché gli è di giorno, benissimo cognoscete chi io sono, il quale non ebbi mai che fare con voi, e mai non vi feci dispiacere; ma io sarei bene atto a farvi piacere". A queste parole lui in atto bravo 27, non mi si levando dinanzi, mi disse che non sapeva quello che io mi dicevo. Allora io dissi: "Io so benissimo quello che voi volete, e quel che voi dite; ma quella inpresa che voi avete presa a fare è più difficile e pericolosa, che voi non pensate, e tal volta 28 potrebbe andare a rovescio; e ricordatevi che voi avete a fare con uno uomo il quale si difenderebbe da cento. E non è inpresa onorata da valorosi uomini, qual voi siete, questa". Intanto ancora io stavo in cagniesco, canbiato il colore l’uno e l’altro. Intanto era comparso populi 29, che di già avevano conosciuto che le nostre parole erano di ferro 30: ché non gli essendo bastato la vista a manomettermi 31, disse: "Altra volta ci rivedremo". Al quale io dissi: "Io sempre mi riveggo con gli uomini da bene, e con quelli che fanno ritratto tale 32". Partitomi, andai a casa il Signore 33, il quale non aveva mandato per me. Tornatomi alla mia bottega, il detto corsetto per un suo grandissimo amico e mio mi fece intendere che io non mi guardassi più da lui, che mi voleva essere buono fratello; ma che io mi guardassi bene da altri, perché io portavo 34 grandissimo pericolo: ché uomini di molta inportanza mi avevano giurato la morte adosso. Mandatolo a ringraziare, mi guardavo il meglio che io potevo. Non molti giorni apresso mi fu detto da un mio grande amico che ’l signor Pier Luigi aveva dato espressa commessione che io fussi preso la sera. Questo mi fu detto a venti ore: per la qual cosa io ne parlai con alcuni mia amici, e’ quali mi confortorno 35 che io subito me ne andassi. E perché la commessione era data per a una ora di notte,36 a ventitré ore io montai in su le poste 37, e me ne corsi a Firenze: perché da poi che quel corsetto non gli era bastato l’animo di far la inpresa che lui promesse, il signor Pier Luigi di sua propria autorità aveva dato ordine che io fussi preso, solo per racchetare un poco quella figliuola di Pompeo, la quale voleva sapere in che luogo era la sua dota. Non la potendo contentare della vendetta in nissuno de’ dua modi che lui aveva ordinato, ne pensò un altro, il quale lo diremo al suo luogo.
LXXVI. Io giunsi a Firenze, e feci motto al duca Lessandro, 1 il quale mi fece maravigliose carezze, e mi ricerc ò 2 che io mi dovessi restar seco. E perché in Firenze era un certo scultore chiamato il Tribolino 3, ed era mio compare, per avergli io battezzato un suo figliuolo, ragionando seco, mi disse che uno Iacopo del Sansovino 4, già primo suo maestro, lo aveva mandato a chiamare; e perché lui non aveva mai veduto Vinezia, e per il guadagno che ne aspettava, ci andava molto volentieri; e domandando me se io avevo mai veduto Vinezia, dissi che no: onde egli mi pregò che io dovessi andar seco a spasso; al quale io promessi 5. Però 6 risposi al duca Lessandro che volevo prima andare insino a Vinezia, di poi tornerei volentieri a servirlo; e così volse che io gli promettessi, e mi comandò che inanzi che io mi partissi io gli facessi motto 7. L’altro dì appresso, essendomi messo in ordine, andai per pigliare licenza dal Duca; il quale io trovai inel palazzo de’ Pazzi 8, innel tempo che ivi era alloggiato la moglie e le figliuole del signior Lorenzo Cibo 9. Fatto intendere a sua Eccellenzia come io volevo andare a Vinezia con la sua buona grazia, tornò con la risposta Cosimino de’ Medici 10, oggi duca di Firenze, il quale mi disse che io andassi a trovare Nicolò da Monte Aguto, e lui mi darebbe cinquanta scudi d’oro, i quali danari mi donava la Eccellenzia del Duca, che io me gli godessi per suo amore; di poi tornassi a servirlo. Ebbi li danari da Nicolò, e andai a casa per il Tribolo, il quale era in ordine11; e mi disse se io avevo legato la spada.12 Io li dissi che chi era a cavallo per andare in viaggio non doveva legar le spade. Disse che in Firenze si usava così, perché v’era un certo ser Maurizio, che per ogni piccola cosa arebbe dato della corda a san Giovanbatista:13 però14 bisogniava portar le spade legate per insino fuor della porta 15. Io me ne risi, e così ce ne andammo. Accompagniammoci con il procaccia di Vinezia, il quale si chiamava per sopra nome Lamentone: con esso andammo di compagnia, e passato Bologna una sera in fra l’altre arrivammo a Ferrara; e quivi alloggiati a l’osteria di Piazza, il detto Lamentone andò a trovare alcuno de’ fuora usciti16, a portar loro lettere e inbasciate da parte della loro moglie: ché così era di consentimento17 del Duca, che solo il procaccio potessi parlar loro, e altri no, sotto pena della medesima contumazia18 in che loro erano. In questo mezzo, per essere poco più di ventidua ore, noi ce ne andammo, il Tribulo e io, a veder tornare il duca di Ferrara 19, il quale era ito a Belfiore20 a veder giostrare. Inel suo ritorno noi scontrammo molti fuora usciti, e’ quali ci guardavano fiso, quasi isforzandoci di parlar con esso loro. Il Tribolo, che era il più pauroso uomo che io cognoscessi mai, non cessava di dirmi: "Non gli guardare e non parlare con loro, se tu vuoi tornare a Firenze". Così stemmo a veder tornare il Duca; di poi tornaticene a l’osteria, ivi trovammo Lamentone. E fattosi vicina a un’ora di notte, ivi comparse Nicolò Benintendi e Piero suo fratello, e un altro vecchione, qual credo che fussi Iacopo Nardi, insieme con parecchi altri, giovani; e’ quali subito giunti dimandavano il procaccia, ciascuno delle sue brigate di21 Firenze: il Tribolo e io stavamo là discosto, per non parlar con loro. Di poi che gli ebbono ragionato un pezzo con Lamentone, quel Nicolò Benintendi disse: "Io gli cogniosco quei dua benissimo: perché fann’eglino tante merde22 di non ci voler parlare?" Il Tribolo pur mi diceva 23 che io stessi cheto. Lamentone disse loro che quella licenzia che era data a lui, non era data a noi. Il Benintendi aggiunse e disse che l’era una asinità, mandandoci cancheri e mille belle cose.24 Allora io alzai la testa con più modestia che io potevo e sapevo, e dissi: "Cari gentiluomini, voi ci potete nuocere assai, e noi a voi non possiamo giovar nulla; e con tutto che voi ci abiate detto qualche parola la quale non ci si conviene, né anche per questo non vogliamo essere adirati con esso voi". Quel vecchione de’ Nardi disse che io avevo parlato da un giovane da bene, come io ero. Nicolò Benintendi allora disse: "Io ho in culo25loro e il Duca". Io replicai che con noi egli aveva torto, che non avevàno26 che far nulla de’ casi sua. Quel vecchio de’ Nardi la prese per noi27, dicendo al Benintendi che gli aveva il torto: onde lui pur continuava di dire parole ingiuriose. Per la qual cosa io li dissi che io li direi e farei delle cose che gli dispiacerebbono: sì che attendessi al fatto suo, e lasciassici stare. Rispose che aveva in culo il Duca e noi di nuovo, e che noi e lui eramo un monte di asini. Alle qual parole mentitolo per la gola 28, tirai fuora la spada; e ’I vecchio, che volse essere il primo alla scala29, pochi scaglioni in giù30 cadde, e loro tutti l’un sopra l’altro addòssogli 31. Per la qual cosa io, saltato inanzi, menavo la spada per le mura con grandissimo furore, dicendo: "Io vi ammazzerò tutti"; e benissimo avevo riguardo a non far lor male, ché troppo ne arei potuto fare. A questo romore l’oste gridava; Lamenton diceva: "Non fate";32alcuni di loro dicevano: "Oimè il capo!"; altri: "Lasciami uscir di qui". Questa era una bussa 33 inistimabile: parevano un branco di porci: l’oste venne col lume; io mi ritirai sù e rimessi la spada. Lamentone diceva a Nicolò Benintendi che gli34 aveva mal fatto; l’oste disse a Nicolò Benintendi: "E’ ne va la vita a metter mano per l’arme qui, e se il Duca 35 sapessi queste vostre insolenzie, vi farebbe appiccare per la gola: sì che io non vi voglio fare quello che voi meriteresti; ma non mi ci capitate mai più in questa osteria, ché guai a voi". L’oste venne sù da me, è volendomi io scusare, non mi lasciò dire nulla, dicendomi che sapeva che io avevo mille ragioni, e che io mi guardassi bene inel viaggio da loro.
LXXVII. Cenato che noi avemmo, comparse sù un barcheruolo per levarci per1 Vinezia; io dimandai se lui mi voleva dare la barca libera 2: così fu contento, e di tanto facemmo patto. La mattina a buonotta 3 noi pigliammo i cavagli per andare al porto, quale è non so che poche miglia lontano da Ferrara; e giunto che noi fummo al porto, vi trovammo il fratello di Nicolò Beneintendi con tre altri compagni, i quali aspettavano-che io giugnessi: in fra loro era dua pezzi di arme in asta 4, e io avevo compro un bel giannettone 5 in Ferrara. Essendo anche benissimo armato, io non mi sbigotti’ punto, come fece il Tribolo che disse: "Idio ci aiuti: costor son qui per ammazzarci". Lamentone si volse a me e disse: "Il meglio che tu possa fare si è tornartene a Ferrara, perché io veggo la cosa pericolosa. Di grazia, Benvenuto mio, passa 6 la furia di queste bestie arrabiate": Allora io dissi: "Andiàno 7 inanzi, perché chi ha ragione Idio l’aiuta; e voi vedrete come mi aiuterò da me. Quella barca non è ella caparrata 8 per noi?" "Sì", disse Lamentone. "E noi in quella staremo sanza loro, per quanto potrà la virtù 9 mia." Spinsi inanzi il cavallo, e quando fu presso a cinquanta passi, scavalcai e arditamente col mio giannettone andavo innanzi. Il Tribolo s’era fermato indietro ed era rannicchiato in sul cavallo, che pareva il freddo stesso; e Lamentone procaccio gonfiava e soffiava che pareva un vento: ché così era il suo modo di fare; ma più lo faceva allora che il solito, stando a considerare che fine avessi avere quella diavoleria. Giunto alla barca, il barcheruolo mi si fece innanzi e mi disse che quelli parecchi gentiluomini fiorentini volevano entrare di compagnia nella barca, se io me ne contentavo 10. Al quale io dissi: "La barca è caparrata per noi, e non per altri, e m’increscie insino al cuore di non poter essere con loro". A queste parole un bravo 11 giovane de’ Magalotti disse: "Benvenuto, noi faremo 12 che tu potrai". Allora io dissi: "Se Idio e la ragione che io ho, insieme con le forze mie vorranno o potranno, voi non mi farete poter quel che voi dite". E con le parole insieme saltai nella barca. Volto lor la punta dell’arme, dissi: "Con questa vi mostrerrò che io non posso". Voluto fare un poco di dimostrazione, messo mano all’arme e fattosi innanzi quel de’ Magalotti, io saltai in su l’orlo della barca, e tira’gli un così gran colpo, che se non cadeva rovescio in terra, io lo passavo a banda a banda. Gli altri compagni, scambio 13 di aiutarlo, si ritirorno indietro; e veduto che io l’arei potuto ammazzare, in cambio di dargli, io li dissi: "Lèvati sù, fratello, e piglia le tue arme e vattene: bene hai tu veduto che io non posso quel che io non voglio, e quel che io potevo fare non ho voluto". Di poi chiamai drento il Tribolo e il barcheriuolo e Lamentone; così ce ne andammo alla volta di Vinezia. Quando noi fummo dieci miglia per il Po, quelli giovani erano montati in su una fusoliera 14 e ci raggiunsono; e quando a noi furno al dirimpetto, quello isciocco di Pier Beneintendi mi disse: "Vien pur via, Benvenuto, ché ci rivedremo in Vinezia". "Avviatevi che io vengo" dissi; "e per tutto mi lascio rivedere." Così arrivammo a Vinezia. Io presi parere 15 da un fratello del cardinal Cornaro, dicendo che mi facessi favore che io potessi aver l’arme16; qual mi disse che liberamente io la portassi, che il peggio che me ne andava si era perder la spada17.
LXXVIII. Così portando l’arme, andammo a visitare Iacopo del Sansovino scultore, il quale aveva mandato per il Tribolo; e a me fece gran carezze, e vuolseci dar desinare, e seco restammo. Parlando col Tribolo, gli disse che non se ne voleva servire per allora, e che tornassi un’altra volta. A queste parole io mi cacciai a ridere, e piacevolmente dissi al Sansovino: "Gli è troppo discosto la casa vostra dalla sua, avendo a tornare1 un’altra volta". Il povero Tribolo sbigottito disse: "Io ho qui la lettera, che voi mi avete scritta, che io venga". A questo disse il Sansovino che i sua pari, uomini da bene e virtuosi, potevan fare quello e maggior cosa 2. Il Tribolo si ristrinse nelle spalle e disse "Pazienzia" parecchi volte. A questo, non guardando 3 al desinare abundante che mi aveva dato il Sansovino, presi la parte4del mio compagno Tribolo, che aveva ragione. E perché a quella mensa il Sansovino non aveva mai restato di cicalare delle sue gran pruove 5, dicendo mal di Michelagniolo e di tutti quelli che facevano tal arte, solo lodando se istesso a maraviglia; questa cosa mi era venuta tanto a noia, che io non avevo mangiato boccon che mi fussi piaciuto, e solo dissi queste dua parole: "O messer Iacopo, li uomini da bene fanno le cose da uomini da bene, e quelli virtuosi, che fanno le belle opere e buone, si cognioscono molto meglio quando sono lodati da altri, che a lodarsi così sicuramente da per loro medesimi". A queste parole e lui e noi ci levammo da tavola bofonchiando. Quel giorno medesimo, trovandomi per Venezia presso al Rialto, mi scontrai in Piero Benintendi, il quale era con parecchi; e avedutomi che loro cercavano di farmi dispiacere, mi ritirai in una bottega d’uno speziale, tanto che io lasciai passare quella furia. Dipoi io intesi che quel giovane de’ Magalotti, a chi 6 io avevo usato cortesia, molto gli aveva sgridati; e così si passò.
LXXIX. Da poi pochi giorni appresso ce ne ritornammo alla volta di Firenze; ed essendo alloggiati a un certo luogo, il quale è di qua da Chioggia in su la man manca venendo inverso Ferrara, l’oste volse essere pagato a suo modo innanzi che noi andassimo a dormire; e dicendogli che innegli altri luoghi si usava di pagare la mattina, ci disse: "Io voglio esser pagato la sera, e a mio modo". Dissi a quelle parole che gli uomini che volevan fare a lor modo, bisogniava che si facessino un mondo a lor modo, perché in questo non si usava così. L’oste rispose che io non gli affastidissi il cervello, perché voleva fare a quel modo. Il Tribolo tremava di paura, e mi punzecchiava che io stessi cheto, acciò che loro 1non ci facessino peggio: così lo pagammo a lor modo; poi ce ne andammo a dormire. Avemmo di buono bellissimi letti, nuovi ogni cosa 2 e veramente puliti: con tutto questo io non dormi’ mai, pensando tutta quella notte in che modo io avevo da fare a vendicarmi. Una volta mi veniva in pensiero di ficcargli fuogo in casa; un’altra di scannargli quattro cavagli buoni, che gli aveva nella stalla; tutto vedevo che m’era facile il farlo, ma non vedevo già l’esser facile il salvare me e il mio compagno. Presi per ultimo spediente 3 di mettere le robe e’ compagni inella barca, e così feci; e attaccato i cavalli all’alzana 4, che tiravano la barca, dissi che non movessino la barca in sino che io ritornassi, perché avevo lasciato un paro di mia pianelle nel luogo dove io avevo dormito. Così tornato ne l’osteria domandai l’oste; il qual mi rispose 5 che non aveva che far di noi, e che noi andassimo al bordello.6 Quivi era un suo fanciullaccio ragazzo di stalla, tutto sonnachioso, il quale mi disse: "L’oste non si moverebbe per il Papa, perché e’ dorme seco una certa poltroncella che lui ha bramato assai"; e chiesemi la bene andata7: onde io li detti parecchi di quelle piccole monete veniziane, e li dissi che trattenessi 8un poco quello che tirava l’alzana, insinché io cercassi delle mie pianelle e ivi tornassi. Andatomene sù, presi un coltelletto che radeva9, e quattro letti che v’era, tutti gli tritai con quel coltello: in modo che io cogniobbi aver fatto un danno di più di cinquanta soudi. E tornato alla barca con certi pezzuoli di quelle sarge10 nella mia saccoccia, con fretta dissi al guidatore dell’alzana che prestamente parassi via11. Scostatici un poco dalla osteria, el mio compar Tribolo disse che aveva lasciato certe coreggine che legavano la sua valigetta, e che voleva tornare per esse a ogni modo. Alla qual cosa io dissi che non la guardassi in 12 dua coreggie piccine, perché io gnene farei delle grande quante egli vorrebbe. Lui mi disse io 13 ero sempre in su la burla, ma che voleva tornare per le sue coreggie a ogni modo; e faccendo forza all’alzana 14 che e’ fermassi, e io dicevo che parassi innanzi, in mentre gli dissi il gran danno che io avevo fatto a l’oste; e mostratogli il saggio di certi pezzuoli di sarge e altro, gli entrò un triemito addosso sì grande, che egli non cessava di dire all’alzana: "Para via, para via presto"; e mai si tenne sicuro di questo pericolo, per insino che noi fummo ritornati alle porte di Firenze. Alle quali giunti, il Tribolo disse: "Leghiamo le spade per l’amor de Dio, e non me ne fate più: ché sempre m’è parso avere le budella ’n un catino 15". Al quale io dissi: "Compar mio Tribolo, a voi non accade 16 legare la spada, perché voi non l’avete mai isciolta"; e questo io lo dissi accaso 17, per non gli avere mai veduto fare segno di uomo in quel viaggio. Alla quale cosa lui guardatosi la spada, disse: "Per Dio che voi dite il vero, ché la sta legata in quel modo che io l’acconciai innanzi che io uscissi di casa mia". A questo mio compare gli pareva che io gli avessi fatto una mala compagnia, per essermi risentito e difeso contra quelli che ci avevano voluto fare dispiacere; e a me pareva che lui l’avessi fatta molto più cattiva a me, a non si mettere aiutarmi in cotai bisogni. Questo lo giudichi chi è da canto sanza passione 18.
LXXX. Scavalcato che io fui 1, subito andai a trovare il duca Lessandro e molto lo ringraziai del presente de’ cinquanta scudi, dicendo a sua Eccellenzia che io ero paratissimo 2 a tutto quello che io fussi buono a servire sua Eccellenzia. Il quale subito m’impose che io facessi le stampe delle sue monete; e la prima che io feci si fu una moneta di quaranta soldi, con la testa di sua Eccellenzia da una banda e dall’altra un san Cosimo e un san Damiano. 3 Queste furono monete d’argento, e piacquono tanto, che il Duca ardiva di dire che quelle erano le più belle monete di Cristianità. Così diceva tutto Firenze, e ogniuno che le vedeva. Per la qual cosa io chiesi a sua Eccellenzia che mi fermassi una provvisione 4, e che mi facessi consegniare le stanze della zecca; il quale mi disse che io attendessi a servirlo, e che lui mi darebbe molto più di quello che io gli domandavo; e intanto mi disse che aveva dato commessione al maestro della zecca, il quale era un certo Carlo Acciaiuoli, e a lui andassi per tutti li dinari che io volevo; e così trovai esser vero: ma io levavo tanto assegnatamente 5 li danari, che sempre restavo a ’vere6qualche cosa, sicondo il mio conto. Di nuovo feci le stampe per il giulio, quale era un san Giovanni in profilo a sedere con un libro in mano, che a me non parve mai aver fatto opera così bella; e dall’altra banda era l’arme del ditto duca Lessandro. 7A presso a questa io feci la stampa per i mezzi giuli, innella quale io vi feci una testa in faccia di un san Giovannino.8 Questa fu la prima moneta con la testa in faccia in tanta sottigliezza di argento, che mai si facessi; e questa tale dificultà non apparisce, se none agli occhi di quelli che sono eccellenti in cotal professione. Appresso a questa io feci le stampe per li scudi d’oro; innella quale era una croce da una banda con certi piccoli cherubini, e dall’altra banda si era l’arme di sua Eccellenzia.9 Fatto che io ebbi queste quattro sorte di monete, io pregai sua Eccellenzia che terminassi 10 la mia provisione, e mi consegniassi le sopraditte stanze, se a quella piaceva il mio servizio: alle qual parole sua Eccellenzia mi disse benignamente che era molto contenta, e che darebbe cotai ordini. Mentre che io gli parlavo, sua Eccellenzia era inella sua guardaroba e considerava 11 un mirabile scoppietto, che gli era stato mandato della Alamagnia 12: il quale bello strumento, vedutomi che io con grande attenzione lo guardavo, me lo porse in mano, dicendomi che sapeva benissimo quanto io di tal cosa mi dilettavo, e che per arra 13 di quello che lui mi aveva promesso, io mi pigliassi della sua guardaroba uno archibuso a mio modo, da quello in fuora:14 ché ben sapeva che ivi n’era molti de’ più belli e così buoni. Alle qual parole io accettai e ringraziai; e vedutomi dare alla cerca15 con gli occhi, commise al suo guardaroba 16, che era un certo Pretino da Lucca, che mi lasciassi pigliare tutto quello che io volevo. E partitosi con piacevolissime parole, io mi restai, e scielsi il più bello e il migliore archibuso che io vedessi mai, e che io avessi mai, e questo me lo portai a casa. Dua giorni di poi io gli portai certi disegnetti che sua Eccellenzia mi aveva domandato per fare alcune opere d’oro, le quali voleva mandare a donare alla sua moglie, che per ancora era in Napoli.17Di nuovo io gli domandai la medesima mia faccenda, che e’ me la spedissi 18. Allora sua Eccellenzia mi disse che voleva in prima che io gli facessi le stampe di un suo bel ritratto19, come io avevo fatto a papa Clemente. Cominciai il ditto ritratto di cera; per la qual cosa sua Eccellenzia commisse 20 che a tutte l’ore che io andavo per ritrarlo, sempre fussi messo drento 21. Io che vedevo che questa mia faccenda andava in lungo, chiamai un certo Pietro Pagolo da Monte Ritondo, di quel di Roma, il quale era stato meco da piccol fanciulletto in Roma; e trovatolo che gli stava con un certo Bernardonaccio 22 orafo, il quale non lo trattava molto bene, per la qual cosa io lo levai da lui, e benissimo gl’insegnai mettere quei ferri23 per le monete; e intanto io ritraevo il Duca; e molte volte lo trovavo a dormicchiare doppo desinare con quel suo Lorenzino 24, che poi l’ammazzò, e non altri; e io molto mi maravigliavo che un Duca di quella sorte così si fidassi.
LXXXI. Accadde che Ottaviano de’ Medici, il quale pareva che governassi 1 ogni cosa, volendo favorire contra la voglia del Duca il maestro vecchio di zecca, che si chiamava Bastiano Cennini, uomo all’anticaccia 2 e di poco sapere, aveva fatto mescolare nelle stampe degli scudi quei sua goffi ferri con i mia:3 per la qual cosa io me ne dolsi col Duca; il quale, veduto il vero, lo ebbe molto per male, e mi disse: "Va, dillo a Ottaviano de’ Medici, e mostragnene4". Onde io subito andai; e mostratogli la ingiuria che era fatto alle mie belle monete, lui mi disse asinescamente: "Così ci piace di fare". Al quale io risposi che così non era il dovere, e non piaceva a me. Lui disse: "E se così piacessi al Duca?" Io gli risposi: "Non piacerebbe a me: ché non è giusto né ragionevole una tal cosa". Disse che io me gli levassi dinanzi, e che a quel modo la mangerei, se io crepassi 5. Ritornatomene dal Duca, gli narrai tutto quello che noi avevamo dispiacevolmente discorso, Ottaviano de’ Medici e io: per la qual cosa io pregavo sua Eccellenzia che non lasciassi far torto alle belle monete che io gli avevo fatto, e a me dessi buona licenzia. Allora e’ disse: "Ottaviano ne vuol troppo; e tu arai ciò che tu vorrai: perché cotesta è una ingiuria che si fa a me". Questo giorno medesimo, che era un giovedì, mi venne di Roma uno amplio 6 salvo condotto dal Papa, dicendomi che io andassi presto per la grazia delle Sante Marie di mezzo agosto, acciò che io potessi liberarmi di quel sospetto 7 de l’omicidio fatto. Andatomene dal Duca, lo trovai nel letto, perché dicevano che gli aveva disordinato 8; e finito in poco più di dua ore quello che mi bisogniava alla sua medaglia di cera, mostrandognene finita, li piacque assai. Allora io mostrai a sua Eccellenzia il salvo condotto auto per ordine del Papa, e come il Papa mi richiedeva che io gli facessi certe opere: per questo andrei a riguadagniare quella bella città di Roma, e intanto lo servirei della sua medaglia. A questo il Duca disse mezzo in collora: "Benvenuto, fa a mio modo, non ti partire: perché io ti risolverò 9 la provvisione, e ti darò le stanze in zecca con molto più di quello che tu non mi sapresti domandare, perché tu mi domandi quello che è giusto e ragionevole; e chi vorrestù 10 che mi mettessi le mia belle stampe11 che tu m’hai fatte?" Allora io dissi: "Signore, e’ s’è pensato a ogni cosa, perché io ho qui un mio discepolo, il quale è un giovane romano, a chi 12 io ho insegniato, che servirà benissimo la Eccellenzia vostra per insino che io ritorno con la sua medaglia finita a starmi poi seco sempre. E perché io ho in Roma la mia bottega aperta con lavoranti e alcune faccende, auto che io ho la grazia, lasserò tutta la divozione 13 di Roma a un mio allevato 14 che è là, e di poi con la buona grazia di vostra Eccellenzia me ne tornerò a lei". A queste cose era presente quello Lorenzino sopraddetto de’ Medici e non altri: il Duca parecchi volte l’accennò 15 che ancora 16 lui mi dovessi confortare 17 a fermarmi: per la qual cosa il ditto Lorenzino non disse mai altro, se none: "Benvenuto, tu faresti il tuo meglio a restare." Al quale io dissi che io volevo riguadagnare Roma a ogni modo. Costui non disse altro, e stava continuamente guardando il Duca con un malissimo 18 occhio. Io, avendo finito a mio modo la medaglia e avendola serrata nel suo cassettino, dissi al Duca: "Signore, state di buona voglia, ché io vi farò molto più bella medaglia che io non feci a papa Clemente: ché la ragion vuole che io faccia meglio, essendo quella la prima che io facessi mai; e messer Lorenzo qui mi darà qualche bellissimo rovescio 19, come persona dotta e di grandissimo ingegnio". A queste parole il ditto Lorenzo subito rispose dicendo: "Io non pensavo a altro, se none a darti un rovescio che fussi degnio di sua Eccellenzia". El Duca sogghignò, e guardato Lorenzo, disse: "Lorenzo, voi gli darete il rovescio, e lui lo farà qui, e non si partirà". Presto rispose Lorenzo, dicendo: "Io lo farò il più presto ch’io posso, e spero far cosa da far maravigliare il mondo 20". Il Duca, che lo teneva quando per pazzericcio e quando21 per poltrone, si voltolò nel letto e si rise delle parole che gli aveva detto. Io mi parti’ sanza altre cirimonie di licenzia, e gli lasciai insieme soli. Il Duca, che non credette che io me ne andassi, non mi disse altro. Quando e’ seppe poi che io m’ero partito, mi mandò drieto un suo servitore, il quale mi raggiunse a Siena, e mi dette cinquanta ducati d’oro da parte del Duca, dicendomi che io me gli godessi per suo amore, e tornassi più presto che io potevo. "E da parte di messer Lorenzo ti dico che lui ti mette in ordine un rovescio maraviglioso per quella medaglia che tu vuoi fare." Io avevo lasciato tutto l’ordine 22 a Pietropagolo romano sopraditto in che modo egli avev’a mettere le stampe; ma perché l’era cosa difficilissima, egli non le misse mai troppo bene. Restai creditore della zecca, di fatture di mie ferri, di 23 più di settanta scudi.
LXXXII. Me ne andai a Roma, e meco ne portai quel bellissimo archibuso a ruota che mi aveva donato il Duca, e con grandissimo mio piacere molte volte lo adoperai per via, faccendo con esso pruove inistimabile. Giunsi a Roma; e perché io tenevo una casetta in istrada Iulia, la quale non essendo in ordine, io andai a scavalcare a casa di messer Giovanni Gaddi cherico di Camera, al quale io avevo lasciato in guardia al mio partir di Roma molte mie belle arme e molte altre cose che io avevo molte care. Però io non volsi scavalcare alla bottega mia; e mandai per quel Filice mio compagno, e fecesi mettere in ordine subito quella mia casina benissimo. Dipoi l’altro giorno 1 vi andai a dormir drento, per essermi molto bene messo in ordine di panni e di tutto quello che mi faceva mestiero 2, volendo la mattina seguente andare a visitare il Papa per ringraziarlo. Avevo dua servitori fanciulletti, e sotto alla casa mia ci era una lavandara, la quale pulitissimamente mi cucinava. Avendo la sera dato cena a 3 parecchi mia amici, con grandissimo piacere passato quella cena, me ne andai a dormire; e non fu sì tosto apena passato la notte, che la mattina più d’un’ora avanti il giorno io senti’ con grandissimo furore battere la porta della casa mia, ché l’un colpo non aspettava l’altro. Per la qual cosa io chiamai quel mio servitor maggiore, che aveva nome Cencio: era quello che io menai nel cerchio di negromanzia; dissi che andassi a vedere chi era quel pazzo che a quell’ora così bestialmente picchiava. Inmentre che Cencio andava, io acceso un altro lume, che continuamente uno sempre ne tengo la notte, subito mi missi adosso sopra la camicia una mirabil camicia di maglia 4, e sopra essa un poco di vestaccia a caso. Tornato Cencio, disse: "Oimè! padrone mio, egli è il bargello con tutta la corte, e dice che se voi non fate presto, che getterà l’uscio in terra; e hanno torchi 5 e mille cose con loro". Al quale io dissi: "Dì loro che io mi metto un poco di vestaccia addosso, e così in camicia ne vengo". Inmaginatomi che e’ fussi6 uno assassinamento, sì come già fattomi dal signor Pierluigi, con la mano destra presi una mirabil daga che io avevo, con la sinistra il salvo condotto; di poi corsi alla finestra di drieto, che rispondeva 7 sopra certi orti, e quivi viddi più di trenta birri: per la qual cosa io cognobbi da quella banda non poter fuggire. Messomi que’ dua fanciulletti inanzi, dissi loro che aprissino la porta quando io lo direi loro apunto. Messomi in ordine, la daga nella ritta e ’l salvo condotto nella manca, in atto veramente di difesa, dissi a que’ dua fanciulletti: "Non abbiate paura, aprite". Saltato subito Vittorio bargello 8 con du’ altri drento, pensando facilmente di poter mettermi le mani addosso, vedutomi in quel modo in ordine, si ritirorno indrieto e dissono: "Qui bisogna altro che baie9". Allora io dissi, gittato loro il salvo condotto: "Leggete quello e, non mi possendo pigliare, manco voglio che mi tocchiate". Il bargello allora disse a parecchi di quelli che mi pigliassino, e che il salvo condotto si vedria da poi. A questo, ardito spinsi inanzi l’arme e dissi: "Idio sia per la ragione: o vivo fuggo, o morto preso10". La stanza si era istretta: lor fecion segnio di venire a me con forza, e io grande atto di difesa: per la qual cosa il bargello cognobbe di non mi poter avere in altro modo che quel 11 che io avevo detto. Chiamato il cancelliere, inmentre che faceva leggere il salvo condotto, fece segno dua o tre volte di farmi mettere le mani adosso: onde io non mi mossi mai da quella resoluzione fatta. Toltosi dalla12 impresa, mi gittorno il salvo condotto in terra, e senza me se ne andarono.
LXXXIII. Tornatomi a riposare, mi senti’ forte travagliato 1, né mai possetti rappiccar 2 sonno. Avevo fatto proposito che, come gli era giorno, di farmi trar sangue 3: però ne presi consiglio da misser Giovanni Gaddi, e lui da un suo mediconzolo 4, il quale mi domandò se io avevo auto paura. Or cognoscete voi che giudizio di medico fu questo, avendogli conto 5 un caso sì grande, e lui farmi una tal dimanda! Questo era un certo civettino 6, che rideva quasi continuamente e di nonnulla; e in quel modo ridendo, mi disse che io pigliassi un buon bicchier di vin greco, e che io attendessi a stare allegro e non aver paura. Messer Giovanni pur diceva7: "Maestro, chi 8 fussi di bronzo o di marmo a questi casi tali arebbe paura: or maggiormente uno uomo". A questo quel mediconzolino disse: "Monsignore, noi non siamo tutti fatti a un modo: questo non è uomo né di bronzo né di marmo, ma è di ferro stietto 9"; e messomi le mane al polso, con quelle sua sproposite 10 risa, disse a messer Giovanni: "Or toccate qui: questo non è polso di uomo, ma è d’un leone o d’un dragone"; onde io, che avevo il polso forte 11 alterato, forse fuor di quella misura che quel medico babbuasso 12 non aveva inparata né da Ipocrate né da Galeno 13, sentivo ben io il mio male, ma per non mi far più paura né più danno di quello che aùto io avevo, mi dimostravo di buono animo 14. In questo tanto 15 il ditto messer Giovanni fece mettere in ordine da desinare, e tutti di compagnia mangiammo: la quale era,16 insieme con il ditto messer Giovanni, un certo misser Lodovico da Fano, messer Antonio Allegretti, messer Giovanni Greco, tutte persone litteratissime, messer Annibal Caro, quale era molto giovane; né mai si ragionò d’altro a quel desinare, che di questa brava faccenda 17. E’ più la facievan contare a quel Cencio, mio servitorino, il quale era oltramodo ingegnioso, ardito e bellissimo di corpo: il che tutte le volte che lui contava questa mia arrabbiata faccenda, facendo l’attitudine 18 che io faceva, e benissimo dicendo le parole ancora che io dette aveva, sempre mi sovveniva qualcosa di nuovo; e spesso loro lo domandavano se egli aveva auto paura: alle qual parole lui rispondeva che dimandassino me se io avevo auto paura: perché lui aveva auto quel medesimo che avevo aùto io. Venutomi a noia questa pappolata 19, e perché io mi sentivo alterato forte, mi levai da tavola, dicendo che io volevo andare a vestirmi di nuovo di panni e seta azzurri, lui e io; che volevo andare in processione ivi a quattro giorni, che veniva le Sante Marie, e volevo il ditto Cencio mi portassi il torchio bianco acceso. Così partitomi andai a tagliare 20 e’ panni azzurri con una bella vestetta di ermisino 21 pure azzurro e un saietto del simile;22 e a lui feci un saio e una vesta di taffettà, pure azzurro. Tagliato che io ebbi le ditte cose, io me ne andai dal Papa; il quale mi disse che io parlassi col suo messer Ambruogio: ché aveva dato ordine che io facessi una grande opera d’oro. Così andai a trovare misser Ambruogio; il quale era informato benissimo della cosa del bargello, ed era stato lui d’accordo con i nimici mia per farmi tornare, e aveva isgridato il bargello che non mi aveva preso; il qual si scusava che contra a uno salvo condotto a quel modo lui non lo poteva fare. Il ditto messer Ambruogio mi cominciò a ragionare della faccenda che gli aveva commesso il Papa; di poi mi disse che io ne facessi i disegni e che si darebbe a 23 ogni cosa. Intanto ne venne il giorno delle Sante Marie; e perché l’usanza si è, quelli che hanno queste cotai grazie, di costituirsi in prigione 24: per la qual cosa io mi ritornai al Papa e dissi a sua Santità che io non mi volevo mettere in prigione, e che io pregavo quella 25 che mi facessi tanto di grazia, che io non andassi prigione. Il Papa mi rispose che così era l’usanza, e così si facessi. A questo io m’inginocchiai di nuovo, e lo ringraziai del salvo condotto che sua Santità mi aveva fatto; e che con quello me ne ritornerei a servire il mio Duca di Firenze, che con tanto desiderio mi aspettava. A queste parole il Papa si volse a un suo fidato e disse: "Faccisi a Benvenuto la grazia senza il carcere; così se gli acconci 26 il suo moto propio, che stia bene". Fattosi acconciare il moto propio, il Papa lo risegnò 27: fecesi registrare al Campidoglio; di poi, quel deputato 28 giorno, in mezzo a dua gentiluomini molto onoratamente andai in processione ed ebbi la intera grazia.
LXXXIV. Dappoi quattro giorni appresso, mi prese una grandissima febbre con freddo inistimabile; e postomi a letto, subito mi giudicai mortale 1. Feci chiamare i primi medici di Roma, in fra i quali si era un maestro Francesco da Norcia, medico vecchissimo e di maggior credito che avessi Roma. Contai alli detti medici quale io pensavo che fussi stata la causa del mio gran male, e che io mi sarei voluto trar sangue, ma io fui consigliato di no; e se io fussi a tempo, li pregavo che me ne traessino. Maestro Francesco rispose che il trarre sangue ora non era bene, ma allora 2 sì, ché non arei auto un male al mondo; ora bisogniava medicarmi per un’altra via. Così messono mano a medicarmi con quanta diligenzia e’ potevano e sapevano al mondo; e io ogni dì peggioravo a furia 3, in modo che in capo di otto giorni il mal crebbe tanto, che li medici disperati della impresa detton commessione4Che io fussi contento 5 e mi fussi dato tutto quello che io domandavo. Maestro Francesco disse: "Insinché v’è fiato, chiamatemi a tutte l’ore, perché non si può inmaginare quel che la natura sa fare in un giovane di questa sorte 6: però avvenga 7 che lui svenissi, fategli questi cinque rimedi l’un dietro all’altro, e mandate per me, ché io verr ò a ogni ora della notte: ché più grato mi sarebbe di campar 8 costui, che qualsivoglia cardinal di Roma." Ogni dì mi veniva a visitare dua o tre volte messer Giovanni Gaddi, e ogni volta pigliava in mano di quei miei belli scoppietti e mie maglie 9 e mie spade, e continuamente diceva: "Questa cosa è bella, e quest’altra è più bella"; così di mia altri modelletti e coselline: di modo che io me l’avevo recato10a noia. E con esso veniva un certo Mattio Franzesi, il quale pareva che gli paressi mill’anni ancora a lui11 io mi morissi; non perché a lui avessi a toccar nulla del mio, ma pareva che lui desiderassi quel che misser Giovanni mostrava aver gran voglia. Io avevo quel Filice già detto mio compagno, il quale mi dava il maggiore aiuto che mai al mondo potessi dare uno uomo a un altro. La natura 12 era debilitata e avvilita a fatto 13; e non mi era restato tanta virtù 14 che, uscito il fiato, io lo potessi ripigliare; ma sì bene la saldezza del cervello istava forte, come la faceva quando io non avevo male. Inperò stando così in cervello, mi veniva a trovare a letto un vecchio terribile, il quale mi voleva istrascicare per forza drento in una sua barca grandissima 15: per la qual cosa io chiamavo quel mio Felice, che si accostassi a me, e che cacciassi via quel vecchio ribaldo. Quel Felice, che mi era amorevolissimo, correva piagnendo e diceva: "Tira via 16, vecchio traditore, che mi vuoi rubare ogni mio bene". Messer Giovanni Gaddi allora, ch’era quivi alla presenza, diceva: "Il poverino farnetica, e ce n’è per poche ore". Quell’altro Mattio Franzesi diceva: "Gli ha letto Dante, e in questa grande infermità gli è venuto quella vagillazione 17"; e diceva così ridendo: "Tira via, vecchio ribaldo, e non dare noia al nostro Benvenuto". Vedutomi schernire, io mi volsi a messer Giovanni Gaddi e a lui dissi: "Caro mio padrone, sappiate che io non farnetico, e che gli è il vero di questo vecchio, che mi dà questa gran noia. Ma voi faresti bene il meglio 18 a levarmi dinanzi cotesto isciagurato di Mattio, che si ride del mio male; e da poi che vostra Signoria mi fa degnio che io la vegga, doverresti venirci con messer Antonio Allegretti o con messer Annibal Caro, o con di quelli altri vostri virtuosi, i quali son persone d’altra discrezione e d’altro ingegno, che non è cotesta bestia". Allora messer Giovanni disse per motteggio 19 a quello Mattio che si gli levassi dinanzi per sempre; ma perché Mattio rise, il motteggio divenne da dovero 20, perché mai più messer Giovanni non lo volse vedere, e fece chiamare messer Antonio Allegretti e messer Lodovico e messer Annibal Caro. Giunti che furono questi uomini da bene, io ne presi grandissimo conforto, e con loro ragionai in cervello 21 un pezzo, pure sollecitando Felice che cacciassi via il vecchie.22 Misser Lodovico mi dimandava quel che mi pareva vedere, e come gli era fatto. Inmentre che io gnene disegniavo con le parole bene, questo vecchio mi pigliava per un braccio, e per forza mi tirava a sé: per la qual cosa io gridavo che mi aiutassino, perché mi voleva gittar sotto coverta in quella sua spaventata23 barca. Ditto quest’ultima parola, mi venne uno sfinimento grandissimo, e a me parve che mi gettassi in quella barca. Dicono che allora in questo svenire, che io mi scagliavo e che io dissi di male parole a messer Giovanni Gaddi, sì24 che veniva per rubarmi e non per carità nessuna; e molte altre bruttissime parole, le quale fecion vergogniare il ditto messer Giovanni. Di poi dissono che io mi fermai come morto; e soprastati 25 più d’un’ora, parendo loro che io mi freddassi, per morto mi lasciorono. E ritornati a casa loro, lo seppe quel Mattio Franzesi, il quale scrisse a Firenze a messer Benedetto Varchi, mio carissimo amico, che alle tante ore di notte lor mi avevano veduto morire. Per la qual cosa quel gran virtuoso di messer Benedetto e mio amicissimo, sopra la non vera ma sì ben creduta morte fece un mirabil sonetto, il quale si metterà al suo luogo26. Passò più di tre grande27 ore prima che io mi rinvenissi; e fatto tutti e’ rimedi del sopraditto maestro Francesco, veduto che io non mi risentivo, Felice mio carissimo si cacciò a correre a casa 28 maestro Francesco da Norcia, e tanto picchiò che egli lo svegliò e fecelo levare, e piagnendo lo pregava che venissi a casa, ché pensava che io fussi morto. Al quale, maestro Francesco, che era collorosissimo,29 disse: "Figlio, che pensi tu che io faccia a venirvi? se gli è morto, a me duol egli più che a te; pensi tu che con la mia medicina, venendovi, io li possa soffiare in culo e rendertelo vivo?" Veduto che ’l povero giovane se ne andava piangendo, lo chiamò indrieto e gli dette certo olio da ugnermi e’ polsi e il cuore, e che mi serrassino istrettissime le dita migniole dei piedi e delle mane; e che se io rinvenivo, che subito lo mandassimo a chiamare. Partitosi Felice, fece quanto maestro Francesco gli aveva detto; e essendo fatto quasi dì chiaro e parendo loro d’esser privi di speranza, dettono ordine a fare la vesta 30 e a lavarmi. In un tratto io mi risenti’, e chiamai Felice, che presto presto cacciassi via quel vecchio che mi dava noia. Il qual Felice volse mandare per maestro Francesco; e io dissi che non mandassi e che venissi quivi da me, perché quel vecchio subito si partiva e aveva paura di lui. Accostatosi Felice a me, io lo toccavo e mi pareva che quel vecchio infuriato si scostassi: però 31 lo pregavo che stessi sempre da me. Comparso maestro Francesco, disse che mi voleva campare a ogni modo, e che non aveva mai veduto maggior virtù 32 in un giovane, a’ sua dì, di quella; e dato mano allo scrivere, 33 mi fece profumi, lavande, unzione, impiastri e molte cose inistimabile. Intanto io mi risenti’ con più di venti migniatte al culo, forato, legato e tutto macinato34. Essendo venuto molti mia amici a vedere il miracolo de il resuscitato morto, era comparso uomini di grande inportanza e assai; presente i quali io dissi che quel poco de l’oro e de’ danari, quali potevano essere in circa ottocento scudi fra oro, argento, gioie e danari, questi volevo che fussino della mia povera sorella che era a Firenze, quale aveva per nome monna Liperata; tutto il restante della roba mia, tanto arme quanto ogni altra cosa, volevo che fussino del mio carissimo Filice, e cinquanta ducati d’oro più, acciò che lui si potessi vestire. A queste parole Filice mi si gittò al collo, dicendo che non voleva nulla, altro che mi voleva vivo. Allora io dissi: "Se tu mi vuoi vivo, toccami a cotesto modo, e sgrida a cotesto vecchio, che ha di te paura". A queste parole v’era di quelli che spaventavano 35, conosciuto che io non farneticavo, ma parlavo a proposito e in cervello. Così andò faccendo36 il mio gran male, e poco miglioravo. Maestro Francesco eccellentissimo veniva quattro volte o cinque il giorno; misser Giovanni Gaddi, che s’era vergogniato, non mi capitava più innanzi. Comparse il mio cognato, marito della ditta mia sorella: veniva di Fiorenze per la eredità; e perché gli era molto uomo da bene, si rallegrò assai l’avermi trovato vivo: il quale a me dette un conforto inistimabile il vederlo, e subito mi fece carezze dicendo d’essere venuto solo per governarmi 37 di sua mano propria; e così fece parecchi giorni. Di poi io ne lo mandai,38 avendo quasi sicura isperanza di salute. Allora lui lasciò il sonetto di messer Benedetto Varchi, quale è questo:
Chi ne consolerà, Mattio39? chi fia
che ne vieti il morir piangendo, poi
che pur è vero, oimè, che sanza noi
così per tempo al Ciel salita sia
quella chiara alma amica, in cui fioria
virtù cotal, che fino a’ tempi suoi
non vidde equal,40 né vedrà, credo, poi
il mondo, onde i miglior si fuggon pria?
Spirto gentil, se fuor del mortal velo41
s’ama, mira dal Ciel chi in terra amasti,
pianger non già ’l tuo ben 42, ma ’l proprio male.
Tu ten sei gito a contemplar sù ’n Cielo
l’alto Fattore 43, e vivo il vedi or quale
con le tue dotte man quaggiù il formasti 44.
LXXXV. Era la infirmità stata tanta inistimabile, che non pareva possibile di venirne a fine; e quello uomo da bene di maestro Francesco da Norcia ci durava più fatica che mai, e ogni giorno mi portava nuovi rimedii, cercando di consolidare il povero istemperato istrumento 1, e con tutte quelle inistimabil fatiche non pareva che fussi possibile venire a capo di questa indegniazione 2: in modo che tutti e’ medici se ne erano quasi disperati3 non sapevano più che fare. Io, che avevo una sete inistimabile, e mi ero riguardato, sì come loro mi avevano ordinato, di molti giorni; e quel Felice, che gli pareva aver fatto una bella impresa a camparmi, non si partiva mai da me; e quel vecchio non mi dava più tanta noia, ma in sogno qualche volta mi visitava. Un giorno Felice era andato fuora, e a guardia mia era restato un mio fattorino e una serva, che si chiamava Beatrice. Io dimandavo quel fattorino quel che era stato di quel Cencio mio ragazzo, e che voleva dire che io non lo avevo mai veduto a’ mia bisogni. Questo fattorino mi disse che Cencio aveva aùto assai, maggior male di me, e che gli stava in fine di morte. Felice aveva lor comandato che non me lo dicessino. Detto che m’ebbe tal cosa, io ne presi grandissimo dispiacere; di poi chiamai quella serva detta Beatrice, pistolese, e la pregai che mi portassi pieno d’acqua chiara e fresca uno infrescatoio 4 grande di cristallo, che ivi era vicino. Questa donna corse subito, e me lo portò pieno. Io li dissi che me lo appoggiassi alla bocca e che se la me ne lasciava bere una sorsata a mio modo, io li donerei una gammurra 5. Questa serva, che m’aveva rubato certe cosette di qualche inportanza, per paura che non si ritrovassi il furto, arebbe auto molto a caro che io fussi morto: di modo che la mi lasciò bere di quell’acqua per dua riprese quant’io potetti, tanto che buonamente io ne bevvi più d’un fiasco; di poi mi copersi e cominciai a sudare e addormenta’mi. Tornato Felice di poi che io dovevo aver dormito in circa a un’ora, dimandò il 6 fanciullo quel che io facevo. Il fanciullo gli disse: "Io non lo so: la Beatrice gli ha portato pieno quello infrescatoio d’acqua, e l’ha quasi beuto tutto; io non so ora se s’è morto o vivo". Dicono che questo povero giovane fu per cadere in terra per il gran dispiacere che gli ebbe; di poi prese un mal 7 bastone, e con esso disperatamente bastonava quella serva, dicendo: "Oimè, traditora, che tu me l’hai morto8!" Inmentre che Felice bastonava e lei gridava, e io sognavo; e mi pareva che quel vecchio aveva delle corde in mano, e volendo dare ordine di legarmi, Felice l’aveva sopraggiunto e gli dava con una scura 9, in modo che questo vecchio fuggiva, dicendo: "Lasciami andare, ché io non ci verrò di gran pezzo 10". Intanto la Beatrice gridando forte era corsa in camera mia: per la qual cosa svegliatomi, dissi: "Lasciala stare, ché forse per farmi male ella m’ha fatto tanto bene, che tu non hai mai potuto, con tutte le tue fatiche, far nulla di quel che l’ha fatto ogni cosa: attendetemi a ’iutare 11, ché io son sudato; e fate presto". Riprese Filice animo, mi rasciugò e confortò; e io, che senti’ grandissimo miglioramento, mi promessi la salute 12. Comparso maestro Francesco, veduto il gran miglioramento e la serva piagnere, e ’l fattorino correre innanzi e ’ndrieto, e Filice ridere, questo scompiglio dette da credere al medico che vi fussi stato qualche stravagante caso, per la qual cosa fussi stato causa di quel mio gran miglioramento. Intanto comparse quell’altro maestro Bernardino, che da principio non mi aveva voluto cavar sangue. Maestro Francesco, valentissimo uomo, disse: "Oh potenzia della natura! lei sa e’ bisogni sua, e i medici non sanno nulla". Subito rispose quel cervellino di maestro Bernardino e disse: "Se e’ ne beeva più un fiasco 13, e’ gli era subito guarito". Maestro Francesco da Norcia, uomo vecchio e di grande autorità, disse: "Egli era il malan che Dio vi dia". E poi si volse a me, e mi domandò se io ne arei potuto ber più: al quale io dissi che no, perché io m’ero cavato la sete a fatto. Allora lui si volse al ditto maestro Bernardino e disse: "Vedete voi che la natura aveva preso a punto il suo bisogno, e non più e non manco? Così chiedev’ ella il suo bisogno, quando il povero giovane vi richiese di cavarsi sangue: se voi cognoscevi che la salute sua fussi stata ora inel bere dua fiaschi d’acqua, perché non l’aver detto prima? e voi ne aresti aùto il vanto". A queste parole il mediconsolo ingrogniato si partì, e non vi’ capitò mai più. Allora maestro Francesco disse che io fussi cavato di quella camera, e che mi facessin portare inverso un di quei colli di Roma. Il cardinal Cornaro, inteso il mio miglioramento, mi fece portare a un suo luogo14 che gli aveva in Monte Cavallo: la sera medesima io fui portato con gran diligenza in sur una sedia 15 ben coperto e saldo16. Giunto che io fui, cominciai a vomitare: inel qual vomito mi uscì dello stomaco un verme piloso 17, grande un quarto di braccio: e’ peli erano grandi e il verme era bruttissimo, macchiato di diversi colori, verdi, neri e rossi: serbossi al medico; il quale disse non aver mai veduto una tal cosa, e poi disse a Felice: "Abbi or cura al tuo Benvenuto, che è guarito, e non gli lasciar far disordini 18: perché se ben quello19 l’ha campato, un altro disordine ora te lo amazzerebbe. Tu vedi, la infermità è stata sì grande, che portandogli 20 l’olio santo noi non eramo 21 stati a tempo; ora io cogniosco che con un poco di pazienzia e di tempo e’ farà ancora dell’altre belle opere". Poi si volse a me, e disse: "Benvenuto mio, sia22 savio e non fare disordini nessuno; e come tu se’ guarito voglio che tu mi faccia una’ Nostra Donna di tua mano, perché la voglio adorar sempre per tuo amore". Allora io gnene promessi; dipoi lo domandai se fussi bene che io mi trasferissi in sino a Firenze. Allora e’ mi disse che io mi assicurassi23 un po’ meglio e che e’ si vedessi quel che la natura faceva.
LXXXVI. Passato che noi avemmo otto giorni, il miglioramento era tanto poco, che quasi io m’ero venuto a noia a me medesimo: perché io ero stato più di cinquanta giorni in quel gran travaglio; e resolutomi mi messi in ordine 1; e in un paio di ceste 2 il mio caro Filice e io ce ne andammo alla volta di Firenze 3; e perché io non avevo scritto nulla, giunsi a Firenze in casa la 4 mia sorella, dove io fui pianto e riso a un colpo5 da essa sorella. Per quel dì mi venne a vedere molti mia amici: fra gli artri 6 Pier Landi, ch’era il maggior e il più caro che io avessi mai al mondo; l’altro giorno venne un certo Nicolò da Monte Aguto, il quale era mio grandissimo amico; e perché gli aveva sentito dire al Duca: "Benvenuto faceva molto meglio a morirsi, perché gli è venuto qui a dare in una cavezza 7, e non gnene perdonerò mai", venendo Nicol ò a me, disperatamente mi disse: "Oimè, Benvenuto mio caro: che se’ tu venuto a far qui? non sapevi tu quel che tu hai fatto contro al Duca? che gli ho udito giurare, dicendo che tu sei venuto a dare in una cavezza a ogni modo". Allora io dissi: "Nicolò, ricordate a sua Eccellenzia che altretanto già mi volse fare papa Clemente, e a sì torto; che faccia tener conto di me8 e mi lasci guarire: per che io mostrerrò a sua Eccellenzia che io gli sono stato il più fidel servitore che gli arà mai in tempo di sua vita; e perché qualche mio nimico arà fatto per invidia questo cattivo uffizio9, aspetti la mia sanità, che come io posso gli renderò tal conto di me, che io lo farò maravigliare". Questo cattivo uffizio l’aveva fatto Giorgetto Vassellario 10 aretino, dipintore, forse per remunerazione di tanti benefizii fatti a lui: ché avendolo trattenuto in Roma e datogli le spese 11, e lui messomi a soqquadro la casa: perché gli aveva una sua lebbrolina secca,12 la quale gli aveva usato13 le mane a grattar sempre, e dormendo con un buon garzone che io avevo, che si domandava Manno 14, pensando di grattar sé, gli aveva scorticato una gamba al detto Manno con certe sue sporche manine, le quale15 non si tagliava mai l’ugna. Il ditto Manno prese da me licenza, e lui lo voleva ammazzare a ogni modo: io gli messi d’accordo; di poi acconciai 16 il detto Giorgio col cardinal de’ Medici17, e sempre lo aiutai. Questo è il merito 18, che lui aveva detto al duca Lessandro ch’io avevo detto male di sua Eccellenzia, e che io m’ero vantato di volere essere il primo a saltare in su le mura di Firenze, d’accordo con li nimici di sua Eccellenzia fuorasciti. Queste parole, sicondo che io intesi poi, gliene faceva dire quel galantuomo di Ottaviano de’ Medici, volendosi vendicare della stizza che aveva aùto il Duca seco per conto delle monete e della mia partita di Firenze; ma io, ch’ero innocente di quel falso appostomi 19, non ebbi una paura al mondo; e il valente maestro Francesco da Montevarchi con grandissima virtù mi medicava, e ve lo aveva condotto il mio carissimo amico Luca Martini, il quale la maggior parte del giorno si stava meco.
LXXXVII. Intanto io avevo rimandato a Roma il fidelissimo Filice alla cura delle faccende di là. Sollevato alquanto la testa dal primaccio 1, che fu in termine di2 quindici giorni, se bene io non potevo andare con i mia piedi, mi feci portare innel palazzo de’ Medici, sù dove è il terrazzino: così mi feci mettere a sedere per aspettare il Duca che passassi. E facendomi motto molti mia amici di Corte, molto si maravigliavano che io avessi preso quel disagio a farmi portare in quel modo, essendo dalla infirmità sì mal condotto; dicendomi che io dovevo pure aspettar d’esser guarito, e dipoi visitare il Duca. Essendo assai insieme ragunati, e tutti mi guardavano per 3 miracolo; non tanto l’avere inteso che io ero morto, ma più pareva loro miracolo, che come morto parevo loro. Allora io dissi, presente tutti, come gli era stato detto da qualche scellerato ribaldo al mio signor Duca, che io mi ero vantato di volere essere il primo a salire in su le mura di sua Eccellenzia, e che appresso io avevo detto male di quella 4: per la qual cosa a me non bastava la vista di vivere né di morire, se prima io non mi purgavo 5 da questa infamia, e conoscere chi fussi quel temerario ribaldo che avessi fatto quel falso rapporto. A queste parole s’era ragunato una gran quantità di que’ gentiluomini; e mostrando avere di me grandissima compassione, e chi diceva una cosa e chi un’altra; io dissi che mai più mi volevo partir di quivi, insin che io non sapevo chi era quello che mi aveva accusato. A queste parole s’accostò fra tutti que’ gentiluomini maestro Agostino, sarto del Duca, e disse: "Se tu non vuoi sapere altro che cotesto, ora ora lo saprai". A punto passava Giorgio 6 sopraditto, dipintore: allora maestro Agustino disse: "Ecco chi t’ha accusato: ora tu sai tu se gli è vero o no". Io arditamente, così come io non mi potevo muovere, dimandai Giorgio se tal cosa era vera. Il ditto Giorgio disse che no, che non era vero, e che non aveva 7 mai detto tal cosa. Maestro Austino disse: "O inpiccato,7 non sai tu che io lo so certissimo?" Subito Giorgio si partì, e disse che no, che lui non era stato. Stette poco8 e passò ’l Duca: al quali io subito mi feci sostenere innanzi a sua Eccellenzia, e lui si fermò. Allora io dissi che io ero venuto quivi a quel modo,9 solo per iustificarmi. Il Duca mi guardava e si maravigliava che io fussi vivo; di poi mi disse che io attendessi a essere uomo dabbene e guarire. Tornatomi a casa, Niccolò da Monte Aguto mi venne a trovare, e mi disse che io avevo passato una di quelle furie la maggiore del mondo, quale lui non aveva mai creduto: perché vidde il male mio scritto d’uno immutabile inchiostro 10; e che io attendessi a guarire presto, e poi mi andassi con Dio, perché la veniva11 d’un luogo e da uomo, il quale mi arebbe fatto male. E poi ditto "Guarti"12, e’ mi disse: "Che dispiaceri ha’ tu fatti a quel ribaldaccio di Ottaviano de’ Medici?" Io gli dissi che mai io avevo fatto dispiacere a lui, ma che lui ne aveva ben fatti a me; e contatogli tutto il caso della zecca, e’ mi disse: "Vatti con Dio il più presto che tu puoi, e sta di buona voglia, 13 ché più presto che tu non credi vedrai le tua vendette". Io attesi a guarire: detti consiglio a Pietropagolo, ne’ casi delle stampe delle monete; dipoi m’andai con Dio, ritornandomi a Roma 14, sanza far motto al Duca o altro.
LXXXVIII. Giunto che io fui a Roma, rallegratomi assai con li mia amici, cominciai la medaglia del Duca; e avevo di già fatto in pochi giorni la testa in acciaio, la più bella opera che mai io avessi fatto in quel genere, e mi veniva a vedere ogni giorno una volta almanco un certo iscioccone1 chiamato messer Francesco Soderini; e veduto quel che io facevo, più volte mi disse: "Oimè, crudelaccio, tu ci vuoi pure inmortalare questo arrabbiato tiranno. E perché tu non facesti mai opera sì bella, a questo si cognosce che tu sei sviscerato nimico nostro e tanto amico loro, che 2 il Papa e lui t’hanno pur voluto fare impiccar dua volte a torto: quel fu il padre e il figliuolo 3; guardati ora dallo Spirito Santo". Per certo si teneva 4 che il duca Lessandro fussi figliuolo di papa Clemente. Ancora diceva il ditto messer Francesco e giurava ispressamente che, se lui poteva, che m’arebbe rubato que’ ferri di quella medaglia. Al qual io dissi che gli aveva fatto bene a dirmelo, e che io gli guarderei di sorte, che lui non gli vedrebbe mai più. Feci intendere 5 a Firenze che dicessino a Lorenzino che mi mandassi il rovescio della medaglia. Niccolò da Monte Aguto, a chi 6 io l’avevo scritto, mi scrisse così, dicendomi che n’aveva domandato quel pazzo malinconico filosafo di Lorenzino; il quale gli aveva detto che giorno e notte non pensava ad altro, e che egli lo farebbe più presto ch’egli avessi possuto;7però mi disse che io non ponessi speranza al suo rovescio, e che io ne facessi uno da per me8, di mia pura invenzione; e che finito che io l’avessi, liberamente la portassi al Duca, ché buon per me. Avendo fatto io un disegno d’un rovescio, qual mi pareva a proposito, e con più sollecitudine che io potevo lo tiravo inanzi; ma perché io non ero ancora assicurato 9 di quella ismisurata infirmità, mi pigliavo assai piaceri inell’andare a caccia col mio scoppietto insieme con quel mio caro Filice, il quale non sapeva far nulla dell’arte mia, ma perché di continuo, dì e notte, noi eramo insieme, ogniuno s’inmaginava che lui fussi eccellentissimo ne l’arte. Per la qual cosa, lui ch’era piacevolissimo, mille volte ci ridemmo insieme di questo gran credito che lui si aveva acquistato; e perché egli si domandava Filice Guadagni, diceva motteggiando meco: "Io mi chiamerei Filice Guadagni-poco, se non che voi mi avete fatto acquistare un tanto gran credito, che io mi posso domandare de’ Guadagni-assai". E io gli dicevo che e’ sono dua modi di guadagniare: il primo è quello che si guadagna a10 sé, il sicondo si è quello che si guadagna ad altri: di modo che io lodavo in lui molto più quel sicondo modo che ’l primo, avendomi egli guadagniato la vita. Questi ragionamenti noi gli avemmo più e più volte, ma in fra l’altre un dì de l’Epifania, che noi eramo insieme presso alla Magliana11; e di già era quasi finito il giorno: il qual giorno io avevo ammazzato col mio scoppietto de l’anitre e de l’oche assai bene; e quasi resolutomi di non tirar più il12 giorno, ce ne venivamo sollecitamente in verso Roma. Chiamando il mio cane, il quale chiamavo per nome Barucco, non me lo vedendo innanzi, mi volsi, e vidi che il ditto cane ammaestrato guardava certe oche che s’erano appollaiate in un fossato. Per la qual cosa io subito iscesi; messo in ordine il mio buono scoppietto, molto lontano tirai loro, e ne investi’ 13 dua con la sola palla: ché mai non volsi tirare con altro che con la sola palla, con la quale io tiravo14 dugento braccia, e il più delle volte investivo: ché con quell’altri modi non si può far così: di modo che, avendo investito le dua oche, una quasi che morta e l’altra ferita, che così ferita volava malamente, questa la seguitò15 il mio cane e portommela; l’altra, veduto che la si tuffava adrento inel fossato, li sopraggiunsi adosso. Fidandomi de’ mia stivali ch’erano assai alti, spignendo il piede innanzi mi si sfondò16 sotto il terreno: se bene io presi l’oca, avevo pieno lo stivale della gamba ritta tutto d’acqua. Alzato il piede all’aria votai l’acqua, e montato a cavallo, ci sollecitavàno17 di tornarcene a Roma; ma perché egli era gran freddo, io mi sentivo di sorte diacciare la gamba, che io dissi a Filice: "Qui bisognia soccorrer questa gamba, perché io non cognosco più modo a poterla sopportare". Il buon Filice sanza dire altro scese del suo cavallo, e preso cardi e legniuzzi e dato ordine di voler far fuoco, in questo mentre che io aspettavo, avendo poste le mane in fra le piume del petto di quell’oche, senti’ assai caldo: per la qual cosa io non lasciai fare altrimenti fuoco, ma empie’ quel mio stivale di quelle piume di quell’oca, e subito io sentii tanto conforto, che mi dette la vita.
LXXXIX. Montati a cavallo, venivamo sollecitamente alla volta di Roma. Arrivati che noi fummo in un certo poco di rialto 1, era di già fatto notte, guardando in verso Firenze tutti a dua d’accordo movemmo gran voce di maraviglia, dicendo: "Oh Dio del cielo, che gran cosa è quella che si vede sopra Firenze?" Questo si era com’un gran trave di fuoco, il quale scintillava e rendeva grandissimo splendore. Io dissi a Filice: "Certo noi sentiremo domane2 qualche gran cosa sarà stata a Firenze". Così venuticene a Roma, era un buio grandissimo; e quando noi fummo arrivati vicino al Banchi e vicino alla casa nostra, io avevo un cavalletto sotto, il quale andava di portante 3 furiosissimo, di modo che, essendosi el dì fatto un monte di calcinacci e tegoli rotti nel mezzo della strada, quel mio cavallo non vedendo il monte ned io, con quella furia lo salse4, di poi allo scendere traboccò, in modo che fare un tombolo5: si messe la testa in fra le gambe: onde io per propria virtù de Dio non mi feci un male al mondo. Cavato fuora e’ lumi da’ vicini a quel gran romore, io, ch’ero saltato in piè, così, sanza montare altrimenti, me ne corsi a casa ridendo, che avevo scampato una fortuna da rompere 6 il collo. Giunto a casa mia, vi trovai certi mia amici, ai quali, inmentre che noi cenavamo insieme, contavo loro le istrettezze 7 della caccia e quella diavoleria del trave di fuoco che noi avevamo veduto: e’ quali dicevano: "Che domin 8 vorrà significar cotesto?" Io dissi: "Qualche novità è forza che sia avvenuto a Firenze". Così passatoci la cena piacevolmente, l’altro giorno 9 al tardi venne la nuova a Roma della morte del duca Lessandro 10. Per la qual cosa molti mia conoscenti mi venivan dicendo: "Tu dicesti bene, che sopra Firenze saria accaduto qualche gran cosa". In questo veniva a saltacchione11 in sun una certa mulettaccia quel messer Francesco Soderini; ridendo per la via forte alla ’npazzata, diceva: "Quest’è il rovescio della medaglia di quello iscellerato tiranno, che t’aveva promesso il tuo Lorenzino de’ Medici", e di più aggiugneva: "Tu ci volevi inmortalare e’ duchi: noi non vogliàn più duchi", e quivi mi faceva le baie12 come se io fussi stato un capo di quelle sette che fanno 13 e’ duchi. In questo e’ sopraggiunse un certo Baccio Bettini, il quale aveva un capaccio 14 come un corbello, e ancora lui mi dava la baia di questi duchi, dicendomi: "Noi gli abbiamo isducati 15, e non arem più duchi; e tu ce gli volevi fare inmortali", con di molte di queste parole fastidiose. Le quale venutemi troppo a noia, io dissi loro: "O isciocconi, io sono un povero orefice, il quale servo chi mi paga, e voi mi fate le baie come se io fussi un capo di parte 16; ma io non voglio per questo rimproverare a voi le insaziabilità, pazzie e dappocaggine de’ vostri passati17; ma io dico bene a coteste tante risa isciocche che voi fate, che innanzi che e’ passi dua o tre giorni il più lungo 18, voi arete un altro Duca, forse molto peggiore di questo passato". L’altro giorno appresso venne a bottega mia quello de’ Bettini, e mi disse: "E’ non accadrebbe19 lo ispendere dinari in corrieri, perché tu sai le cose inanzi che le si faccino20: che spirito è quello che te le dice?" E mi disse come Cosimo de’ Medici, figliuolo del signor Giovanni, era fatto Duca 21; ma che gli era fatto con certe condizioni, le quali l’arebbono tenuto 22, che lui non arebbe potuto isvolazzare a suo modo 23. Allora toccò a me a ridermi di loro, e dissi: "Cotesti uomini di Firenze hanno messo un giovane sopra un maraviglioso cavallo, poi gli hanno messo gli sproni e datogli la briglia in mano in sua libertà, e messolo in sun un bellissimo campo, dove è fiori e frutti e moltissime delizie; poi gli hanno detto che lui non passi24 certi contrassegniati termini: or ditemi a me voi, chi è quello che tener lo possa, quando lui passar li voglia? Le leggie non si posson dare a chi è padron di esse". Così mi lasciorno stare e non mi davon25 più noia.
XC. Avendo atteso alla mia bottega, e seguitavo alcune mie faccende, non già di molto momento 1, perché mi attendevo alla restaurazione 2 della sanità, e ancora non mi pareva essere assicurato dalla grande infirmità che io avevo passata. In questo mentre lo Imperatore tornava vittorioso dalla impresa di Tunizi3, e il Papa aveva mandato per me e meco si consigliava che sorte di onorato presente 4 io lo consigliavo per donare allo Imperatore. Al quale io dissi che il più a proposito mi pareva donare a sua Maestà una croce d’oro con un Cristo, al quale io avevo quasi fatto uno ornamento, il quale sarebbe grandemente a proposito e farebbe grandissimo onore a sua Santità e a me. Avendo già fatto tre figurette d’oro, tonde, di grandezza di un palmo in circa: queste ditte figure furno quelle che io avevo cominciate per il calice di papa Clemente: erano figurate per 5 la Fede, la Speranza e la Carità: onde io aggiunsi di cera tutto il restante del piè di detta crocie; e portatolo al Papa con il Cristo di cera e con molti bellissimi ornamenti, sadisfece grandemente al Papa; e innanzi che io mi partissi da sua Santità rimanemmo conformi 6 di tutto quello che si aveva a fare, e appresso valutammo la fattura di detta opera. Questo fu una sera a quattro ore di notte: el Papa aveva dato commessione a messer Latino Iuvinale che mi facessi dar danari la mattina seguente. Parve al detto messer Latino, che aveva una gran vena di pazzo, di volere dar nuova invenzione 7 al Papa, la qual venissi da lui stietto 8: ché egli disturbò 9 tutto quello che si era ordinato 10; e la mattina, quando io pensai andare per li dinari, disse con quella sua bestiale prosunzione: "A noi tocca a essere gl’inventori, e a voi gli operatori 11. Innanzi che io partissi la sera dal Papa, noi pensammo una cosa molto migliore". Alle qual prime parole, non lo lasciando andar più innanzi, gli dissi: "Né voi né il Papa non può mai pensare cosa migliore, che quelle dove e’ s’interviene Cristo: sì che dite ora quante pappolate cortigianesche voi sapete". Sanza dir altro si partì da me in collora, e cercò di dare la ditta opera a un altro orefice; ma il Papa non volse, e subito mandò per me e mi disse che io avevo detto bene, ma che si volevan servire di uno uffiziuolo di Madonna 12, il quale era miniato maravigliosamente, e ch’era costo al cardinal de’ Medici a farlo miniare13 più di dumila scudi; e questo sarebbe a proposito per fare un presente alla Imperatrice, e che allo Imperadore farebbon poi quello che avevo ordinato io, che veramente era presente degnio di lui; ma questo si faceva per aver poco tempo, perché lo Imperadore s’aspettava in Roma in fra un mese e mezzo. Al ditto libro voleva fare una coperta 14 d’oro massiccio, riccamente lavorata, e con molte gioie addorna. Le gioie valevano in circa sei mila scudi: di modo che, datomi le gioie e l’oro, messi mano alla ditta opera, e sollecitandola in brevi giorni io la feci comparire di tanta bellezza, che il Papa si maravigliava e mi faceva grandissimi favori, con patti 15 che quella bestia de l’Iuvinale non mi venissi intorno. Avendo la ditta opera vicina alla fine, comparse lo Imperadore 16, a il quale s’era fatti molti mirabili archi trionfali, e giunto in Roma con maravigliosa pompa, qual toccherà a scrivere ad altri, perché non vo’ trattare se non di quel che tocca a me, alla sua giunta 17 subito egli donò al Papa un diamante, il quale lui aveva compero 18 dodicimila scudi. Questo diamante il Papa lo mandò per me e me lo dette, che io gli facessi un anello alla misura del dito di sua Santità; ma che voleva che io portassi prima el libro al termine che gli era. Portato che io ebbi el libro al Papa, grandemente gli sodisfece; di poi si consigliava meco che scusa e’ si poteva trovare con lo Imperadore, che fussi valida, per essere quella ditta opera imprefetta 19. Allora io dissi che la valida iscusa si era, che io arei detto della mia indisposizione, la quale sua Maestà arebbe facilissimamente creduta, vedendomi così macilente e scuro 20 come io ero. A questo il Papa disse che molto gli piaceva; ma che io arrogessi 21 da parte di sua Santità, faccendogli presente del libro, di fargli presente di me istesso 22; e mi disse tutto il modo che io avevo a tenere, delle parole che io avevo a dire, le qual parole io le dissi al Papa, domandandolo se gli piaceva che io dicessi così. Il quale mi disse: "Troppo bene dicesti, se a te bastassi la vista di parlare in questo modo allo Inperadore, che tu parli a me". Allora io dissi che con molta maggior sicurtà mi bastava la vista di parlare con lo Inperadore; avvenga che lo Inperadore andava vestito come mi andavo io, e che a me saria parso parlare a uno uomo che fussi fatto come me; qual cosa non m’interveniva 23 così parlando con sua Santità, innella quale io vi vedevo molto maggior deità, sì per gli ornamenti eclesiastici, quali mi mostravano una certa diadema 24, insieme con la bella vecchiaia di sua Santità: tutte queste cose mi facevano più temere, che non quelle dello Imperadore. A queste parole il Papa disse: "Va, Benvenuto mio, ché tu sei un valente uomo: facci onore, ché buon per te".
XCI. Ordinò il Papa dua cavalli turchi, i quali erano istati di papa Clemente, ed erono i più belli che mai venissi in Cristianità. Questi dua cavalli il Papa commesse 1 a messer Durante 2 suo cameriere che gli menassi giù ai corridori del palazzo, e ivi li donassi allo Imperadore, dicendo certe parole che lui gl’impose 3. Andammo giù d’accordo; e giunti alla presenza dello Imperadore, entrò que’ dua cavalli con tanta maestà e con tanta virtù per quelle camere, che lo Imperadore e ogniuno si maravigliava. In questo si fece innanzi il ditto messer Durante con tanto isgraziato modo e con certe sue parole bresciane, annodandosigli la lingua in bocca, che mai si vidde e sentì peggio: mosse lo Inperatore alquanto a risa. In questo io di già avevo iscoperto la ditta opera mia; e avedutomi che con gratissimo modo lo Inperatore aveva volto gli occhi inverso di me, subito fattomi innanzi, dissi: "Sacra Maestà, il santissimo nostro papa Paulo manda questo libro di Madonna a presentare a vostra Maestà, il quale si è scritto a mano e miniato per mano de il maggior uomo che mai facessi tal professione 4; e questa ricca coperta d’oro e di gioie è così inprefetta per causa della mia indisposizione: per la qual cosa sua Santità insieme con il ditto libro presenta me ancora, e che io venga apresso a vostra Maestà a finirgli il suo libro; e di più tutto quello che lei avessi in animo di fare, per tanto quanto io vivessi, lo servirei". A questo lo Imperatore disse: "Il libro m’è grato e voi ancora; ma voglio che voi me lo finiate in Roma; e come gli è finito e voi guarito, portatemelo e venitemi a trovare". Di poi innel ragionar meco, mi chiamò per nome, per la qual cosa io mi maravigliai perché non c’era intervenuto parole dove accadessi5 il mio nome; e mi disse aver veduto quel bottone del piviale di papa Clemente, dove io avevo fatto tante mirabil figure. Così distendemmo ragionamenti 6 di una mezz’ora intera, parlando di molte diverse cose tutte virtuoso7 e piacevole; e perché a me pareva esserne uscito con molto maggiore onore di quello che io m’ero promesso, fatto un poco di cadenza8 a il ragionamento, feci reverenzia e partimmi. Lo Inperatore fu sentito che disse: "Donisi a Benvenuto cinquecento scudi d’oro subito": di modo che quello che li portò sù, dimandò qual era l’uomo del Papa che aveva parlato allo Inperatore. Si fece innanzi messer Durante, il quale mi rubò li mia cinquecento scudi. Io me ne dolsi col Papa; il quale disse che io non dubitassi; che sapeva ogni cosa, quant’io m’ero portato bene a parlare allo Imperadore, e che di quei danari io ne arei la parte mia a ogni modo.
XCII. Tornato alla bottega mia, messi mano con gran sollecitudine a finire l’anello del diamante; el1 quale mi fu mandato quattro, i primi2 gioiellieri di Roma: perché era stato detto al Papa che quel diamante era legato per mano del primo gioiellier del mondo in Vinezia, il quale si chiamava maestro Miliano Targhetta; e per essere quel diamante alquanto sottile, era impresa troppo difficile a farla sanza gran consiglio 3. Io ebbi caro e’ quattro uomini gioiellieri, infra i quali si era un milanese domandato Gaio. Questo era la più prosuntuosa bestia del mondo, e quello che sapeva manco e gli pareva saper più;4 gli altri erano modestissimi e valentissimi uomini. Questo Gaio innanzi a tutti cominciò a parlare e disse: "Salvisi la tinta 5 di Miliano e a quella, Benvenuto, tu farai di berretta 6: perché sì come ’l tignere un diamante è la più bella e la più difficil cosa che sia ne l’arte del gioiellare, Miliano è il maggior gioielliere che fussi mai al mondo, e questo si è il più difficil diamante". Allora io dissi che tanto maggior gloria mi era il conbattere con un così valoroso uomo d’una tanta professione; dipoi mi volsi agli altri gioiellieri e dissi: "Ecco che io salvo la tinta di Miliano; e mi proverr ò se faccendone io migliorassi quella; quando che no, con quella medesima lo ritignieremo". Il bestial Gaio disse che, se io la facessi a quel modo 7, volentieri le farebbe di berretta. Al quale io dissi: "Adunque faccendola meglio, lei 8 merita due volte di berretta"; "Sì" disse; e io così cominciai a far le mie tinte. Messomi intorno con grandissima diligenzia a fare le tinte, le quali al suo luogo 9 insegner ò come le si fanno: certissimo che il detto diamante era il più difficile che mai né prima né poi mi sia venuto innanzi, e quella tinta di Miliano era virtuosamente 10 fatta; però la non mi sbigottì ancora.11 Io, auzzato i mia ferruzzi dello ingegnio 12, feci tanto che io non tanto raggiugnerla, ma la passai13 assai bene. Dipoi, conosciuto che io avevo vinto lui 14, andai cercando di vincer me, e con nuovi modi feci una tinta che era meglio di quella che io avevo fatto, di gran lunga. Dipoi mandai a chiamare i gioiellieri, e tinto con la tinta di Miliano il diamante, da poi ben netto 15, lo ritinsi con la mia. Mostrolo 16 a’ gioiellieri, un primo valent’uomo di loro, il quale si domandava Raffael del Moro, preso il diamante in mano, disse a Gaio: "Benvenuto ha passato la tinta di Miliano". Gaio, che non lo voleva credere, preso il diamante in mano, e’ disse: "Benvenuto, questo diamante è meglio dumila ducati, che con la tinta di Miliano". Allora io dissi: "Da poi che io ho vinto Miliano, vediamo se io potessi vincer me medesimo"; e pregatogli che mi aspettassino un poco, andai in sun un mio palchetto, e fuor della presenza loro ritinsi il diamante, e portatolo a’ gioiellieri, Gaio subito disse: "Questa è la più mirabil cosa che io vedessi mai in tempo di mia vita, perché questo diamante val meglio di diciotto mila scudi, dove che appena noi lo stimavamo dodici". Gli altri gioiellieri, voltisi a Gaio, dissono: "Benvenuto è la gloria dell’arte nostra, e meritamente e alle sue tinte e a lui doviamo fare di berretta". Gaio allora disse: "Io lo voglio andare a dire al Papa, e voglio che gli abbia mille scudi d’oro di 17 legatura di questo diamante". E corsosene al Papa, gli disse il tutto: per la qual cosa il Papa mandò tre volte quel dì a veder se l’anello era finito. Alle ventitré ore poi io portai sù l’anello; e perché e’ non mi era tenuto porta 18, alzato così discretamente la portiera, viddi il Papa insieme col marchese del Guasto 19, il quale lo doveva istrigniere di quelle cose che lui non voleva fare 20, e senti’ che disse al Marchese: "Io vi dico di no, perché a me si appartiene esser neutro 21 e non altro". Ritiratomi presto indietro, il Papa medesimo mi chiamò: onde io presto entrai, e pòrtogli quel bel diamante in mano, il Papa mi tir ò così da canto, onde il Marchese si scostò. Il Papa inmentre che guardava il diamante, mi disse: "Benvenuto, appicca22 meco ragionamento che paia d’inportanza, e non restar 23 mai in sin che il Marchese istà qui in questa camera". E mossosi a passeggiare, la cosa che faceva per me 24, mi piacque, e cominciai a ragionar col Papa del modo che io avevo fatto a tignere il diamante. Il Marchese istava ritto da canto, appoggiato a un panno d’arazzo, e or si scontorceva in sun un piè e ora in sun un altro. La tema 25 di questo ragionamento era tanto d’inportanza, volendo dirla bene, che si sarebbe ragionato tre ore intere. Il Papa ne pigliava tanto gran piacere, che trapassava26 il dispiacere che gli aveva del Marchese, che stessi quivi. Io che avevo mescolato inne’ ragionamenti quella parte di filosofia che s’apparteneva in quella professione 27, di modo che avendo ragionato così vicino a28 un’ora, venuto a noia al Marchese, mezzo in collora si partì: allora il Papa mi fece le più domestiche 29 carezze che inmaginar si possa al mondo, e disse: "Attendi, Benvenuto mio, che io ti darò altro premio alle tue virtù, che mille scudi che m’ha ditto Gaio che merita la tua fatica". Così partitomi, il Papa mi lodava alla presenza di quei suoi domestici, infra i quali era quel Latin Iuvenale, che 30 dianzi io avevo parlato. Il quale, per essermi diventato nimico, cercava con ogni studio di farmi dispiacere; e vedendo che il Papa parlava di me con tanta affezione e virtù, disse: "E’ non è dubbio nessuno che Benvenuto è persona di maraviglioso ingegnio; ma se bene ogni uomo naturalmente è tenuto a voler bene più a quelli della patria sua che agli altri, ancora si doverrebbe bene considerare in che modo e’ si dee parlare di un Papa. Egli ha avuto a dire che papa Clemente era il più bel principe che fussi mai, e altrettanto virtuoso, ma sì bene con mala fortuna; e dice che vostra Santità è tutta al contrario, e che quel regnio vi piagne31 in testa, e che voi parete un covon di paglia vestito, e che in voi non è altro che buona fortuna". Queste parole furno di tanta forza, dette da colui che benissimo le sapeva dire, che il Papa le credette: io non tanto non l’aver dette, ma in considerazion mia non venne mai32 tal cosa. Se il Papa avessi possuto con suo onore,33 mi arebbe fatto dispiacere grandissimo; ma come persona di grandissimo ingegnio, fece senbiante di ridersene: niente di manco34 e’ riservò in sé un tanto grand’odio in verso di me, che era inistimabile; e io me ne cominciai a ’vvedere, perché non entravo innelle camere con quella facilità di prima, anzi con grandissima difficultà. E perché io ero pur molt’anni35 pratico in queste corte, e’ m’inmaginai che qualche uno avessi fatto cattivo uffizio contro a di me; e destramente ricercandone, mi fu detto il tutto, ma non mi fu detto chi fussi stato; e io non mi potevo inmaginare chi tal cosa avessi detto, che sapendolo io ne arei fatto vendette a misura di carboni 36.