XCIII. Attesi a finire il mio libretto 1; e finito che io l’ebbi, lo portai dal Papa, il quale veramente non si potette tenere che egli non me lo lodassi grandemente. Al quale io dissi che mi mandassi a portarlo 2 come lui mi aveva promesso. Il Papa mi rispose che farebbe quanto gli venissi3 bene di fare, e che io avevo fatto quel che s’apparteneva a me. Così dette commessione che io fussi ben pagato. Delle quale opere in poco più di dua mesi io mi avanzai cinquecento scudi: il diamante mi fu pagato a ragion di cencinquanta 4 scudi e non più; tutto il restante mi fu dato per fattura di quel libretto, la qual fattura ne meritava più di mille, per essere opera ricca di assai figure e fogliami e smalti e gioie. Io mi presi quel che io possetti avere, e feci disegno di andarmi con Dio di 5 Roma. In questo il Papa mandò il detto libretto allo Imperadore per 6 un suo nipote domandato il signor Sforza 7, il quale presentando il libro allo Imperadore, lo Imperatore l’ebbe gratissimo, e subito domandò di me. Il giovanetto 8 signore Sforza, ammaestrato, disse che per essere io infermo non ero andato. Tutto mi fu ridetto.

Intanto messomi io in ordine per andare alla volta di Francia; e me ne volevo andare soletto; ma non possetti perché un giovanetto che stava meco, il quale si domandava Ascanio 9; questo giovane era di età molto tenera ed era il più mirabil servitore che fussi mai al mondo; e quando io lo presi, e’ s’era partito da un suo maestro, che si domandava Francesco 10, che era spagniuolo e orefice. Io, che non arei voluto pigliare questo giovanetto per non venire in contesa con il detto spagniuolo, dissi a Ascanio: "Non ti voglio, per non fare dispiacere al tuo maestro". E’ fece tanto, che il maestro suo mi scrisse una polizza 11, che liberamente io lo pigliassi. Così era stato meco di molti mesi; e per essersi partito magro e spunto 12, noi lo domandavamo il Vecchino; e io pensavo che fussi un vecchino, sì perché lui serviva tanto bene; e perché gli era tanto saputo, non pareva ragione 13 che inel’età di tredici anni, che lui diceva di avere, vi fussi tanto ingegno. Or per tornare 14, costui in quei pochi mesi messe persona 15, e ristoratosi dallo istento 16 divenne il più bel giovane di Roma, e sì per essere quel buon servitor che io ho detto, e perché gl’inparava l’arte maravigliosamente, io gli posi uno amore grandissimo come figliuolo, e lo tenevo vestito come se figliuolo mi fussi stato. Vedutosi il giovane restaurato 17, e’ gli pareva avere auto una gran ventura a capitarmi alle mane. Andava ispesso a ringraziare il suo maestro, che era stato causa del suo gran bene; e perché questo suo maestro aveva una bella giovane per moglie, lei diceva: "Surgetto 18, che hai tu fatto che tu sei diventato così bello?"; e così lo chiamavano quando gli stava con esso loro. Ascanio rispose a lei: "Madonna Francesca, è stato lo mio maestro che mi ha fatto così bello e molto più buono". Costei velenosetta l’ebbe molto per male che Ascanio dicessi così; e perché lei aveva nome 19 di non pudica donna, seppe fare a questo giovanetto qualche carezza forse più là che l’uso de l’onestà: per la qual cosa io mi avvedevo che molte volte questo giovanetto andava più che ’l solito suo a vedere la sua maestra.20 Accadde che avendo un giorno dato malamente delle busse a un fattorino di bottega, il quale, giunto che io fui, che venivo di fuora, il detto fanciullo piagnendo si doleva, dicendomi che Ascanio gli aveva dato 21 sanza ragion nessuna. Alle qual parole io dissi a Ascanio: "O con ragione o senza ragione, non ti venga mai più dato a nessun di casa mia, perché tu sentirai in che modo io so dare io". Egli mi rispose22: onde io subito mi gli gittai addosso, e gli detti di pugna e calci le più aspre busse che lui sentissi mai. Più tosto che 23 lui mi possette uscir delle mane, sanza cappa e sanza berretta fuggì fuora, e per dua giorni io non seppi mai dove lui si fussi, né manco ne cercavo, se none 24 in capo di dua giorni mi venne a parlare un gentiluomo spagniuolo, il quale si domandava don Diego. Questo era il più liberale 25 uomo che io conoscessi mai al mondo; io gli avevo fatte e facevo alcune opere, di modo che gli era assai mio amico. Mi disse che Ascanio era tornato col suo vecchio maestro, e che, se e’ mi pareva, che io gli dessi la sua berretta e cappa che io gli avevo donata. A queste parole io dissi che Francesco si era portato 26 male, e che gli aveva fatto 27 da persona malcreata 28: perché se lui m’avessi detto subito che Ascanio fu29 andato da lui, sì come lui era in casa sua, io molto volentieri gli arei dato licenzia; ma per averlo tenuto dua giorni, poi né me lo fare intendere 30, io non volevo che gli stessi seco; e che facessi che io non lo vedessi in modo alcuno in casa sua. Tanto riferì don Diego: per la qual cosa il detto Francesco se ne fece beffe. L’altra mattina seguente io vidi Ascanio, che lavorava certe pappolate di filo31 accanto al ditto maestro. Passando io, il ditto Ascanio mi fece riverenzia, e il suo maestro quasi che mi derise. Mandommi a dire per quel gentiluomo don Diego che, se a me pareva, che io rimandassi a Ascanio e’ panni che io gli avevo donati; quando che no, non se ne curava, e che a Ascanio non mancheria panni. A queste parole io mi volsi a don Diego e dissi: "Signor don Diego, in tutte le cose vostre io non viddi mai né il più liberale né il più dabbene32 divoi; ma cotesto Francesco è tutto il contrario di quel che voi siete, perché gli è un disonorato marrano 33. Ditegli così da mia parte che se innanzi che suoni vespro lui medesimo non m’ha rimenato Ascanio qui alla bottega mia, io l’ammazzerò a ogni modo; e dite a Ascanio che se lui non si leva di quivi 34 in quell’ora consacrata35 al suo maestro, che io farò a lui poco manco". A queste parole quel signor don Diego non mi rispose niente, anzi andò e messe in opera cotanto spavento al ditto Francesco, che lui non sapeva che farsi. Intanto Ascanio era ito a cercar di suo padre, il quale era venuto a Roma da Tagliacozzi 36, di donde gli era; e sentendo questo scompiglio, ancora lui consigliava Francesco che dovessi rimenare Ascanio a me. Francesco diceva a Ascanio: «Vavvi37 da te, e tuo padre verrà teco". Don Diego diceva: "Francesco, io veggo qualche grande scandolo 38: tu sai meglio di me chi è Benvenuto; rimenagnene sicuramente,39 e io verrò teco". Io che m’ero messo in ordine, passeggiavo per bottega aspettando il tocco di vespro, dispostomi di fare una delle più rovinose cose che in tempo di mia vita mai fatta avessi. In questo sopraggiunse don Diego, Francesco e Ascanio, e il padre, che io non conosceva. Entrato Ascanio, io che gli guardavo tutti con l’occhio della40 stizza, Francesco di colore ismorto disse: "Eccovi rimenato Ascanio, il quale io tenevo, non pensando farvi dispiacere". Ascanio reverentemente disse: "Maestro mio, perdonatemi: io son qui per far tutto quello che voi mi comanderete". Allora io dissi: "Se’ tu venuto per finire 41 il tempo che tu m’hai promesso?" Disse di sì, e per non si partir mai più da me. Io mi volsi allora e dissi a quel fattorino, a chi 42 lui aveva dato, che gli porgessi quel fardello de’ panni; e a lui dissi: "Eccoti tutti e’ panni che io t’avevo donati, e con essi abbi la tua libertà e va dove tu vuoi". Don Diego restato maravigliato di questo, ché ogni altra cosa aspettava. In questo, Ascanio insieme col padre mi pregava che io gli dovessi perdonare e ripigliarlo. Domandato chi era quello che parlava per lui, mi disse esser suo padre; al quale di poi molte preghiere dissi: "E per esser voi suo padre, per amor vostro lo ripiglio".

 

XCIV. Essendomi risoluto, come io dissi poco fa, di andarmene alla volta di Francia, sì per aver veduto che il Papa non mi aveva in quel concetto di prima, ché per via delle male lingue m’era stato intorbidato la mia gran servitù,1 e per paura che quelli che potevano non mi facessin peggio: però2 mi ero disposto di cercare altro paese, per veder se io trovavo miglior fortuna, e volentieri mi andavo con Dio, solo. Essendomi risoluto una sera per partirmi la mattina, dissi a quel fidel Felice che si godessi tutte le cose mia insino al mio ritorno; e se avveniva che io non ritornassi, volevo che ogni cosa fussi suo. E perché io avevo un garzone perugino 3, il quale mi aveva aiutato finir quelle opere del Papa, a questo detti licenzia 4, avendolo pagato delle sue fatiche. Il quale mi disse che mi pregava che io lo lasciassi venir meco, e che lui verrebbe a sue spese: ché s’egli accadessi che io mi fermassi a lavorare con il re di Francia, gli era pure il meglio che io avessi meco de li mia Italiani,5 e maggiormente di quelle persone che io cognoscevo che mi arebbon saputo aiutare. Costui seppe tanto pregarmi, che io fui contento di menarlo meco innel modo che lui aveva detto. Ascanio, trovandosi ancora lui alla presenza di questo ragionamento, disse mezzo piangendo: "Dipoi che voi mi ripigliasti, i’ dissi di volere star con voi a6 vita, e così ho in animo di fare". Io dissi al ditto che io non lo volevo per modo nessuno. Il povero giovanetto si metteva in ordine per venirmi drieto a piede. Veduto fatto7 una tal resoluzione, presi un cavallo ancora per lui, e messogli una mia valigetta in groppa, mi caricai di molti più ornamenti che fatto io non arei; e partitomi di Roma 8 ne venni a Firenze, e da Firenze a Bologna, e da Bologna a Vinezia, e da Vinezia me ne andai a Padova: dove io fui levato d’in su l’osteria9 da quel mio caro amico, che si domandava Albertaccio del Bene. L’altro giorno a presso andai a baciar le mane a messer Pietro Bembo, il quale non era ancor cardinale. Il detto messer Pietro mi fece le più sterminate carezze che mai si possa fare a uomo del mondo; di poi si volse ad Albertaccio e disse: "Io voglio che Benvenuto resti qui con tutte le sue persone, se10 lui ne avessi ben cento: sì che risolvetevi, volendo anche voi11 Benvenuto, a restar qui meco, altrimenti io non ve lo voglio rendere"; e così mi restai a godere con questo virtuosissimo signore. Mi aveva messo in ordine una camera, che sarebbe troppo onorevole a un cardinale, e continuamente volse che io mangiassi accanto a sua Signoria 12. Dipoi entrò con modestissimi13 ragionamenti, mostrandomi che arebbe auto desiderio che io lo ritraessi; e io, che non desideravo altro al mondo, fattomi certi stucchi candidissimi dentro in uno scatolino, lo cominciai; e la prima giornata io lavorai dua ore continue, e bozzai 14 quella virtuosa testa di tanta buona grazia, che sua Signoria ne restò istupefatta; e come quello che era grandissimo innelle sue lettere e innella poesia in superlativo grado, ma di questa mia professione sua Signoria non entendeva nulla al mondo; il perché si è15 che a lui parve che io l’avessi finita a quel tempo, che io non16 l’avevo a pena cominciata: di modo che io non potevo dargli ad intendere che la voleva17 molto tempo a farsi bene. All’utimo io mi risolsi a farla il meglio che io sapevo col tempo che la meritava; e perché egli portava la barba corta alla veniziana, mi dette di gran fatiche a fare una testa che mi sadisfacessi. Pure la fini’ e mi parve fare la più bella opera che io facessi mai, per quanto si aparteneva a l’arte mia. Per la qual cosa io lo viddi sbigottito, perché e’ pensava che avendola io fatta di cera in dua ore, io la dovessi fare in dieci d’acciaro. Veduto poi che io non l’avevo potuta fare in dugento ore di cera, e dimandavo licenzia per andarmene alla volta di Francia, il perché lui si sturbava 18 molto, e mi richiese che io gli facessi un rovescio a quella sua medaglia, almanco 19; e questo fu un caval Pegaseo in mezzo a una ghirlanda di mirto 20. Questo io lo feci in circa a tre ore di tempo, dandogli bonissima grazia; e essendo assai sadisfatto, disse: "Questo cavallo mi par pure maggior cosa l’un dieci 21, che non è il fare una testolina, dove voi avete penato tanto: io non son capace22 di questa difficultà". Pure mi diceva e mi pregava che io gnene dovessi fare in acciaro, dicendomi: "Di grazia fatemela, perché voi me la farete ben presto, se voi vorrete". Io gli promessi che quivi io non la voleva fare; ma dove io mi fermassi a lavorare gliene farei senza manco nessuno 23. Inmentre che noi tenevamo questo proposito, io ero andato a mercatare 24 tre cavalli per andarmene alla volta di Francia; e lui faceva tener conto di me25 segretamente, perché aveva grandissima autorità in Padova: di modo che volendo pagare i cavalli, li quali avevo mercatati cinquanta ducati, il padrone di essi cavalli mi disse: "Virtuoso uomo, io vi fo un presente delli tre cavalli". Al quale io risposi: "Tu non sei tu che me gli presenti26; e da quello che me gli presenta io non gli voglio, perché io non gli ho potuto dar nulla delle fatiche mie". Il buono uomo mi disse che, non pigliando quei cavagli, io non caverei27 altri cavagli di Padova e sarei necessitato 28 a ’ndarmene a piede. A questo 29 io me ne andai al magnifico messer Pietro, il quale faceva vista di non saper nulla, e pur mi carezzava, dicendomi che io soprastessi in Padova. Io che no’ ne volevo far nulla ed ero disposto a ’ndarmene a ogni modo, mi fu forza accettare li tre cavalli; e con essi me ne andai.

 

XCV. Presi il cammino per terra di Grigioni 1, perché altro cammino non era sicuro, rispetto alle guerre 2. Passammo le montagne dell’Alba 3 e della Berlina 4: era agli otto dì di maggio ed era la neve grandissima. Con grandissimo pericolo della vita nostra passammo queste due montagne. Passate che noi le avemmo, ci fermammo a una terra 5 la quale, se ben mi ricordo, si domanda Valdistà 6: quivi alloggiammo. La notte vi capitò un corriere fiorentino, il quale si domandava il Busbacca. Questo corriere io l’avevo sentito ricordare per uomo di credito e valente nella sua professione, e non sapevo che gli era scaduto7 per le sue ribalderie. Quando e’ mi vedde all’osteria, lui mi chiamò per nome, e mi disse che andava per cose d’inportanza a Lione, e che di grazia io gli prestassi dinari per il viaggio. A questo io dissi che non avevo danari da potergli prestare, ma che volendo venir meco di compagnia io gli farei le spese insino a Lione. Questo ribaldo piagneva e facevami le belle lustre 8 dicendomi come "per e’ casi d’inportanza della nazione essendo mancato danari a un povero corrieri, un par vostro è ubbrigato a ’iutarlo"; e di più mi disse che portava cose di grandissima inportanza di messer Filippo Strozzi; e perché gli aveva una guaina d’un bicchiere coperta di cuoio, mi disse innell’orecchio che in quella guaina era un bicchier d’argento, e che in quel bicchiere era gioie di valore di molte migliaia di ducati, e che e’ v’era lettere di grandissima inportanza, le quali mandava messer Filippo Strozzi. A questo io dissi a lui che mi lasciassi rinchiuder 9 le gioie a dosso a lui medesimo, le quali porterebbon manco pericolo che a portarle in quel bicchiere; e che quel bicchiere lasciassi a me, il quale poteva valere dieci scudi incirca, e io lo servirei di 10 venticinque. A queste parole il corrier disse che se ne verrebbe meco, non potendo far altro, perché lasciando quel bicchiere non gli sarebbe onore. Così la mozzammo 11; e la mattina partendoci arrivammo a un lago, che è in fra Valdistate e Vessa 12: questo lago è lungo quindici miglia, dove e’ s’arriva a Vessa. Veduto le barche di questo lago, io ebbi paura: perché le dette barche son d’abete, non molto grande e non molto grosse, e non son confitte 13, né manco impeciate; e se io non vedevo entrare in un’altra simile quattro gentiluomini tedeschi con i lor cavagli, io non entravo mai in questa; anzi mi sarei più presto 14 tornato addietro; ma io mi pensai, alle bestialità15 che io vedevo fare a coloro, che quelle acque tedesche non affogassino 16, come fanno le nostre della Italia. Quelli mia dua giovani mi dicevano pure: "Benvenuto, questa è una pericolosa cosa a entrarci drento con quattro cavalli". A e’ quali io dicevo: "Non considerate voi, poltroni, che quei quattro gentiluomini sono entrati innanzi a noi, e vanno via ridendo? Se questo fussi vino, come l’è acqua, io direi che lor vanno lieti per affogarvi drento; ma perché l’è acqua, io so ben che e’ non hanno piacere d’affogarvi, sì ben come noi". Questo lago era lungo quindici miglia e largo tre in circa; da una banda era un monte altissimo e cavernoso, dall’altra era piano e erboso. Quando noi fummo drento in circa quattro miglia, il ditto lago cominciò a far fortuna 17, di sorte che quelli che vogavano ci chiedevano aiuto che noi gli aiutassimo vogare; così facemmo un pezzo. Io accennavo 18, e dicevo che ci gettassino a quella proda di là; lor dicevano non esser possibile, perché non v’è acqua che sostenessi la barca, e che e’ v’è certe secche, per le quale la barca subito si disfarebbe e annegheremmo tutti, e pure 19 ci sollecitavano che noi aiutassimo loro. E’ barcheriuoli si chiamavano l’un l’altro, chiedendosi aiuto. Vedutogli io sbigottiti, avendo un caval savio 20, gli acconciai la briglia al collo e presi una parte della cavezza con la man mancina. Il cavallo che era, sì come sono21, con qualche intelligenza, pareva che si fussi avveduto quel22 che io volevo fare, che avendogli volto il viso in verso quell’erba fresca 23, volevo che, notando, ancora 24 me istrasciassi 25 seco. In questo venne una onda sì grande da quel lago, che la soprafece la barca. Ascanio gridando: "Misericordia, padre mio, aiutatemi!" mi si volse gittare addosso: il perché io messi mano al mio pugnaletto, e gli dissi che facessino quel che io avevo insegnato loro, perché i cavagli salverebbon lor la vita sì bene, com’io speravo camparla ancora io per quella via; e se più e’ mi si gittassi addosso, io l’ammazzerei. Così andammo innanzi parecchi miglia con questo mortal pericolo.

 

XCVI. Quando noi fummo a mezzo il lago, noi trovammo un po’ di piano1 da poterci riposare, e in su questo piano viddi ismontato2 quei quattro gentiluomini tedeschi. Quando noi volemmo ismontare, il barcherolo non voleva per niente. Allora io dissi a’ mia giovani: "Ora è tempo a far qualche pruova di noi: sì che mettete mano alle spade, e facciàno 3 che per forza e’ ci mettino in terra". Così facemmo con gran difficultà, perché lor fecion grandissima resistenza. Pure messi che noi fummo in terra, bisogniava salire due miglia su per quel monte, il quale era più difficile che salire su per una scala a piuoli. Io ero tutto armato di maglia con istivali grossi e con uno scoppietto in mano, e pioveva quanto Idio ne sapeva mandare. Quei diavoli di quei gentiluomini tedeschi con quei lor cavalletti a mano 4 facevano miracoli, il perché i nostri cavagli non valevano per questo effetto 5, e crepavamo di fatica a farli salire quella difficil montagna. Quando noi fummo in sù un pezzo, il cavallo d’Ascanio, che era un cavall’unghero mirabilissimo, questo era innanzi un pochetto al Busbacca corriere, e ’l ditto Ascanio gli aveva dato la sua zagaglia, che gliene aiutassi portare; avvenne che per e’ cattivi passi quel cavallo isdrucciolò e andò tanto barcollone, non si potendo aiutare, che percosse6 in su la punta della zagaglia di quel ribaldo di quel corriere, che non l’aveva saputa iscansare; e passata al cavallo la gola a banda a banda, quell’altro mio garzone, volendo aiutare ancora il suo cavallo, che era un caval morello, isdrucciolò inverso il lago e s’attenne a un respo 7, il qual era sottilissimo. In su questo cavallo era un paio di bisacce, nelle quali era drento tutti e’ mia danari con ciò che io avevo di valore: dissi al giovane che salvassi la sua vita, e lasciassi andare il cavallo in malora: la caduta 8 si era più d’un miglio e andava a sottosquadro 9 e cadeva nel lago. Sotto questo luogo a punto s’era fermato quelli nostri barcheruoli; a tale che se il cavallo cadeva, dava loro a punto addosso. Io era innanzi a tutti e stavamo a vedere tombolare il cavallo, il quale pareva che andassi al sicuro 10 in perdizione. In questo io dicevo a’ mia giovani: "Non vi curate di nulla, salvianci noi e ringraziamo Idio d’ogni cosa; a me mi sa solamente male 11 di questo povero uomo del Busbacca, che ha legato il suo bicchiere e le sue gioie, che son di valore di parecchi migliaia di ducati, all’arcione di quel cavallo, pensando quell’essere più sicuro: e’ mia son pochi cento 12 di scudi, e non ho paura di nulla al mondo, purché io abbia la grazia de Dio". Il Busbacca allora disse: "E’ non m’incresce de’ mia, ma e’ m’incresce ben de’ vostri". Dissi a lui: "Perché t’incresc’egli de’ mia pochi, e non t’increscie de’ tua assai? " Il Busbacca disse allora: "Dirovelo in nel nome di Dio: in questi casi e ne’ termini che13 noi siamo, bisogna dire il vero. Io so che i vostri sono iscudi, e son da dovero; ma quella mia vesta di bicchiere, dove io ho detto esser tante gioie e tante bugie, è tutta piena di caviale". Sentendo questo io non possetti fare che io non ridessi: quei mia giovani risono; lui piagneva. Quel cavallo si aiutò, quando noi l’avevamo fatto 14 ispacciato. Così ridendo ripigliammo le forze e mettemmoci a seguitare15 il monte. Quelli quattro gentiluomini tedeschi, ch’erano giunti prima di noi in cima di quella ripida montagna, ci mandorno alcune persone, le quali ci aiutorno: tanto che noi giugnemmo a quel salvatichissimo alloggiamento: dove, essendo noi molli 16, istracchi e affamati, fummo piacevolissimamente ricevuti; e ivi ci rasciugammo, ci riposammo, sodisfacemmo alla fame, e con certe erbacce fu medicato il cavallo ferito; e ci fu insegnato quella sorte d’erbe, le quali n’era pieno la siepe, e ci fu detto che tenendogli continuamente la piaga piena di quell’erbe, il cavallo non tanto17 guarirebbe, ma ci servirebbe come se non avessi un male al mondo: tanto facemmo. Ringraziato i gentiluomini, e noi molto ben ristorati, di quivi ci partimmo e passammo innanzi, ringraziando Idio, che ci aveva salvati da quel gran pericolo.

 

XCVII. Arrivammo a una terra 1 di là da Vessa: qui ci riposammo la notte, dove noi sentimmo a tutte l’ore della notte una guardia, che cantava in molto piacevol modo; e per essere tutte quelle case di quella città di legno di abeto, la guardia non diceva altra cosa, se non che s’avessi cura 2 al fuoco. Il Busbacca, che era spaventato della giornata, a ogni ora che colui cantava, el Busbacca gridava in sogno dicendo: "Oimè Idio, che io affogo! "; e questo era lo3 spavento del passato giorno; e arroto 4 a quello, che s’era la sera inbriacato, perché volse fare a bere5 quella sera con tutti e’ tedeschi che vi erano; e talvolta diceva: "Io ardo", e talvolta: "Io affogo": gli pareva essere alcune volte innello ’nferno marterizzato 6 con quel caviale al collo. Questa notte fu tanto piacevole, che tutti e’ nostri affanni si erano conversi 7 in risa. La mattina levatici con bellissimo tempo, andammo a desinare a una lieta terra domandata Lacca 8. Quivi fummo mirabilmente trattati; di poi pigliammo guide, le quali erano di ritorno a una terra chiamata Surich 9. La guida che menava 10, andava su per un argine d’un lago, e non v’era altra strada, e questo argine ancora lui era coperto d’acqua, in modo che la bestial guida sdrucciolò, e il cavallo e lui andorno sotto l’acqua. Io, che era drieto alla guida a punto, fermato il mio cavallo, istetti a veder la bestia sortir dell’acqua; e come se nulla non fussi stato, ricominciò 11 a cantare, e accennavami che io andassi innanzi. Io mi gittai in su la man ritta, e roppi 12 certe siepe: così guidavo i mia giovani e ’l Busbacca. La guida gridava, dicendomi in tedesco pure che se quei populi mi vedevano, mi arebbeno ammazzato. Passammo innanzi e scampammo quell’altra furia 13. Arrivammo a Surich, città maravigliosa, pulita quanto un gioiello. Quivi riposammo un giorno intero, di poi una mattina per tempo ci partimmo; capitammo a un’altra bella città chiamata Solutorno 14: di quivi capitammo a Usanna 15, da Usanna a Ginevra, da Ginevra a Lione, sempre cantando e ridendo. A Lione mi riposai per quattro giornate; molto mi rallegrai con alcuni mia amici; fui pagato della spesa che io avevo fatta per il Busbacca; di poi in capo dei quattro giorni, presi il cammino per la volta di Parigi. Questo fu viaggio piacevole, salvo che quando noi giugnemmo alla Palissa 16, una banda di venturieri 17 ci volsono assassinare, e non con poca virtù 18 ci salvammo. Di poi ce ne andammo insino a Parigi sanza un disturbo al mondo: sempre cantando e ridendo giugnemmo a salvamento.

 

XCVIII. Riposatomi in Parigi alquanto, me ne andai a trovare il Rosso dipintore, il quale stava al servizio del Re 1. Questo Rosso io pensava che lui fossi il maggiore amico che io avessi al mondo, perché io gli avevo fatto in Roma i maggior piaceri che possa fare un uomo a un altro uomo; e perché questi cotai piaceri si posson dire con brieve parole, io non voglio mancare di non gli dire, mostrando quant’è sfacciata la ingratitudine. Per la sua mala lingua, essendo lui in Roma, gli 2 aveva detto tanto male de l’opere di Raffaello da Urbino, che i discepoli suoi lo volevano ammazzare a ogni modo: da questo lo campai, guardandolo 3 dì e notte con grandissime fatiche. Ancora, per aver detto male di maestro Antonio da San Gallo, molto eccellente architettore, gli fece torre 4 un’opera che lui gli aveva fatto avere da messer Agniol de Cesi;5 dipoi cominciò tanto a far contro a di lui, che egli l’aveva condotto a morirsi di fame: per la qual cosa io’gli prestai di molte decine di scudi per vivere. E non gli avendo ancora riauti, sapendo che gli era al servizio del Re, lo andai, come ho detto, a visitare: non tanto pensavo che lui mi rendessi li mia dinari, ma pensavo che mi dessi aiuto e favore per mettermi al servizio di quel gran Re. Quando costui mi vedde, subito si turbò e mi disse: "Benvenuto, tu se’ venuto con troppa spesa in un così gran viaggio, massimo di questo tempo, che s’attende 6 alla guerra e non a baiuccole 7 di nostre opere". Allora io dissi che io avevo portato tanti dinari da potermene tornare a Roma in quel modo che io ero venuto a Parigi; e che questo non era il cambio delle fatiche che io avevo durate 8 per lui; e che io cominciavo a credere quel che mi aveva detto di lui maestro Antonio da San Gallo. Volendosi9 metter tal cosa in burla, essendosi avveduto della sua sciagurataggine, io gli mostrai una lettera di cambio di cinquecento scudi a Ricciardo del Bene. Questo sciagurato pur si vergogniava, e volendomi tenere 10 quasi per forza, io mi risi di lui, e me ne andai insieme con un pittore, che era quivi alla presenza. Questo si domandava lo Sguazzella: ancora lui era fiorentino; anda’mene11 a stare in casa sua con tre cavalli e tre servitori a tanto la settimana. Lui benissimo mi trattava, e io meglio lo pagavo. Di poi cercai di parlare al Re, al quale m’introdusse un certo messer Giuliano Buonaccorsi suo tesauriere. A questo io soprastetti assai,12 perché io non sapevo che il Rosso operava ogni diligenza che io non parlassi al Re. Poiché il ditto messer Giuliano se ne fu avveduto, subito mi menò a Fontana Biliò 13 e messemi drento inanzi al Re, da il quale io ebbi un’ora intera di gratissima audienza. E perché il Re era in assetto per andare alla volta di Lione 14, disse al ditto messer Giuliano che seco mi menassi, e che per la strada si ragionerebbe di alcune belle opere, che sua Maestà aveva in animo di fare. Così me ne andavo insieme a presso al traino 15 della Corte; e per la strada feci grandissima servitù col cardinale di Ferrara, il quale non aveva ancora il cappello 16. E perché ogni sera io avevo grandissimi ragionamenti con il ditto Cardinale, e sua Signoria diceva che io mi dovessi restare in Lione a una sua badia 17, e quivi potrei godere in fine a tanto che il Re tornassi dalla guerra, che se ne andava alla volta di Granopoli 18, e alla sua badia in Lione io arei tutte le comodità. Giunti che noi fummo a Lione, io mi era ammalato, e quel mio giovane Ascanio aveva preso la quartana 19: di sorte che m’era venuto a noia i franciosi e la lor Corte, e mi parea mill’anni di ritornarmene a Roma. Vedutomi disposto il Cardinale a ritornare a Roma, mi dette tanti dinari, che io gli facessi in Roma un bacino e un boccale d’ariento. Così ce ne ritornammo alla volta di Roma in su bonissimi cavalli, e venendo per le montagne del Sanpione 20; e essendomi accompagniato con certi franzesi, con li quali venimmo 21 un pezzo, Ascanio con la sua quartana, e io con una febbretta sorda, la quale pareva che non mi lasciassi punto; ed avevo sdegniato 22 lo stomaco di modo, che io non credo che mi toccassi a mangiare un pane intero la settimana, e molto desideravo di arrivare in Italia, desideroso di morire in Italia e non in Francia.

 

XCIX. Passato che noi avemmo li monti del Sanpione detto, trovammo un fiume presso a un luogo domandato Indevetro 1. Questo fiume era molto largo, assai profondo, e sopra esso aveva 2 un ponticello lungo e stretto, sanza sponde. Essendo la mattina una brinata molto grossa, giunto al ponte, che mi trovavo innanzi a tutti, e conosciutolo molto pericoloso, comandai alli mia giovani e servitori che scavalcassino, menando li lor cavalli a mano. Così passai il detto ponte molto felicemente, e me ne venivo ragionando con un di quei dua franzesi, il quale era un gentiluomo: quell’altro era un notaro, il quale era restato a dietro alquanto, e dava la baia a quel gentiluomo franzese e a me, che per paura di nonnulla avevàno 3 voluto quel disagio de l’andar a piede. Al quale io mi volsi, vedutolo in sul mezzo del ponte, e lo pregai che venissi pianamente, per che egli era in luogo molto pericoloso. Questo uomo, che non potette mancare alla sua franciosa natura, mi dissi in francioso che io era uomo di poco animo, e che quivi non era punto di pericolo. Mentre che diceva queste parole, volse pugnere un poco il cavallo, per la qual cosa subito il cavallo isdrucciolò fuor del ponte, e con le gambe inverso il cielo cadde a canto a un sasso grossissimo. E perché Idio molte volte è misericordioso de’ pazzi, questa bestia 4 insieme con l’altra bestia e suo cavallo dettono in un tonfano 5 grandissimo, dove gli andorno sotto, e lui e il cavallo. Subito veduto questo, con grandissima prestezza io mi cacciai a correre, e con gran difficultà saltai in su quel sasso, e spenzolandomi da esso, aggiunsi 6 un lembo d’una guarnacca 7 che aveva adosso quest’uomo, e per quel lembo lo tirai sù, che ancora stava coperto dall’acqua; e perché gli aveva beuto assai acqua, e poco stava che saria affogato, io, vedutolo fuor del pericolo, mi rallegrai seco d’avergli campato la vita. Per la qual cosa costui mi rispose in franzese e mi disse che io non avevo fatto nulla; che la importanza si era le sue scritture 8, che valevan di molte dicine di scudi; e pareva che queste parole costui me le dicesse in collora, tutto molle e barbugliando 9. A questo, io mi volsi a certe guide che noi avevamo, e commissi 10 che aiutassino quella bestia, e che io gli pagherei. Una di quelle guide virtuosamente 11 e con gran fatica si mise a ’iutarlo, e ripescògli le sue scritture, tanto che lui non perse nulla; quell’altra guida mai non volse durar fatica nissuna a ’iutarlo. Arrivati che noi fummo poi a quel luogo sopra ditto — noi avevamo fatto una borsa 12, la quale era tocca a spendere a me 13 —, desinato che noi avemmo, io detti parecchi danari della borsa della compagnia a quella guida, che aveva aiutato trar colui dell’acqua: per la qual cosa costui mi diceva che quei danari io gliene darei del mio, che non intendeva di dargli altro che quel che noi eramo d’accordo, d’aver 14 fatto l’uffizio della guida. A questo, io gli dissi molte ingiuriose parole. Allora mi si fece incontro l’altra guida, qual non aveva durato fatica, e voleva pure che io pagassi anche lui; e perché io dissi: "Ancora costui merita il premio per aver portato la croce 15", mi rispose che presto mi mostrerebbe una croce, alla quale io piagnerei. A lui dissi che io accenderei un moccolo a quella croce, per il quale io speravo che a lui toccherebbe il primo a piagnere. E perché questo è luogo di confini infra i Veniziani e Tedeschi,16 costui corse per populi 17, e veniva con essi con un grande ispiede18 inanzi. Io, che ero in sul mio buon cavallo, abbassai il fucile 19 in sul mio archibuso; voltomi a’ compagni, dissi: "Al primo 20 ammazzo colui; e voi altri fate il debito 21 vostro, perché quelli sono assassini di strada, e hanno preso questo poco dell’occasione 22 solo per assassinarci". Quell’oste, dove 23 noi avevamo mangiato, chiamò un di quei caporali, ch’era vecchione, e lo pregò che rimediasse a tanto inconveniente, dicendogli: "Questo è un giovine bravissimo, e se bene voi lo taglierete a pezzi, e’ ne ammazzerà tanti di voi altri, e forse potria scaparvi delle mani, da poi fatto il male che gli arà". La cosa si quietò, e quel vecchio capo di loro mi disse: "Va in pace, che tu non faresti una insalata, se 24 tu avessi ben cento uomini teco". Io che conoscevo che lui diceva la verità e mi ero risoluto di già e fattomi 25 morto, non mi sentendo dire altre parole ingiuriose, scotendo il capo, dissi: "Io arei fatto tutto il mio potere, mostrando essere animal vivo e uomo"; e preso il viaggio, la sera al primo alloggiamento, facemmo conto della borsa26, e mi divisi da quel francioso bestiale, restando molto amico di quell’altro che era gentiluomo; e con i mia tre cavalli, soli ce ne venimmo a Ferrara. Scavalcato che io fui, me ne andai in Corte del Duca 27 per far reverenzia a sua Eccellenzia, per potermi partir la mattina alla volta di Santa Maria dal Loreto 28. Avevo aspettato insino a dua ore di notte, e allora comparse il Duca: io gli baciai le mane; mi fece grande accoglienze, e commisse che mi fussi dato l’acqua alle mane 29. Per la qual cosa io piacevolmente dissi: "Eccellentissimo Signore, egli è più di quattro mesi che io non ho mangiato tanto, che sia da credere che con tanto poco si viva; però, cognosciutomi che io non mi potrei confortare de’ reali cibi della sua tavola, mi starò così ragionando con quella 30, inmentre che vostra Eccellenzia cena, e lei e io a un tratto medesimo aremo più piacere, che se io cenassi seco". Così appiccammo ragionamento 31, e passammo insino alle cinque ore. Alle cinque ore poi io presi licenzia, e andatomene alla mia osteria, trovai apparecchiato maravigliosamente, perché il Duca mi aveva mandato a presentare le regaglie del suo piatto 32 con molto buon vino; e per essere a quel modo soprastato più di dua ore fuor della mia ora del mangiare, mangiai con grandissimo appetito, che fu la prima volta che di poi33 e’ quattro mesi io avevo potuto mangiare.

C. Partitomi la mattina, me ne andai a Santa Maria dal Loreto, e di quivi, fatto le mie orazione, ne andai a Roma 1; dove io trovai il mio fidelissimo Felice, al quale io lasciai la bottega con tutte le masserizie e ornamenti sua, e ne apersi un’altra a canto al Sugherello profumiere, molto più grande e più spaziosa; e mi pensavo che quel gran re Francesco non si avessi a ricordar di me. Per la qual cosa io presi di molte opere da diversi signori, e intanto lavoravo quel boccale e bacino che io avevo preso da fare dal cardinal di Ferrara. Avevo di molti lavoranti e molte gran faccende d’oro e di argento. Avevo pattuito con quel mio lavorante perugino, che da per sé s’era iscritto 2 tutti i danari che per la parte sua si erano ispesi, li quai danari s’erano ispesi in suo vestire e in molte altre cose; con le spese del viaggio erano in circa a settanta scudi: delli quali noi c’eramo accordati che lui ne scontassi tre scudi il mese: ché più di otto iscudi io gli facevo guadagnare. In capo di dua mesi questo ribaldo si andò con Dio di bottega mia, e lasciommi impedito da molte faccende, e disse che non mi voleva dar altro. Per questa cagione io fui consigliato di prevalermene 3 per la via della iustizia, perché m’ero messo in animo di tagliargli un braccio; e sicurissimamente lo facevo, ma li amici mia mi dicevano che non era bene che io facessi una tal cosa, avvenga che io perdevo li mia danari e forse un’altra volta Roma, perché i colpi non si danno a patti 4; e che io potevo con quella scritta, che io avevo di sua mano, subito farlo pigliare. Io mi attenni al consiglio, ma volsi più liberamente agitare 5 tal cosa. Mossi la lite all’auditore della Camera 6 realmente, e quella convinsi 7; e per virtù di essa, che v’andò parecchi mesi, io da poi lo feci mettere in carcere. Mi trovavo carica la bottega di grandissime faccende, e in fra l’altre tutti gli ornamenti d’oro e di gioie della moglie del signor Gierolimo Orsino, padre del signor Paulo oggi genero del nostro duca Cosimo 8. Queste opere erano molto vicine alla fine, e tuttavia me ne cresceva9 delle importantissime. Avevo otto lavoranti, e con essi insieme, e per onore e per utile, lavoravo il giorno e la notte.

 

CI. Inmentre che così vigorosamente io seguitavo le mie imprese, mi venne una lettera mandatami con diligenza dal cardinale di Ferrara 1, la quale diceva in questo tenore: "Benvenuto caro amico nostro. Alli giorni passati questo gran Re cristianissimo 2 si ricordò di te, dicendo che desiderava averti al suo servizio. Al quale io risposi che tu m’avevi promesso, che ogni volta che io mandavo per te per servizio di sua Maestà, subito tu verresti. A queste parole sua Maestà disse: ‘Io voglio che si gli mandi la comodità da poter venire, sicondo che merita un suo pari’; e subito comandò al suo Amiraglio3 che mi facessi pagare mille scudi d’oro da il tesauriere de’ risparmi. Alla presenza di questo ragionamento si era il cardinale de’ Gaddi, il quale subito si fece innanzi e disse a sua Maestà che non accadeva 4 che sua Maestà dessi quella commessione, perché lui disse averti mandato danari a bastanza, e che tu eri per il cammino. Ora se per caso egli 5 è il contrario, sì come io credo, di quel che ha detto il cardinal de’ Gaddi, aùto questa mia lettera, rispondi subito, perché io rappiccherò il filo 6, e farotti dare li promessi danari da questo magnanimo Re".

Ora avvertisca7 il mondo e chi vive in esso, quanto possono le maligne istelle coll’avversa fortuna in noi umani! Io non avevo parlato due volte a’ mie’ dì a questo pazzerellino di questo cardinaluccio de’ Gaddi; e questa sua saccenteria lui non la fece per farmi un male al mondo 8, ma solo la fece per cervellinaggine e per dappocaggine 9 sua, mostrandosi di avere ancora 10 lui cura alle faccende degli uomini virtuosi che desiderava avere il Re, sì come faceva il cardinal di Ferrara. Ma fu tanto iscimunito da poi, che lui non mi avvisò nulla: ché certo io per non vituperare uno sciocco fantoccino, per amor della patria 11, arei trovato qualche scusa per rattoppare 12 quella sua sciocca saccenteria. Subito aùto la lettera del reverendissimo cardinale di Ferrara, risposi come del cardinal de’ Gaddi io non sapevo nulla al mondo, e che se pure lui mi avessi tentato di 13 tal cosa, io non mi sarei mosso di Italia senza saputa di 14 sua Signoria reverendissima, e maggiormente15 che io avevo in Roma una maggior quantità di faccende che mai per l’adietro io avessi aute; ma che a un motto di sua Maestà cristianissima, dettomi da un tanto Signore, come era sua Signoria reverendissima, io mi leverei 16 subito, gittando ogni altra cosa a traverso 17. Mandato le mie lettere, quel traditore del mio lavorante perugino pensò a una malizia, la quale subito gli venne ben fatta rispetto alla 18 avarizia di papa Pagolo da Farnese, ma più del suo bastardo figliuolo 19, allora chiamato duca di Castro. Questo ditto lavorante fece intendere a un di que’ segretari del signor Pierluigi ditto che, essendo stato meco per lavorante parecchi anni, sapeva tutte le mie faccende: per le quale lui faceva fede 20 al ditto signor Pierluigi che io ero uomo di più di ottanta mila ducati di valsente 21, e che questi dinari io gli avevo la maggior parte in gioie; le qual gioie erano della Chiesa, e che io l’avevo rubate nel tempo del Sacco di Roma in castel Sant’Agniolo, e che vedessino di farmi pigliare subito e segretamente. Io avevo, una mattina 22 infra l’altre, lavorato più di tre ore innanzi giorno in sull’opere della sopra ditta isposa 23, e inmentre che la mia bottega si apriva e spazzava, io m’ero messo la cappa addosso per dare un poco di volta 24; e preso il cammino per istrada Iulia, isboccai in sul canto della Chiavica; dove Crespino 25 bargello con tutto la sua sbirreria mi si fece in contro, e mi disse: "Tu se’ prigion del Papa". Al quale io dissi: "Crespino, tu m’hai preso in iscambió".26 "No" disse Crespino, "tu se’ il virtuoso Benvenuto, e benissimo ti cogniosco, e ti ho a menare in castel Sant’Agniolo 27, dove vanno li signiori e li uomini virtuosi pari tua". E perché quattro di quelli caporali sua mi si gittorno addosso e con violenza mi volevan levare una daga che io avevo a canto e certe anella che io avevo in dito, il ditto Crespino a loro disse: "Non sia nessun di voi che lo tocchi: basta bene che voi facciate l’uffizio vostro, che egli non mi fugga". Dipoi accostatomisi, con cortese parole mi chiese l’arme. Inmentre che io gli davo l’arme, mi venne considerato che in quel luogo appunto io avevo ammazzato Pompeo28. Di quivi mi menorno in Castello, e in una camera sù di sopra, innel mastio, mi serrorno prigione 29. Questa fu la prima volta che mai io gustai prigione, insino a quella mia età de’ trentasette anni.

 

CII. Considerato il signor Pierluigi, figliuol del Papa, la gran quantità de’ danari, che era quella di che 1 io era accusato, subito ne chiese grazia a quel suo padre Papa, che di questa somma de’ danari gliene facessi una donagione. Per la qual cosa il Papa volentieri gliene concesse, e di più gli disse che ancora gliene aiuterebbe riscuotere:2 di modo che, tenutomi prigione otto giorni interi, in capo degli otto giorni, per dar qualche termine 3 a questa cosa, mi mandorno a esaminare 4. Di che5 io fu’ chiamato in una di quelle sale, che sono in Castello, del Papa, luogo molto onorato; e gli esaminatori erano il Governator di Roma, qual si domandava messer Benedetto Conversini pistolese, che fu da poi vescovo de lesi; l’altro si era il Proccurator fiscale 6, che del nome suo non mi ricordo; l’altro, ch’era il terzo, si era il giudice de’ malificii 7, qual si domandava messer Benedetto da Cagli. Questi tre uomini mi cominciorno a esaminare, prima con amorevole parole, da poi con asprissime e paventose 8 parole, causate perché io dissi loro: "Signori mia, egli è più d’una mezz’ora che voi non restate 9 di domandarmi di favole e di cose, che veramente si può dire che voi cicalate, o che voi favellate. Modo di dire, ‘cicalare’, che non ha tuono 10, o ‘favellare’, che non vol dir nulla: sì che io vi priego che voi mi diciate quel che voi volete da me, e che io senta uscir delle bocche vostre ragionamenti, e non favole e cicalerie". A queste mie parole il Governatore, ch’era pistolese, e non potendo più palliare 11 la sua arrovellata 12 natura, mi disse: "Tu parli molto sicuramente, anzi troppo altiero: di modo che cotesta tua alterigia io te la farò diventare più umile che un canino13 a li ragionamenti che tu mi udirai dirti; e’ quali non saranno né cicalerie né favole, come tu di; ma saranno una proposta di ragionamenti, ai quali e’ bisognerà bene che tu ci metti del buono 14 a dirci la ragione di essi". E così cominciò: "Noi sappiamo certissimo che tu eri in Roma al tempo del Sacco, che fu fatto in questa isfortunata città di Roma; e in questo tempo tu ti trovasti in questo castel Sant’Agniolo, e ci fusti adoperato per bonbardiere; e perché l’arte tua si è aurifice 15 e gioielliere, papa Clemente per averti conosciuto in prima, e per non essere qui altri di cotai professione, ti chiamò innel suo secreto 16 e ti fece isciorre tutte le gioie dei sua regni 17 e mitrie e anella; e di poi fidandosi di te, volse che tu gnene cucissi adosso: per la qual cosa tu ne serbasti per te di nascosto da sua Santità per il valore di ottanta mila scudi. Questo ce l’ha detto un tuo lavorante, con il quale tu ti se’ confidato e vantatone. Ora noi ti diciamo liberamente che tu truovi le gioie o il valore di esse gioie; di poi ti lasceremo andare in tua libertà".

 

CIII. Quando io senti’ queste parole io non mi possetti tenere di non mi muovere a grandissime risa; di poi riso alquanto, io dissi: "Molto ringrazio Idio, che per questa prima volta che gli è piaciuto a sua Maestà 1 che io sia carcerato, pur beato che io non son carcerato per qualche debol 2 cosa, come il più delle volte par che avvenga ai giovani. Se questo che voi dite fussi il vero, qui non c’è pericolo nissuno per me che io dovessi essere gastigato da pena corporale 3, avendo le legge in quel tempo 4 perso tutte le sue autorità; dove che io mi potria scusare, dicendo che come ministro 5, cotesto tesoro io lo avessi guardato 6 per la sacra e santa Chiesa appostolica, aspettando di rimetterlo a buon Papa, o sì veramente da quello che 7 e’ mi fussi richiesto, quale ora saresti voi, se la stessi così". A queste parole quello arrabbiato Governatore pistolese non mi lasciò finir di dire le mie ragione, che lui furiosamente disse: "Acconciala 8 in quel modo che tu vuoi, Benvenuto, che a noi ci basta avere ritrovato il nostro9; e fa pur presto, se tu non vuoi che noi facciamo altro che con parole". E volendosi rizzare e andarsene, io dissi loro: "Signori, io non son finito di esaminare, sicché finite di esaminarmi, e poi andate dove a voi piace". Subito si rimissono a sedere, assai bene in collora, quasi mostrando di non voler più udire parola nissuna che io a lor dicessi, e mezzo sollevati 10, parendo loro di aver trovato tutto quello che loro desideravono di sapere. Per la qual cosa io cominciai in questo tenore: "Sappiate, Signori, che e’ sono in circa a venti anni che io abito Roma, e mai né qui né altrove fui carcerato". A queste parole quel birro di quel Governatore disse: "Tu ci hai pure ammazzati degli uomini". Allora io dissi: "Voi lo dite, e non io; ma se uno venissi per ammazzar voi, così11 prete, voi vi difenderesti, e ammazzando lui le sante legge ve lo conportano 12: sì che lasciatemi dire le mie ragione, volendo potere riferire al Papa e volendo giustamente potermi giudicare. Io di nuovo vi dico ch’e’ son vicino a venti anni che13 io abito questa maravigliosa Roma, e in essa ho fatto grandissime faccende della mia professione; e perché io so che questa è la sieda14 di Cristo, e’ mi sarei promesso sicuramente15 che se un Principe temporale mi avessi voluto fare qualche assassinamento 16, io sarei ricorso a questa santa Cattedra e a questo Vicario di Cristo, che difendessi le mie ragione. Oimè! dove ho io a ’ndare adunque? e a chi17 Principe che mi difenda da un tanto iscellerato assassinamento? Non dovevi18 voi, prima che voi mi pigliassi, intendere dove io giravo 19 questi ottanta mila ducati? Ancora non dovevi voi vedere la nota delle gioie che ha questa Camera appostolica iscritte diligentemente da cinquecento anni in qua? Di poi che voi avessi trovato mancamento, allora voi dovevi pigliare tutti i miei libri, insieme con esso meco. Io vi fo intendere che e’ libri, dove sono iscritte tutte le gioie del Papa e de’ regni, sono tutti in piè20 e non troverrete manco nulla21 di quello che aveva papa Clemente, che non sia iscritto diligentemente. Solo potria essere22 che quando quel povero uomo di papa Clemente si volse accordare con quei ladroni di quelli Imperiali, che gli avevano rubato Roma e vituperata la Chiesa, veniva a negoziare questo accordo uno che si domandava Cesare Iscatinaro 23, se ben mi ricordo; il quale, avendo quasi che concluso l’accordo con quello assassinato 24 Papa, per fargli un poco di carezze, si lasciò25 cadere di dito un diamante 26, che valeva in circa quattromila scudi; e perché il ditto Iscatinaro si chinò a ricorlo 27, il Papa gli disse che lo tenessi per amor suo. Alla presenza di queste cose io mi trovai in fatto; e se questo ditto diamante vi fussi manco, io vi dico dove gli è ito28; ma io penso sicurissimamente che ancora questo troverrete iscritto. Di poi a vostra posta29 vi potrete vergogniare di avere assassinato un par mio, che ho fatto tante onorate imprese per questa sieda appostolica. Sappiate che se io non ero io, la mattina che gli Inperiali entrorno in Borgo, sanza impedimento nessuno entravano in Castello; e io, sanza esser premiato per quel conto, mi gittai vigorosamente alle artiglierie, che i bonbardieri e’ soldati di munizione30 avevano abbandonato, e messi animo31 a uno mio compagniuzzo, che si domandava Raffaello da Montelupo, iscultore, che ancora lui abbandonato s’era messo in un canto tutto ispaventato, e non facendo nulla: io lo risvegliai; e lui e io soli amazzammo tanti de’ nemici, che i soldati presono altra via. Io fui quello che detti una archibusata allo Scatinaro, per vederlo parlare con papa Clemente sanza una reverenza 32, ma con ischerno bruttissimo, come luteriano e impio 33 che gli era. Papa Clemente a34 questo fece cercare in Castello chi quel tale fussi stato35 per inpiccarlo. Io fui quello che ferì il principe d’Orangio36 d’una archibusata nella testa, qui sotto le trincee del Castello. Appresso ho fatto alla santa Chiesa tanti ornamenti d’argento, d’oro e di gioie, tante medaglie e monete sì belle e sì onorate. È questa adunche la temeraria pretesca remunerazione, che si usa a uno uomo che vi ha con tanta fede e con tanta virtù servito e amato? O andate a ridire tutto quanto io v’ho detto al Papa, dicendogli che le sue gioie e’ l’ha tutte, e che io non ebbi mai dalla Chiesa nulla altro che certe ferite e sassate in cotesto tempo del Sacco; e che io non facevo capitale d’altro che di37 un poco di remunerazione da papa Pagolo, quale lui mi aveva promesso. Ora io son chiaro38 e di sua Santità e di voi ministri". Mentre che io dicevo queste parole egli stavano attoniti a udirmi; e guardandosi in viso l’un l’altro, in atto di maraviglia si partirno da me. Andorno tutti a tre d’accordo a riferire al Papa tutto quello che io avevo detto. Il Papa, vergogniandosi, commesse con grandissima diligenza che si dovessi rivedere tutti e’ conti delle gioie. Di poi che ebbon veduto che nulla vi mancava, mi lasciavono stare in Castello senza dir altro: il signor Pierluigi, ancora a lui parendogli aver mal fatto, cercavon39 con diligenza di farmi morire.

 

CIV. In questo poco de l’agitazion del tempo 1 il re Francesco aveva di già inteso minutamente 2 come il Papa mi teneva prigione e a così gran torto: avendo mandato per inbasciadore al Papa un certo suo gentiluomo, il quale si domandava monsignior di Morluc 3, iscrisse4a questo che mi domandasse al Papa, come uomo di sua Maestà. Il Papa, che era valentissimo e maraviglioso uomo, ma in questa cosa mia si portò 5 come da poco e sciocco, e’ rispose al ditto nunzio del Re che sua Maestà non si curasse di me, perché io ero uomo molto fastidioso6 con l’arme, e per questo faceva avvertito sua Maestà che mi lasciassi stare, perché lui mi teneva prigione per omicidii e per altre mie diavolerie così fatte. Il Re di nuovo rispose che inel suo regno si teneva bonissima iustizia; e sì come sua Maestà premiava e favoriva maravigliosamente gli uomini virtuosi, così per il contrario gastigava i fastidiosi; e perché sua Santità mi avea lasciato andare, non si curando del servizio di detto Benvenuto, e vedendolo inel suo regno volentieri l’aveva preso al suo servizio; e come uomo suo lo domandava. Queste cose mi furno di grandissima noia e danno, con tutto che e’ fussino e’ più onorati favori che si possa desiderare per un mio pari. Il Papa era venuto in tanto furore per la gelosia 7 che gli aveva che io non andassi a dire quella iscellerata ribalderia usatami, che e’ pensava tutti e’ modi che poteva con suo onore 8 di farmi morire. Il Castellano di castel Sant’Agniolo si era un nostro fiorentino, il quale si domandava messer Giorgio cavaliere, degli Ugolini. Questo uomo da bene mi usò le maggior cortesie che si possa usare al mondo, lasciandomi andare libero per il Castello a fede mia sola 9, e perché gl’intendeva il gran torto che m’era fatto, volendogli io dare sicurtà10 per andarmi a spasso per il Castello, lui mi disse che non la poteva pigliare, avvenga che il Papa istimava troppo questa cosa mia 11; ma che si fiderebbe liberamente della fede mia, perché da ugniuno intendeva quanto io ero uomo da bene; e io gli detti la fede mia, e così lui mi dette comodità che io potessi lavoracchiare qualche cosa. A questo 12, pensando che questa indegniazione del Papa, sì per la mia innocenzia, ancora per i favori del Re, si dovessi terminare, tenendo pure la mia bottega aperta, veniva Ascanio mio garzone in Castello, e portavami alcune cose da lavorare. Benché poco io potessi lavorare, vedendomi a quel modo carcerato a così gran torto; pure facevo della necessità virtù: lietamente il meglio che io potevo mi conportavo13 questa mia perversa fortuna. Avevomi fatto amicissimi tutte quelle guardie e molti soldati del Castello. E perché il Papa veniva qualche volta a cena in Castello, e in questo tempo che c’era il Papa il Castello non teneva guardie, ma stava liberamente aperto come un palazzo ordinario; e perché in questo tempo che il Papa stava così, tutti e’ prigioni si usavono con maggior diligenza riserrare 14: onde a me non era fatto nessuna di queste cotal cose, ma liberamente in tutti questi tempi io me ne andavo per il Castello; e più volte alcuni di quei soldati mi consigliavano che io mi dovessi fuggire, e che loro mi arieno fatte spalle 15, conosciuto il gran torto che m’era fatto: ai quali io rispondevo che io avevo dato la fede mia al Castellano, il quale era uomo tanto dabbene, e che mi aveva fatto così gran piaceri. Eraci un soldato molto bravo e molto ingegnoso; e’ mi diceva: "Benvenuto mio, sappi che chi è prigione non è ubrigato16 né si può ubrigare a osservar fede, sì come nessuna altra cosa; fa quel che io ti dico: fùggiti da questo ribaldo di questo Papa e da questo bastardo suo figliuolo, i quali ti torranno la vita a ogni modo". Io che m’ero proposto più volentieri perder la vita, che mancare a quello uomo da bene del Castellano della mia promessa fede, mi conportavo questo inistimabil dispiacere, insieme con un frate di casa Palavisina 17 grandissimo predicatore.

 

CV. Questo era preso per luteriano:1era bonissimo domestico compagno, ma quanto a frate egli era il maggior ribaldo che fussi al mondo, e s’accomodava 2 a tutte le sorte de’ vizii. Le belle virtù sua io le ammiravo, e’ brutti vizii sua grandemente aborrivo, e liberamente ne lo riprendevo. Questo frate non faceva mai altro che ricordarmi come io non ero ubrigato a osservar fede al Castellano, per esser io in prigione. Alla qual cosa io rispondevo che sì bene come frate lui diceva il vero, ma come uomo e’ non diceva il vero, perché un che fussi uomo e non frate, aveva da osservare la fede sua in ogni sorte d’accidente, in che lui si fussi trovato: però 3 io che ero uomo e non frate, non ero mai per mancare di 4 quella mia simplice e virtuosa fede. Veduto il ditto frate che non potette ottenere il5 conrompermi per via delle sue argutissime e virtuose 6 ragioni tanto maravigliosamente dette da lui, pensò tentarmi per un’altra via; e lasciato così passare di molti giorni, inmentre mi leggeva le prediche di fra lerolimo Savonarolo 7, e’ dava loro un comento tanto mirabile, che era più bello che esse prediche: per il quale io restavo invaghito 8, e non saria stata cosa al mondo che io non avessi fatta per lui, da mancare della fede mia in fuora 9, sì come io ho detto. Vedutomi il frate istupito delle virtù sue, pensò un’altra via: ché con un bel modo mi cominci ò a domandare che via io arei tenuto se e’ mi fussi venuto voglia, quando loro mi avessino riserrato, a aprire quelle prigione per fuggirmi. Ancora io, volendo mostrare qualche sottigliezza di mio ingegnio a questo virtuoso 10 frate, gli dissi che ogni serratura difficilissima io sicuramente aprirrei, e maggiormente quelle di quelle prigione, le quale mi sarebbono state come mangiare un poco di cacio fresco. Il ditto frate, per farmi dire il mio segreto, mi sviliva 11, dicendo che le son molte cose quelle che dicon gli uomini che son venuti in qualche credito di persone ingegniose; che se gli avessino poi a mettere in opera le cose di che loro si vantavano, perderebbon tanto di credito, che guai a loro: però sentiva dire a me cose tanto discoste al vero, che se io ne fussi ricerco 12, penserebbe ch’io n’uscissi con poco onore. A questo, sentendomi io pugnere 13 da questo diavolo di questo frate, gli dissi che io usavo sempre prometter di me con parole molto manco di quello che io sapevo fare, e che cotesta cosa, che io avevo promessa, delle chiave, era la più debole 14; e con breve parole io lo farei capacissimo 15 che l’era sì come io dicevo; e inconsideratamente, sì come io dissi, gli mostrai con facilità tutto quel che io avevo detto. Il frate, facendo vista 16 di non se ne curare, subito benissimo apprese ingegniosissimamente il tutto. E sì come di sopra io ho detto, quello uomo da bene del Castellano mi lasciava andare liberamente per tutto il Castello; e manco la notte non mi serrava, sì come a tutti gli altri e’ faceva; ancora mi lasciava lavorare di tutto quello che io volevo, sì d’oro e d’argento e di cera; e se bene io avevo lavorato parecchi settimane in 17 un certo bacino che io facevo al cardinal di Ferrara, trovandomi affastidito 18 dalla prigione, m’era venuto a noia il lavorare quelle tale opere; e solo mi lavoravo, per manco dispiacere, di cera alcune mie figurette: la qual cera il detto frate me ne buscò 19 un pezzo, e con detto pezzo messe in opera quel modo delle20 chiave, che io inconsideratamente gli avevo insegniato. Avevasi preso per compagnio e per aiuto un cancelliere che stava col ditto Castellano. Questo cancelliere si domandava Luigi, ed era padovano. Volendo far fare le ditte chiave, il magniano 21 li scoperse; e perché il Castellano mi veniva alcune volte a vedere alla mia stanza, e vedutomi che io lavoravo di quelle cere, subito ricognobbe la ditta cera e disse: "Se bene a questo povero uomo di Benvenuto è fatto un de’ maggior torti che si facessi mai, meco 22 non dovev’egli far queste tale operazione, che gli facevo quel piacere che io non potevo fargli. Ora io lo terrò istrettissimo 23 serrato e non gli farò mai più un piacere al mondo". Così mi fece riserrare con qualche dispiacevolezza, massimo di parole dittemi da certi sua affezionati servitori, e’ quali mi volevano bene oltramodo, e ora per ora mi dicevano tutte le buone opere che faceva per me questo signor Castellano: talmente che in questo accidente mi chiamavano uomo ingrato, vano e sanza fede. E perché un di quelli servitori più aldacemente 24 che non si gli conveniva mi diceva queste ingiurie, onde io sentendomi innocente, arditamente risposi, dicendo che mai io non mancai di fede, e che tal parole io terrei a sostenere con virtù della vita mia, e che se più e’ mi diceva o lui o altri tale ingiuste parole, io direi che ogniuno che tal cosa dicessi, se ne mentirebbe per la gola 25. Non possendo sopportare la ingiuria, corse in camera del Castellano e portommi la cera con quel model fatto della chiave. Subito che io viddi la cera, io gli dissi che lui e io avevamo ragione; ma che mi facessi parlare al signor Castellano perché io gli direi liberamente il caso come gli stava, il quale era di molto più inportanza che loro non pensavano. Subito il Castellano mi fece chiamare, e io gli dissi tutto il seguito: per la qual cosa lui ristrinse 26 il frate, il quale iscoperse 27 quel cancelliere, che fu per essere inpiccato. Il detto Castellano quietò la cosa, la quale era di già venuta agli orecchi del Papa; campò 28 il suo cancelliere dalle forche, e me allargò 29 inel medesimo modo che io mi stavo in prima.

 

CVI. Quando io veddi 1 seguire questa cosa con tanto rigore, cominciai a pensare ai fatti mia, dicendo: "Se un’altra volta venissi un di questi furori, e che questo uomo non si fidassi di me, io non gli verrei a essere più ubbrigato, e vorrei adoperare un poco li mia ingegni, li quali io sono certo che mi riuscirieno altrimenti che quei di quel frataccio"; e cominciai a farmi portare delle lenzuola nuove e grosse, e le sudice io non le rimandavo. Li mia servitori chiedendomele, io dicevo loro che si stessin cheti, perché io l’avevo donate a certi di quei poveri soldati: ché se tal cosa si sapessi, quelli poveretti portavano pericolo della galera: di modo che li mia giovani e servitori fidelissimamente, massimo Felice, mi teneva tal cosa benissimo segreto. Io attendevo a votare un pagliericcio, e ardevo la paglia, perché nella mia prigione v’era un cammino2 da poter far fuoco. Cominciai di queste lenzuola a farne fascie larghe un terzo di braccio: quando io ebbi fatto quella quantità che mi pareva che fussi a bastanza a discendere da quella grande altura di quel mastio di castel Sant’Agniolo, io dissi ai miei servitori che avevo donato quelle che io volevo, e che m’attendessino a portare delle 3 sottile, e che sempre io renderei loro le sudice. Questa tal cosa si dimenticò. A quelli mia lavoranti e servitori il cardinale Santiquattro 4 e Cornaro mi feciono serrare la bottega, dicendomi liberamente che il Papa non voleva intender nulla 5 di lasciarmi andare, e che quei gran favori del Re mi avevano molto più nociuto che giovato: perché l’ultime parole che aveva dette monsignior di Morluc da parte del Re, si erano istate che monsigno’ di Morluc disse al Papa che mi dovessi dare in mano a’ giudici ordinari della corte; e che, se io avevo errato, mi poteva gastigare, ma non avendo errato, la ragion voleva che lui mi lasciassi andare. Queste parole avevan dato tanto fastidio al Papa, che aveva voglia di non mi lasciare mai più. Questo Castellano certissimamente mi aiutava quanto e’ poteva. Veduto in questo tempo quelli nimici mia che la mia bottega s’era serrata, con ischerno dicevano ogni dì qualche parola ingiuriosa a quelli mia servitori e amici, che mi venivano a visitare alla prigione. Accadde un giorno in fra gli altri che Ascanio, il quale ogni dì veniva dua volte da me, mi richiese che io gli facessi una certa vestetta 6 per sé d’una mia vesta azzurra di raso, la quale io non portavo mai: solo mi aveva servito quella volta, che con essa andai in processione: però io gli dissi che quelli non eran tempi, né io in luogo da portare cotai veste. Il giovane ebbe tanto per male che io non gli detti questa meschina vesta, che lui mi disse che se ne voleva andare a Tagliacozze a casa sua. Io tutto appassionato7 gli dissi che mi faceva piacere a levarmisi dinanzi; e lui giurò con grandissima passione di non mai più capitarmi innanzi. Quando noi dicevamo questo, noi passeggiavamo intorno al mastio del Castello. Avvenne che il Castellano ancora lui passeggiava: incontrandoci appunto in suo’ Signoria, e Ascanio disse: "Io me ne vo, e addio per sempre". A questo io dissi: "E per sempre voglio che sia, e così sia il vero: io commetterò 8 alle guardie che mai più ti lascin passare"; e voltomi al Castellano, con tutto il cuore lo pregai che commettessi alle guardie che non lasciassino mai più passare Ascanio, dicendo a suo’ Signoria: "Questo villanello mi viene a crescere male al mio gran male: sì che io vi priego, Signior mio, che mai più voi lasciate entrar costui". Il Castellano li incresceva assai, perché lo conosceva di maraviglioso ingegnio; a presso a questo egli era di tanta bella forma di corpo, che pareva che ogniuno, vedutolo una sol volta, gli fussi espressamente 9 affezionato. Il ditto giovane se ne andava lacrimando, e portavane una sua stortetta 10, che alcune volte lui segretamente si portava sotto. Uscendo del Castello e avendo il viso così lacrimoso, si incontrò in dua di quei mia maggior nimici, che l’uno era quel Ieronimo perugino sopra ditto, e l’altro era un certo Michele 11, orefici tutt’a dua. Questo Michele, per essere amico di quel ribaldo di quel Perugino e nimico d’Ascanio, disse: "Che vuol dir che Ascanio piagne? Forse gli è morto il padre? dico quel padre di Castello 12". Ascanio disse a questo: "Lui è vivo, ma tu sarai or morto"; e alzato la mana, con quella sua istorta gli tirò dua colpi, in sul capo tutt’a dua, che col primo lo misse in terra, e col sicondo poi gli tagliò tre dita della man ritta, dandogli 13pure in sul capo. Quivi restò come morto. Subito fu riferito al Papa; e il Papa in gran collora disse queste parole: "Da poi che il Re vuole che sia giudicato, andategli a dare tre dì di tempo per difendere la sua ragione". Subito vennono 14, e feciono il detto uffizio che aveva lor commesso il Papa. Quello uomo da bene del Castellano subito andò dal Papa, e fecielo chiaro come io non ero consapevole di tal cosa15, e che io l’avevo cacciato via. Tanto mirabilmente mi difese, che mi campò la vita da quel gran furore. Ascanio se ne fuggì a Tagliacozze a casa sua, e di là mi scrisse chiedendomi mille volte perdonanza 16, ché cogniosceva avere aùto torto a aggiugnermi dispiaceri ai mia gran mali; ma se Dio mi dava grazia che io uscissi di quel carcere, che non mi vorrebbe mai più abbandonare. Io gli feci intendere che attendessi a ’mparare, e che se Dio mi dava libertà, io lo chiamerei a ogni modo.

 

CVII. Questo Castellano aveva ogni anno certe infermità che lo traevano del cervello a fatto 1; e quando questa cosa gli cominciava a venire, e’ parlava assai, modo che cicalare 2; e questi umori 3 sua erano ogni anno diversi, perché una volta gli parve essere uno orcio da olio; un’altra volta gli parve essere un ranocchio, e saltava come il ranocchio; un’altra volta gli parve esser morto, e bisogniò sotterrarlo: così ogni anno veniva in qualcun di questi cotai umori diversi. Questa volta si cominciò a immaginare d’essere un pipistrello e, in mentre che gli andava a spasso, istrideva qualche volta così sordamente come fanno i pipistrelli; ancora dava un po’ d’atto alle mane e al4 corpo, come se volare avessi voluto. Li medici sua, che se ne erano avveduti, così li sua servitori vecchi, li davano tutti i piaceri 5 che inmaginar potevano; e perché e’ pareva loro che pigliassi gran piacere di sentirmi ragionare, a ogni poco e’ venivano per me e menavanmi da lui. Per la qual cosa questo povero uomo tal volta mi tenne quattro e cinque ore intere, che mai avevo restato 6 di ragionar seco. Mi teneva alla tavola sua a mangiare al dirinpetto a sé, e mai restava di ragionare o di farmi ragionare; ma io in quei ragionamenti mangiavo pure assai bene. Lui, povero uomo, non mangiava e non dormiva, di modo che me aveva istracco 7, che io non potevo più; e guardandolo alcune volte in viso, vedevo che le luce degli occhi erano ispaventate 8, perché una guardava in un verso, e l’altra in un altro. Mi cominciò a domandare se io avevo mai aùto fantasia 9 di volare: al quale io dissi che tutte quelle cose che più difficile agli uomini erano state, io più volentieri avevo cerco 10 di fare e fatte; e questa del volare, per avermi presentato 11 lo Idio della natura un corpo molto atto e disposto a correre e a saltare molto più che ordinario 12, con quel poco dello ingegno poi, che manualmente 13 io adopererei, a me dava il cuore di volare al sicuro. Questo uomo mi cominciò a dimandare che modi io terrei: al quale io dissi che, considerato gli animali che volano, volendogl’imitare con l’arte quello che loro avevano dalla natura, non c’era nissuno che si potessi imitare, se none il pipistrello. Come questo povero uomo sentì quel nome di pipistrello, che era l’umore in quel che peccava quel anno, messe una voce grandissima, dicendo: "E’ dice il vero, e’ dice il vero; questa è essa 14, questa è essa"; e poi si volse a me e dissemi: "Benvenuto, chi ti dessi 15 le comodità, e’ ti darebbe pure il cuore di volare?" Al quale io dissi, che se lui mi voleva dar libertà da poi, che mi bastava la vista di volare insino in Prati, faccendomi un paio d’alie 16 di tela di rensa 17 incerate. Allora e’ disse: "E anche a me ne basterebbe la vista; ma perché il Papa m’ha comandato che io tenga cura di te come degli occhi suoi, io cogniosco che tu sei un diavolo ingegnioso che ti fuggiresti: però 18 io ti vo’ fare rinchiudere con cento chiave, acciò che tu non mi fugga". Io mi messi a pregarlo, ricordandogli che io m’ero 19 potuto fuggire e, per amor della fede che io gli avevo data, io non gli arei mai mancato: però lo pregavo per l’amor de Dio, e per tanti piaceri quanti mi aveva fatto, che lui non volessi arrogere 20 un maggior male al gran male che io avevo. In mentre che io gli dicevo queste parole, lui comandava espressamente che mi legassino, e che mi menassino in prigione serrato bene. Quando io viddi che non v’era altro rimedio, io gli dissi, presenti tutti e’ sua:21 "Serratemi bene e guardatemi bene, perché io mi fuggirò a ogni modo". Così mi menorno, e chiusonmi con maravigliosa diligenza.

 

CVIII. Allora io cominciai a pensare il modo che io avevo a tenere a fuggirmi. Subito che io mi veddi chiuso, andai esaminando come stava la prigione dove io ero rinchiuso; e parendomi aver trovato sicuramente il modo di uscirne, cominciai a pensare in che modo io dovevo iscendere da quella grande altezza di quel mastio, ché così si domanda quel alto torrione; e preso quelle mie lenzuole nuove, che già dissi che io ne avevo fatte istrisce e benissimo cucite, andai esaminando quanto vilume 1 mi bastava a potere iscendere. Giudicato quello che mi potria servire, e di tutto messomi in ordine, trovai un paio di tanaglie, che io avevo tolto a un Savoino 2, il quale era delle guardie del Castello. Questo aveva cura alle botte e alle citerne3; ancora si dilettava di lavorare di legniame; e perché aveva parecchi paia di tanaglie, infra queste ve n’era un paio molto grosse e grande, pensando che le fussino il fatto mio 4, io gliene tolsi e le nascosi drento in quel pagliericcio. Venuto poi il tempo che io me ne volsi servire, io cominciai con esse a tentare di5 quei chiodi che sostenevano le bandelle 6; e perché l’uscio era doppio, la ribaditura delli detti chiodi non si poteva vedere: di modo che provatomi a cavarne uno, durai grandissima fatica; pure di poi alla fine mi riuscì. Cavato che io ebbi questo primo chiodo, andai inmaginando che modo io dovevo tenere che loro 7 non se ne fussino avveduti 8. Subito mi acconciai 9 con un poco di rastiatura 10 di ferro rugginoso un poco di cera 11, la quale era del medesimo colore appunto di quelli cappelli d’aguti 12 che io avevo cavati; e con essa cera diligentemente cominciai a contra fare 13 quei capei d’aguti in sulle lor bandelle; e di mano in mano tanti quanti io ne cavavo, tanti ne contrafacevo di cera. Lasciai le bandelle attaccate ciascuna da capo e da piè con certi delli medesimi aguti che io avevo cavati, di poi gli avevo rimessi; ma erano tagliati, di poi rimessi leggermente, tanto che e’ mi tenevano le bandelle. Questa cosa io la feci con grandissima difficultà, perché il Castellano sogniava ogni notte che io m’ero fuggito, e per ò lui mandava a vedere di ora in ora la prigione; e quello che veniva a vederla aveva nome e fatti 14 di birro. Questo si domandava il Bozza, e sempre menava seco un altro, che si domandava Giovanni, per sopranome Pedignione; questo era soldato, e ’l Bozza era servitore. Questo Giovanni non veniva mai volta 15 a quella mia prigione, che lui non mi dicessi qualche ingiuria. Costui era di quel 16 di Prato ed era stato in Prato allo speziale 17: guardava diligentemente ogni sera quelle bandelle e tutta la prigione, e io gli dicevo: "Guardatemi bene, perché io mi voglio fuggire a ogni modo". Queste parole feciono generare una nimicizia grandissima infra lui e me: in modo che io con grandissima diligenza tutti quei mia ferruzzi, come se 18 dire tanaglie, e un pugniale assai ben grande e altre cose appartenente 19, diligentemente tutti riponevo innel mio pagliericcio: così quelle fascie che io avevo fatte, ancora queste tenevo in questo pagliericcio; e come gli era giorno, subito da me ispazzavo; e se bene per natura io mi diletto della pulitezza, allora io stavo pulitissimo. Ispazzato che io avevo, io rifacevo il mio letto tanto gentilmente e con alcuni fiori, che quasi ogni mattina io mi facevo portare da un certo Savoino. Questo Savoino teneva cura della citerna e delle botte; e anche si dilettava di lavorar di legniame; e a lui io rubai le tanaglie, con che io sconficcai li chiodi di queste bandelle.20

 

CIX. Per tornare al mio letto, quando il Bozza e il Pedignione venivano, mai dicevo loro altro se non che stessin discosto dal mio letto, acciò che e’ non me lo inbrattassino e non me lo guastassino; dicendo loro per qualche occasione che pure per ischerno qualche volta che così leggiermente mi toccavano un poco il letto, per che io dicevo: "Ah i sudici poltroni! io metterò mano a una di coteste vostre spade, e farovvi tal dispiacere che io vi farò maravigliare. Parv’egli1 esser degni di toccare il letto d’un mio pari? A questo 2 io non arò rispetto alla vita mia, perché io son certo che io vi torrò la vostra: sì che lasciatemi stare colli mia dispiaceri e colle mia tribulazione, e non mi date più affanno di quello che io mi abbia; se non che 3 io vi farò vedere che cosa sa fare un disperato". Queste parole costoro le ridissono al Castellano, il quale comandò loro ispressamente che mai non s’accostassino a quel mio letto, e che, quando e’ venivano da me, venissino sanza spade, e che m’avessino benissimo cura del resto. Essendomi io assicurato del letto, mi parve aver fatto ogni cosa: perché quivi era la importanza 4 di tutta la mia faccenda. Una sera di festa in fra l’altre, sentendosi il Castellano molto mal disposto e quelli sua omori cresciuti, non dicendo mai altro se non che era pipistrello, e che se lor sentissino che Benvenuto fussi volato via, lasciassino andar lui, che mi raggiugnerebbe, poiché e’ volerebbe di notte ancora lui certamente più forte di me, dicendo: "Benvenuto è un pipistrello contrafatto, e io sono un pipistrello dadovero 5; e perché e’ m’è stato dato in guardia, lasciate pur fare a me, che io lo giugnerò 6 ben io". Essendo stato più notti in questo umore, gli aveva stracco 7 tutti i sua servitori; e io per diverse vie intendevo 8 ogni cosa, massimo da quel Savoino che mi voleva bene. Resolutomi questa sera di festa a fuggirmi a ogni modo, in prima divotissimamente a Dio feci orazione, pregando sua divina Maestà che mi dovessi difendere e aiutare in quella tanta pericolosa inpresa; di poi messi mano a tutte le cose che io volevo operare, e lavorai tutta quella notte. Come io fu’ a dua ore innanzi il giorno, io cavai quelle bandelle con grandissima fatica, perché il battente del legnio della porta e anche il chiavistello facevano un contrasto 9, il perché io non potevo aprire: ebbi a smozzicare 10 il legno; pure alla fine io apersi, e messomi adosso quelle fascie, quale io avevo avvolte a modo di fusi di accia 11 in su dua legnetti, uscito fuora, me ne andai dalli destri 12 del mastio; e scoperto per di drento dua tegoli del tetto, subito facilmente vi saltai sopra. Io mi trovavo in giubbone bianco e un paio di calze bianche e simile un paio di borzachini 13, inne’ quali avevo misso quel mio pugnialotto già ditto. Di poi presi un capo di quelle mie fascie e l’accomandai 14 a un pezzo di tegola antica ch’era murata inel ditto mastio: a caso questa usciva fuori a pena quattro dita. Era la fascia acconcia 15 a modo d’una staffa. Appiccata che io l’ebbi a quel pezzo della tegola, voltomi a Dio, dissi: "Signiore Idio, aiuta la mia ragione,16 perché io l’ho, come tu sai, e perché io mi aiuto". Lasciatomi andare pian piano, sostenendomi per forza di braccia, arrivai in sino in terra. Non era lume di luna, ma era un bel chiarore. Quando io fui in terra, guardai la grande altezza che io avevo isceso così animosamente, e lieto me ne andai via, pensando d’essere isciolto 17. Per la qual cosa 18 non fu vero, perché il Castellano da quella banda aveva fatto fare dua muri assai bene alti, e se ne serviva per istalla e per pollaio: questo luogo era chiuso con grossi chiavistelli per di fuora. Veduto che io non potevo uscir di quivi, mi dava grandissimo dispiacere. Inmentre che io andavo innanzi e indietro pensando ai fatti mia, detti dei piedi in una gran pertica 19, la quale era coperta dalla paglia. Questa con gran difficultà dirizzai a quel muro; di poi a forza di braccia la salsi20 insino in cima del muro. E perché quel muro era tagliente 21, io non potevo aver forza da tirar sù la ditta pertica: però 22 mi risolsi a ’piccare 23 un pezzo di quelle fascie, che era l’altro fuso, perché uno de’ dua fusi io l’avevo lasciato attaccato al mastio del Castello: così presi un pezzo di quest’altra fascia, come ho detto, e legatala a quel corrente 24, iscesi questo muro, il qual mi dette grandissima fatica e mi aveva molto istracco, e di più avevo iscorticato le mane per di drento, che sanguinavano: per la qual cosa io m’ero messo a riposare, e mi avevo bagniato le mane con la mia orina medesima. Stando così, quando e’ mi parve che le mie forze fussino ritornate, salsi all’ultimo procinto 25 delle mura, che guarda in verso Prati; e avendo posato quel mio fuso di fascie, col quale io volevo abbracciare 26 un merlo, e in quel modo che io avevo fatto innella maggior altezza, fare in questa minore; avendo, come io dico, posato la mia fascia, mi si scoperse 27 adosso una di quelle sentinelle che facevano la guardia. Veduto inpedito il mio disegno, e vedutomi in pericolo della vita, mi disposi di affrontare quella guardia; la quale, veduto l’animo mio diliberato e che andavo alla volta sua 28 con armata mano, sollecitava il passo, mostrando di scansarmi. Alquanto iscostatomi dalle mie fascie, prestissimo mi rivolsi indietro; e se bene io viddi un’altra guardia, tal volta 29 quella non volse veder me. Giunto alle mie fascie, legatole al merlo, mi lasciai andare: per la qual cosa, o sì veramente parendomi essere presso a terra, avendo aperto le mane per saltare, o pure eran le mane istracche, non possendo resistere a quella fatica, io caddi, e in questo cader mio percossi la memoria 30 e stetti isvenuto più d’un’ora e mezzo, per quanto io posso giudicare. Di poi, volendosi far chiaro il giorno 31, quel poco del fresco che viene un’ora innanzi al sole, quello mi fece risentire 32, ma sì bene stavo ancora fuor della memoria, perché mi pareva che mi fussi stato tagliato il capo, e mi pareva d’essere innel purgatorio. Stando così, a poco a poco mi ritornorno le virtù innell’esser loro 33, e m’avviddi che io ero fuora del Castello, e subito mi ricordai di tutto quello che io avevo fatto. E perché la percossa della memoria io la senti’ prima che io m’avvedessi della rottura della gamba, mettendomi le mane al capo ne le levai tutte sanguinose; di poi cercatomi 34 bene, cognobbi e giudicai di non aver male che d’inportanza fussi: però, volendomi rizzare di terra, mi trovai tronca la mia gamba ritta sopra il tallone tre dita. Né anche questo mi sbigott ì: cavai il mio pugnialotto insieme con la guaina; ché per avere questo 35 un puntale con una pallottola assai grossa in cima del puntale, questo era stato la causa dell’avermi rotto la gamba: perché contrastando l’ossa con quella grossezza di quella pallottola, non possendo l’ossa piegarsi, fu causa che in quel luogo si roppe: di modo che io gittai via il fodero del pugniale, e con il pugniale tagliai un pezzo di quella fascia che m’era avanzata, e il meglio che io possetti rimissi la gamba insieme, di poi carpone con il detto pugniale in mano andavo inverso la porta. Per la qual cosa giunto alla porta, io la trovai chiusa; e veduto una certa pietra sotto la porta a punto, la quale, giudicando che la non fussi molto forte 36, mi provai a scalzarla; di poi vi messi le mane, e sentendola dimenare 37, quella facilmente mi ubbidì, e trassila fuora; e per quivi entrai 38.

 

CX. Era stato 1 più di cinquecento passi andanti 2 da il luogo dove io caddi, alla porta dove io entrai. Entrato che io fui drento in Roma, certi cani maschini 3 mi si gittorno addosso e malamente mi morsono: ai quali, rimettendosi più volte a fragellarmi 4, io tirai con quel mio pugnale e ne punsi 5 uno tanto gagliardamente, che quello guaiva forte, di modo che gli altri cani, come è lor natura, corsono a quel cane; e io sollecitai andandomene inverso la chiesa della Trespontina 6 così carpone. Quando io fui arrivato alla bocca 7 della strada che volta in verso Sant’Agniolo, di quivi presi il cammino per andarmene alla volta di San Piero, per modo che faccendomisi dì chiaro addosso 8, considerai che io portavo pericolo; e scontrato uno acqueruolo 9 che aveva carico il suo asino e pieno le sue coppelle 10 d’acqua, chiamatolo a me, lo pregai che lui mi levassi di peso e mi portassi in su il rialto 11 delle scalee di San Piero, dicendogli: "Io sono un povero giovane, che per. casi d’amore sono voluto iscendere da una finestra: così son caduto, e rottomi una gamba. E perché il luogo dove io sono uscito è di grande inportanza, e porterei pericolo di non 12 essere tagliato a pezzi, però 13 ti priego che tu mi lievi presto, e io ti donerò uno scudo d’oro"; e messi mano alla mia borsa, dove io ve ne avevo una buona quantità. Subito costui mi prese, e volentieri me si misse a dosso, e portommi in sul ditto rialto delle scalee di San Piero; e quivi mi feci lasciare, e dissi che correndo ritornassi al suo asino. Subito presi il cammino così carpone, e me andavo in casa la Duchessa 14, moglie del duca Ottavio 15 e figliuola dello Imperadore 16, naturale, non legittima, istata moglie del duca Lessandro,17 duca di Firenze; e perché io sapevo certissimo che appresso a questa gran principessa c’era di molti mia amici, che con essa eran venuti di Firenze; ancora perché lei ne aveva fatto favore 18 mediante il Castellano; che volendomi aiutare disse al Papa, quando la Duchessa fece l’entrata in Roma 19, che io fu’ causa di salvare per più di mille scudi di danno, che faceva loro una grossa pioggia: per la qual cosa lui disse ch’era disperato, e che io gli messi cuore, e disse come io avevo acconcio parecchi pezzi grossi di artiglieria inverso quella parte dove i nugoli erano più istretti, e di già cominciati a piovere un’acqua grossissima: per la qual cosa cominciato a sparare queste artiglierie si fermò la pioggia, e alle quattro volte si mostrò il sole 20; e che io ero stato intera causa che quella festa era passata benissimo: per la qual cosa, quando la Duchessa lo intese, aveva ditto: "Quel Benvenuto è un di quei virtuosi che stavano con la buona memoria del duca Lessandro mio marito, e sempre io ne terrò conto di quei tali 21, venendo la occasione di far loro piacere"; e ancora aveva parlato di me al duca Ottavio suo marito. Per queste cause io me ne andavo diritto a casa di sua Eccellenzia, la quale istava in Borgo Vecchio in un bellissimo palazzo che v’è; quivi io sarei stato sicurissimo che il Papa non m’arebbe tocco 22; ma perché la cosa che io avevo fatta insin quivi era istata troppo maravigliosa a 23 un corpo umano, non volendo Idio che io entrassi in tanta vanagloria 24, per il mio meglio mi volse dare ancora una maggior disciplina25, che non era istata la passata; e la causa si fu, che inmentre che io me ne andavo così carpone su per quelle scalee, mi ricogniobbe subito un servitore che stava con il cardinal Cornaro; il qual cardinale era alloggiato in Palazzo. Questo servitore corse alla camera del Cardinale, e isvegliatolo, disse: "Monsignior reverendissimo, gli è giù il vostro Benvenuto, il quale s’è fuggito di Castello, e vassene carponi tutto sanguinoso: per quanto e’ mostra, gli ha rotto una gamba, e non sappiamo dove lui si vada". Il Cardinale disse subito: "Correte, e portatemelo di peso qui in camera mia". Giunto a lui, mi disse che io non dubitassi di nulla; e subito mandò per i primi medici di Roma; e da quelli io fui medicato; e questo fu un maestro Iacomo da Perugia 26molto eccellentissimo cerusico. Questo mirabilmente mi ricongiunse l’osso, poi fasciommi, e di sua mano mi cavò sangue: ché essendomi gonfiato le vene molto più che l’ordinario, ancora perché lui volse fare la ferita alquanto aperta, uscì sì grande il furor27 di sangue, che gli dette nel viso, e di tanta abbundanzia lo coperse, che lui non si poteva prevalere 28 a medicarmi; e avendo preso questa cosa per molto male aùrio 29, con gran difficultà mi medicava; e più volte mi volse 30 lasciare, ricordandosi che ancora a lui ne andava non poca pena31 a avermi medicato o pure finito di medicarmi. Il Cardinale mi fece mettere in una camera segreta, e subito andatosene32 a Palazzo con intenzione di chiedermi 33 al Papa.

 

CXI. In questo mezzo s’era levato un romore grandissimo in Roma: ché di già s’era vedute le fascie attaccate al gran torrione del mastio di Castello, e tutta Roma correva a vedere questa inistimabil cosa. Intanto il Castellano era venuto inne’ sua maggiori umori della pazzia, e voleva a forza 1 di tutti e’ sua servitori volare ancora lui da quel mastio, dicendo che nessuno mi poteva ripigliare se non lui, con il volarmi drieto. In questo 2 messer Roberto Pucci, padre di messer Pandolfo, avendo inteso questa gran cosa, andò in persona per vederla; di poi se ne venne a Palazzo, dove si incontrò nel cardinal Cornaro, il quale disse tutto il seguìto 3, e sì come io ero in una delle sue camere di già medicato. Questi dua uomini da bene d’accordo si andorno a gittare in ginocchioni dinanzi al Papa, il quale, innanzi che e’ lasciassi lor dir nulla, lui disse: "Io so tutto quel che voi volete da me". Messer Roberto Pucci disse: "Beatissimo Padre, noi vi domandiamo per grazia quel povero uomo, che per le virtù sue merita avergli qualche discrezione 4, e appresso a quelle, gli ha mostro 5 una tanta bravuria insieme, con tanto ingegnio che non è parsa cosa umana. Noi non sappiamo per qual peccati vostra Santità l’ha tenuto tanto in prigione: però, se quei peccati fussino troppo disorbitanti 6, vostra Santità è santa e savia, e facciane alto e basso 7 la voluntà sua; ma se le son cose da potersi concedere, la preghiamo che a noi. ne faccia grazia". Il Papa a questo vergogniandosi disse che m’aveva tenuto in prigione a riquisizione di certi sua8 "per essere lui un poco troppo ardito; ma che cognosciuto le virtù sue e volendocelo tenere appresso a di noi 9, avevamo ordinato di dargli tanto bene, che lui non avessi auto causa di ritornare in Francia. Assai m’increscie del suo gran male; ditegli che attenda a guarire; e de’ sua affanni, guarito che e’ sarà, noi lo ristoreremo". Venne questi dua omaccioni 10, e dettonmi questa buona nuova da parte del Papa. In questo mezzo mi venne a visitare la nobiltà di Roma, e giovani e vecchi e d’ogni sorte. Il Castellano, così fuor di sé, si fece portare al Papa; e quando fu dinanzi a sua Santità cominciò a gridare dicendo che se lui non me gli rendeva in prigione, che gli faceva un gran torto, dicendo: "E’ m’è fuggito sotto la fede che m’aveva data: oimè, che e’ m’è volato via, e mi promesse11 di non volar via!" Il Papa ridendo disse: "Andate, andate, che io ve lo renderò a ogni modo". Aggiunse il Castellano, dicendo al Papa: "Mandate a lui il Governatore, il quale intenda 12 chi l’ha aiutato fuggire, perché se gli è de’ mia uomini, io lo voglio impiccare per la gola a quel merlo dove Benvenuto è fuggito". Partito il Castellano, il Papa chiamò il Governatore sorridendo, e disse: "Questo è un bravo uomo, e questa è una maravigliosa cosa; con tutto che, quando io ero giovane, ancora io iscesi di quel luogo proprio". A questo il Papa diceva il vero, perché gli era stato prigione in Castello per avere falsificato un breve 13, essendo lui abbreviatore di Parco maioris 14: papa Lessandro 15 l’aveva tenuto prigione assai; di poi, per esser la cosa troppo brutta, si era risoluto tagliargli il capo; ma volendo passare le feste del Corpus Domini, sapendo il tutto il Farnese 16, fece venire Pietro Chiavelluzzi con parecchi cavalli, e in Castello corroppe con danari certe di quelle guardie: di modo che il giorno del Corpus Domini, in mentre che il Papa era in processione, Farnese fu messo in un corbello e con una corda fu collato.17 insino a terra. Non era ancor fatto il procinto 18 delle mura al Castello, ma era solamente il torrione, di modo che lui non ebbe quelle gran difficultà a fuggirne, sì come ebbi io; ancora, 19 lui era preso a ragione e io a torto. Basta ch’e’ si volse vantare col Governatore d’essere istato ancora lui nella sua giovanezza animoso e bravo, e non s’avvedde 20 che gli scopriva le sue gran ribalderie. Disse: "Andate e ditegli 21 liberamente vi dica chi gli 22 ha aiutato’: così sie stato chi e’ vuole, basta che a lui è perdonato, e prometteteglielo liberamente voi".

 

CXII. Venne a me questo Governatore, il quale era stato fatto di dua giorni innanzi vescovo de lesi1: giunto a me, mi disse: "Benvenuto mio, se bene il mio uffizio è quello che spaventa gli uomini, io vengo a te per assicurarti; e così ho autorità di prometterti per commessione espressa di sua Santità, il quale m’ha ditto che anche lui ne fugg ì, ma che ebbe molti aiuti e molta compagnia, ché altrimenti non l’arìa potuto fare. Io ti giuro per i Sacramenti che io ho addosso — ché son fatto Vescovo da dua dì in qua — che il Papa t’ha libero 2 e perdonato, e gli rincresce assai del tuo gran male; ma attendi a guarire, e piglia ogni cosa per il meglio, ché questa prigione, che certamente innocentissima tu hai aùto, la sarà istata la salute 3 tua per sempre, perché tu calpesterai la povertà 4, e non ti accadrà ritornare in Francia, andando a tribulare la vita tua in questa parte e in quella. Sì che dimmi liberamente il caso come gli è stato, e chi t’ha dato aiuto; di poi confòrtati e ripòsati e guarisci". Io mi feci da un capo 5 e gli contai tutta la cosa come l’era istata appunto, e gli detti grandissimi contrasegni 6, insino a 7 dell’acqueruolo che m’aveva portato a dosso. Sentito ch’ebbe il Governatore il tutto, disse: "Veramente queste son troppe gran cose da un uomo solo: le non son degne d’altro uomo che di te". Così fattomi cavar fuora la mana, disse: "Istà di buona voglia e confòrtati, che per questa mana che io ti tocco tu se’ libero e, vivendo, sarai felice". Partitosi da me, che aveva tenuto a disagio 8 un monte di gran gentiluomini e signiori, che mi venivano a visitare, dicendo in fra loro: "Andiamo a vedere quello uomo che fa miracoli", questi restorno meco; e chi di loro mi offeriva 9 e chi mi presentava 10. Intanto il Governatore, giunto al Papa, cominci ò a contar la cosa che io gli avevo ditta; e appunto s’abbatté a esservi alla presenza il signior Pierluigi suo figliuolo; e tutti facevano grandissima maraviglia. Il Papa disse: "Certamente questa è troppo gran cosa". Il signior Pierluigi allora aggiunse dicendo: "Beatissimo Padre, se voi lo liberate, egli ve ne farà delle maggiori, perché questo è uno animo d’uomo troppo aldacissimo. Io ve ne voglio contare un’altra, che voi non sapete. Avendo parole 11 questo vostro Benvenuto, innanzi che lui fussi prigione, con un gentiluomo del cardinal Santa Fiore 12; le qual parole vennono13 da una piccola cosa che questo gentiluomo aveva detto a Benvenuto, di modo che lui bravissimamente 14 e con tanto ardire rispose, insino a voler far segnio di far quistione; il detto gentiluomo referito al cardinale Santa Fiore, il qual disse che se vi metteva le mani lui, che gli caverebbe il pazzo 15 del capo; Benvenuto, inteso questo, teneva un suo scoppietto in ordine, con il quale lui dà continuamente in un quattrino 16; e un giorno, affacciandosi il Cardinale alla finestra, per essere la bottega del ditto Benvenuto sotto il palazzo del Cardinale, preso il suo scoppietto si era messo in ordine per tirare al Cardinale. E perché il Cardinale ne fu avvertito, si levò subito. Benvenuto, perché e’ non si paressi tal cosa 17, tirò a un colombo terraiuolo 18 che covava in una buca sù alto del palazzo, e dette al ditto colombo in nel capo: cosa inpossibile da poterlo credere. Ora vostra Santità faccia tutto quel che la vuole di lui; io non voglio mancare di non ve lo aver detto. E’ gli potrebbe anche venir voglia, parendogli essere stato prigione a torto, di tirare una volta a vostra Santità. Questo è uno animo troppo afferato e troppo sicuro.19 Quando gli ammazzò Pompeo, gli dette dua pugnalate innella gola in mezzo a dieci uomini che lo guardavano, e poi si salvò, con biasimo non piccolo di coloro, li quali eran pure uomini da bene e di conto".

 

CXIII. Alla presenza di queste parole si era 1 quel gentiluomo di Santa Fiore con il quale io avevo aùto parole, e affermò 2 al Papa tutto quel che il suo figliuolo aveva detto. Il Papa stava gonfiato 3 e non parlava nulla. Io non voglio mancare che io non dica le mie ragione giustamente e santamente. Questo gentiluomo di Santa Fiore venne un giorno a me e mi porse un piccolo anellino d’oro, il quale era tutto inbrattato d’ariento vivo, dicendo: "Isvivami 4 questo anelluzzo e fa presto". Io che avevo innanzi molte opere d’oro con gioie inportantissime, e anche sentendomi così sicuramente 5 comandare da uno a il quale io non avevo mai né parlato né veduto, gli dissi che io non avevo per allora isvivatoio 6, e che andassi a un altro. Costui, sanza un proposito 7 al mondo, mi disse che io ero un asino. Alle qual parole io risposi ch’e’ non diceva la verità, e che io era uno uomo in ogni conto da più di lui; ma che se lui mi stuzzicava, io gli darei ben calci più forte che uno asino. Costui riferì al Cardinale e li dipinse uno inferno. Ivi a dua giorni io tirai drieto al palazzo in una buca altissima a un colombo salvatico,8 che covava in quella buca; e a quel medesimo colombo io avevo visto tirare più volte da uno orefice che si domandava Giovan Francesco della Tacca, milanese, e mai l’aveva colto. Questo giorno che io tirai, il colombo mostrava appunto il capo, stando in sospetto per l’altre volte che gli era stato tirato; e perché questo Giovan Francesco e io eravamo rivali alle caccie dello stioppo 9, essendo certi gentiluomini e mia amici in su la mia bottega, mi mostrorno dicendo: "Ecco lassù il colombo di Giovan Francesco della Tacca, a il quale gli ha tante volte tirato: or vedi, quel povero animale sta in sospetto; a pena che e’ mostri il capo". Alzando gli occhi, io dissi: "Quel poco del capo solo basterebbe a me a ammazzarlo, se m’aspettassi solo che io mi ponessi a viso il mio stioppo". Quelli gentiluomini dissono che e’ non gli darebbe 10 quello che fu inventore dello stioppo. Al quale io dissi: "Vadine 11 un boccale di grego 12 di quel buono di Palombo oste, e che se m’aspetta che io mi metta a viso il mio mirabile Broccardo (ché così chiamavo il mio stioppo), io lo investirò in quel poco del capolino che mi mostra". Subito postomi a viso, a braccia, senza appoggiare o altro, feci quanto promesso avevo, non pensando né al Cardinale né a persona altri; anzi mi tenevo il Cardinale per molto mio patrone 13. Sì che vegga il mondo, quando la fortuna vuol torre a ’ssassinare uno uomo, quante diverse vie la piglia. Il Papa gonfiato e ingrogniato, stava considerando quel che gli aveva detto il suo figliuolo.

 

CXIV. Dua giorni apresso andò il cardinal Cornaro a dimandare un vescovado al Papa per un suo gentiluomo, che si domandava messer Andrea Centano. Il Papa è vero che gli aveva promesso un vescovado: essendo così vacato1, ricordando il Cardinale al Papa sì come tal cosa lui gli aveva promesso, il Papa affermò esser la verità e che così gliene voleva dare; ma che voleva un piacere da sua Signioria reverendissima, e questo si era che voleva che gli rendessi nelle mane Benvenuto. Allora il Cardinale disse: "Oh se vostra Santità gli ha perdonato e datomelo libero, che dirà il mondo e di vostra Santità e di me?" Il Papa replicò: "Io voglio Benvenuto, e ogniun dica quel che vuole, volendo voi 2 il vescovado". Il buon Cardinale disse che sua Santità gli dessi il vescovado, e che del resto pensassi da sé e facessi da poi tutto quel che sua Santità e voleva e poteva. Disse il Papa, pure alquanto vergogniandosi della iscellerata già data fede sua: "Io manderò per Benvenuto, e per un poco di mia sadisfazione lo metterò giù in quelle camere del giardino segreto 3, dove lui potrà attendere a guarire, e non si gli vieterà che tutti gli amici sua lo vadino a vedere, e anche li farò dar le spese 4, insin che ci passi questo poco della fantasia 5." Il Cardinale tornò a casa e mandommi subito a dire per quello che aspettava il vescovado, come il Papa mi rivoleva nelle mane; ma che mi terrebbe in una camera bassa innel giardin segreto, dove io starei visitato da ugniuno, siccome io era in casa sua. Allora io pregai questo messer Andrea, che fussi contento di dire al Cardinale che non mi dessi al Papa e che lasciassi fare a me: per che io mi farei rinvoltare in un materasso e mi farei portare fuor di Roma in luogo sicuro: perché se lui mi dava al Papa, certissimo mi dava alla morte. Il Cardinale, quando e’ le intese,6 si crede che lui l’arebbe volute fare 7, ma quel messer Andrea, a chi 8 toccava il vescovado, scoperse la cosa.9 Intanto il Papa mandò per me subito e fecemi mettere, sì come e’ disse, in una camera bassa innel suo giardin segreto. Il Cardinale mi mandò a dire che io non mangiassi nulla di quelle vivande che mi mandava il Papa, e che lui mi manderebbe da mangiare; e che quello che gli aveva fatto non aveva potuto far di manco, e che io stessi di buona voglia, che m’aiuterebbe tanto che io sarei libero. Standomi così, ero ogni dì visitato e offertomi 10 da molti gran gentiluomini molte gran cose. Dal Papa veniva la vivanda, la quale io non toccavo, anzi mi mangiavo quella" che veniva dal cardinal Cornaro, e così mi stavo. Io avevo in fra gli altri mia amici un giovane greco di età di venticinque anni: questo era gagliardissimo oltramodo e giucava 11 di spada meglio che ogni altro uomo che fussi in Roma: era pusillo 12 d’animo, ma era fidelissimo uomo da bene e molto facile al credere 13. Aveva sentito dire che il Papa aveva detto che mi voleva remunerare de’ miei disagi. Questo era il vero, che il Papa aveva detto tal cose da principio, ma inell’ultimo da poi diceva altrimenti. Per la qual cosa io mi confidavo con questo giovane greco e gli dicevo: "Fratello carissimo, costoro mi vogliono assassinare, sì che ora è tempo aiutarmi: ché pensano che io non me ne avvegga, facendomi questi favori istrasordinari, gli quali son tutti fatti per tradirmi". Questo giovane da bene diceva: "Benvenuto mio, per Roma si dice che il Papa t’ha dato uno uffizio di cinquecento scudi di entrata: sì che io ti priego di grazia che tu non faccia che questo tuo sospetto ti tolga un tanto bene". E io pure 14 lo pregavo con le braccia in crocie che mi levassi di quivi, perché io sapevo bene che un Papa simile a quello mi poteva fare di molto bene, ma che io sapevo certissimo che lui studiava in farmi segretamente, per15 suo onore, di molto male: però 16 facessi presto e cercassi di camparmi la vita da costui: ché se lui mi cavava di quivi, innel modo che io gli arei detto, io sempre arei riconosciuta la vita mia da17 lui; venendo il bisogno, la ispenderei. Questo povero giovane piangendo mi diceva: "O caro mio fratello, tu ti vuoi pure rovinare, e io non ti posso mancare. a quanto tu mi comandi: sì che dimmi il modo e io farò tutto quello che tu dirai, se bene e’ fia contra mia voglia ". Così eramo risoluti e io gli avevo dato tutto l’ordine 18, che facilissimo ci riusciva. Credendomi che lui venissi per mettere in opera quanto io gli avevo ordinato, mi venne a dire che per la salute 19 mia mi voleva disubbidire, e che sapeva bene quello che gli aveva inteso da uomini che stavano appresso a il Papa e che sapevano tutta la verità de’ casi mia. Io che non mi potevo aiutare in altro modo, ne restai malcontento e disperato. Questo fu il dì del Corpus Domini nel mille cinquecento trenta nove.

 

CXV. Passatomi tempo da poi questa disputa, tutto quel giorno sino alla notte 1, dalla cucina del Papa venne una abbundante vivanda: ancora dalla cucina del cardinale Cornaro venne bonissima provvisione 2. Abbattendosi a questo 3 parecchi mia amici, gli feci restare a cena meco: onde io tenendo la mia gamba isteccata 4 innel letto, feci lieta cera con esso loro;5 così soprastettono meco. Passato un’ora di notte di poi si partirno; e dua mia servitori m’assettorno 6 da dormire, di poi si messono nell’anticamera. Io avevo un cane nero quant’una mora, di questi pelosi, e mi serviva mirabilmente alla caccia dello stioppo, e mai non istava lontan da me un passo. La notte, essendomi sotto il letto, ben tre volte chiamai il mio servitore, che me lo levassi di sotto il letto, perché e’ mugliava paventosamente 7. Quando i servitori venivano, questo cane si gittava loro adosso per mordergli. Gli erano ispaventati e avevan paura che il cane non fussi arrabbiato 8, perché continuamente urlava. Così passammo insino alle quattro ore di notte. Al tocco delle quattro ore di notte entrò il bargello con molta famiglia 9 drento nella mia camera: allora il cane uscì fuora e gittossi adosso a questi con tanto furore, stracciando loro le cappe e le calze, e gli aveva missi in tanta paura, che lor pensavano che fussi arrabbiato. Per la qual cosa il bargello, come persona pratica, disse: "La natura de’ buoni cani è questa, che sempre s’indovinano e predicono il male che de’ venire a’ lor padroni: pigliate dua bastoncelli e difendetevi dal cane, e gli altri leghino Benvenuto in su questa sieda, e menatelo dove voi sapete". Sì come io ho detto, era il giorno passato del Corpus Domini, ed era in circa a quattro ore di notte. Questi mi portavano turato 10 e coperto, e quattro di loro andavano innanzi, faccendo iscansare quelli pochi uomini che ancora si ritrovavano per la strada. Così mi portorno a Torre di Nona,11 luogo detto così, e messomi innella prigione della vita12, posatomi in sun un poco di materasso e datomi uno di quelle guardie, il quale tutta la notte si condoleva della mia cattiva fortuna, dicendomi: "Oimè! povero Benvenuto, che hai tu fatto a costoro?" Onde io benissimo mi avvisai quel che mi aveva a ’ntervenire 13; sì per essere il luogo cotal e anche perché colui me lo aveva avvisato. Istetti un pezzo di quella notte col pensiero a tribularmi qual fussi la causa che a Dio piaceva darmi cotal penitenzia; e perché io non la ritrovavo, forte mi dibattevo. Quella guardia s’era messa poi il meglio che sapeva a confortarmi: per la qual cosa io lo scongiurai per l’amor de Dio che non mi dicessi nulla e non mi parlassi, avvenga che da me medesimo io farei più presto e meglio una cotale resoluzione. Così mi promesse. Allora io volsi tutto il cuore a Dio; e divotissimamente lo pregavo che gli piacessi di accettarmi innel suo regno; e che se bene io m’ero dolto 14, parendomi questa tal partita 15 in questo modo molto innocente 16, per quanto prommettevano gli ordini17 delle legge; e se bene io avevo fatto degli omicidi, quel suo Vicario 18 mi aveva dalla patria mia chiamato e perdonato coll’autorità delle legge e sua; e quello che io avevo fatto, tutto s’era fatto per difensione di questo corpo che sua Maestà 19 mi aveva prestato: di modo che io non conoscevo, sicondo gli ordini con che si vive innel mondo, di meritare quella morte; ma che a me mi pareva che mi intervenissi quello che avviene a certe isfortunate persone, le quale, andando per la strada, casca loro un sasso da qualche grande altezza in su la testa e gli ammazza: qual si vede ispresso esser potenzia 20 delle stelle: non già che quelle sieno congiurate contro a di noi per farci bene o male, ma vien fatto inelle loro congionzione 21, alle quale noi siamo sottoposti; se bene io cogniosco d’avere il libero albitrio 22; e se la mia fede fussi santamente esercitata, io sono certissimo che gli angeli del Cielo mi porterieno fuor di quel carcere e mi salverieno sicuramente d’ogni mio affanno; ma perché e’ non mi pare d’esser fatto degno da Dio d’una tal cosa, però 23 è forza che questi influssi celesti adenpienò 24 sopra di me la loro malignità. E con questo dibattutomi un pezzo, da poi mi risolsi 25 e subito appiccai 26 sonno.

 

CXVI. Fattosi l’alba, la guardia mi destò e disse: "O sventurato uomo da bene, ora non è più tempo a dormire, perché gli è venuto quello che t’ha a dare una cattiva nuova 1". Allora io dissi: "Quanto più presto io esca di questo carcer mondano 2, più mi sarà grato, maggiormente essendo sicuro che l’anima mia è salva, e che io muoio a torto. Cristo glorioso e divino mi fa compagno 3 alli sua discepoli e amici, i quali, e Lui e loro, furno fatti morire a torto: così a torto son io fatto morire, e santamente ne ringrazio Idio. Perché non viene innanzi colui che m’ha da sentenziare?" Disse la guardia allora: "Troppo gl’incresce di te e piange". Allora io lo chiamai per nome, il quale aveva nome messer Benedetto da Cagli. Dissi: "Venite innanzi, messer Benedetto mio, ora che io son benissimo disposto e resoluto; molto più gloria mia è che io muoia a torto, che se io morissi a ragione: venite innanzi, vi priego, e datemi un sacerdote, che io possa ragionar con seco quattro parole; con tutto che non bisogni, perché la mia santa confessione io l’ho fatta col mio Signiore Idio: ma solo per osservare quello che ci ha ordinato la santa madre Chiesa; che se bene e’ la 4 mi fa questo iscellerato torto, io liberamente 5 le perdono. Sì che venite, messer Benedetto mio, e speditemi prima che ’l senso mi cominciassi a offendere 6". Ditte queste parole, questo uomo da bene disse alla guardia che serrassi la porta, perché sanza lui non si poteva far quello uffizio 7. Andossene a casa della moglie del signor Pierluigi 8; la quale era insieme con la Duchessa 9 sopraditta; e fattosi innanzi a loro questo uomo disse: "Illustrissima mia patrona, siate contenta, vi priego per l’amor de Dio, di mandare a dire al Papa che mandi un altro a dar quella sentenzia a Benvenuto e fare questo mio uffizio, perché io lo rinunzio e mai più lo voglio fare"; e con grandissimo cordoglio sospirando si partì. La Duchessa, che era lì alla presenza, torcendo il viso disse: "Questa è la bella iustizia che si tiene in Roma da il Vicario de Dio! Il Duca già mio marito 10 voleva un gran bene a questo uomo per le sue bontà e per le sue virtù, e non voleva che lui ritornassi a Roma, tenendolo molto caro appresso a di sé"; e andatasene in là borbottando con molte parole dispiacevole 11. La moglie del signior Pierluigi, si chiamava la signiora Ieronima, se ne andò dal Papa, e gittandosi ginocchioni — era alla presenza parecchi Cardinali — questa donna disse tante gran cose che la fece arrossire il Papa, il quale disse: "Per vostro amore noi lo lascieremo istare, se bene noi non avemmo mai cattivo animo inverso di lui". Queste parole le disse il Papa per essere alla presenza di quei Cardinali, i quali avevano sentito le parole che aveva detto quella maravigliosa e ardita donna. Io mi stetti con grandissimo disagio, battendomi il cuore continuamente. Ancora stette 12 a disagio tutti quelli uomini che erano destinati a tale cattivo uffizio, insino che era tardi all’ora del desinare; alla quale ora ogni uomo andò ad altre sue faccende, per modo che a me fu portato da desinare: onde che maravigliato, io dissi: "Qui ha potuto più la verità che la malignità degli influssi celesti: così priego Idio che se gli è in suo piacere, mi scampi da questo furore". Cominciai a mangiare, e sì bene come io avevo fatto prima la resoluzione al mio gran male, ancora la feci alla speranza del mio gran bene. Desinai di buona voglia. Così mi stetti sanza vedere o sentire altri insino a una ora di notte. A quell’ora venne il bargello con buona parte della sua famiglia, il quale mi rimesse in su quella sieda, che la sera dinanzi lui m’aveva in quel luogo portato, e di quivi con molte amorevol parole a me, che io non dubitassi 13, e a’ sua birri comandò che avessin cura di non mi percuotere quella gamba che io avevo rotta, quanto agli occhi sua 14. Così facevano, e mi portorno in Castello 15, di donde io ero uscito; e quando noi fummo sù da alto innel mastio, dov’è un cortiletto, quivi mi fermorno per alquanto.

 

CXVII. In questo mezzo il Castellano sopraditto si fece portare in quel luogo dove io ero, e così ammalato e afflitto disse: "Ve’ che ti ripresi?" "Sì" dissi io, "ma ve’ che io mi fuggi’, come io ti dissi? e se io non fussi stato venduto, sotto la fede papale, un 1 vescovado da un veniziano Cardinale e un romano da Farnese, e’ quali l’uno e l’altro ha graffiato il viso 2 alle sacre sante legge, tu mai non mi ripigliavi. Ma da poi che ora da loro s’è messa 3 questa male usanza, fa ancora tu il peggio che tu puoi, ché di nulla mi curo al mondo". Questo povero uomo cominci ò molto forte a gridare, dicendo: "Oimè! oimè! costui non si cura né di vivere né di morire, ed è più ardito che quando egli era sano: mettetelo là sotto il giardino, e non mi parlate mai più di lui, che costui è causa della morte mia". Io fui portato sotto un giardino in una stanza 4 oscurissima, dove era dell’acqua assai, piena di tarantole e di molti vermi velenosi. Fummi gittato un materassuccio di capecchio in terra, e per la sera non mi fu dato da cena, e fui serrato a quattro porte: così istetti insino alle dicianove ore il giorno seguente. Allora mi fu portato da mangiare: ai quali 5 io domandai che mi dessino alcuni di quei miei libri da leggere. Da nessuno di questi non mi fu parlato, ma riferirno a quel povero uomo del Castellano, il quale aveva domandato quello che io dicevo. L’altra mattina poi mi fu portato un mio libro di Bibbia vulgare 6, e un certo altro libro dove eran le Cronache di Giovan Villani. Chiedendo io certi altri mia libri, mi fu detto che io non arei altro e che io avevo troppo di quelli. Così infelicemente mi vivevo in su quel materasso tutto fradicio, ché in tre giorni era acqua ogni cosa 7: onde io stavo continuamente senza potermi muovere, perché io avevo la gamba rotta; e volendo andare pur fuor del letto per la necessità de’ miei escrimenti, andavo carpone con grandissimo affanno per non fare lordure in quel luogo dove io dormiva. Avevo8 un’ora e mezzo del dì di un poco di riflesso di lume 9, il quale m’entrava in quella infelice caverna per una piccolissima buca; e solo di 10quel poco del tempo leggevo, e ’l resto del giorno e della notte sempre stavo al buio pazientemente, non mai fuor de’ pensieri de Dio e di questa nostra fragilità umana; e mi pareva esser certo in brevi giorni di aver a finir quivi e in quel modo la mia sventurata vita. Pure, il meglio che io potevo da me istesso mi confortavo, considerando quanto maggior dispiacere e’ mi saria istato inel passare della vita mia, sentire quella inistimabil passione del coltello 11; dove istando a quel modo io la passavo con un sonnifero 12, il quale mi s’era fatto molto più piacevole che quello di prima; e a poco a poco mi sentivo spegnere, insino a tanto che la mia buona complessione si fu accomodata a quel purgatorio. Di poi che io senti’ essersi lei 13 accomodata e assuefatta, presi animo di comportarmi 14 quello inistimabil dispiacere in sino a tanto quanto lei stessa me lo comportava 15.

 

CXVIII. Cominciai da principio la Bibbia, e divotamente la leggevo e consideravo, ed ero tanto invaghito in essa, che se io avessi potuto non arei mai fatto altro che leggere; ma, come e’ mi mancava el lume, subito mi saltava addosso1 tutti i miei dispiaceri e davanmi tanto travaglio, che più volte io m’ero resoluto in qualche modo di spegnermi 2 da me medesimo; ma perché e’ non mi tenevono 3 coltello, io avevo male il modo a poter4 far tal cosa. Però una volta infra l’altre avevo acconcio 5 un grosso legno che vi era e puntellato in modo d’una stiaccia 6; e volevo farlo iscoccare 7 sopra il mio capo; il quale me lo arebbe istiacciato al primo 8: di modo che, acconcio che io ebbi tutto questo edifizio 9, movendomi risoluto per iscoccarlo, quando io volsi dar drento 10 colla mana, io fui preso da cosa11 invisibile e gittato quattro braccia lontano da quel luogo, e tanto ispaventato che io restai tramortito; e così mi stetti da l’alba del giorno insino alle dicianove ore che e’ mi portorno il mio desinare. I quali 12 vi dovettono venire più volte, che io non gli avevo sentiti: perché quando io gli senti’ entrò drento il capitan Sandrino Monaldi, e senti’ che disse: "O infelice uomo, ve’ che fine ha aùto una così rara virtù!" Sentite queste parole, apersi gli occhi: per la qual cosa viddi preti colle toghe 13 indosso, i quali dissono: "O voi, dicesti che gli era morto!" Il Bozza disse: "Morto lo trovai, e però14 lo dissi". Subito mi levorno di quivi donde io ero, e levato il materasso, il quale era tutto fradicio diventato come maccheroni, lo gittorno fuori di quella stanza; e riditte queste tal cose al Castellano, mi fece dare un altró materasso. E così ricordatomi che cosa poteva essere stata quella che m’avessi stòlto 15 da quella cotale inpresa, pensai che fussi stato cosa divina e mia difensitrice 16.

 

CXIX. Di poi la notte mi apparve in sognio una maravigliosa creatura 1 in forma d’un bellissimo giovane, e a modo di sgridarmi diceva: "Sa’ tu chi è quello che t’ha prestato 2 quel corpo, che tu volevi guastare innanzi al tempo suo?" Mi pareva rispondergli che il tutto riconoscevo dallo3 Idio della natura. "Addunche" mi disse "tu dispregi l’opere sue, volendole guastare? Làsciati guidare a 4 lui e non perdere la speranza della virtù sua", con molte altre parole tanto mirabile, che io non mi ricordo della 5 millesima parte. Cominciai a considerare che questa forma d’angelo mi aveva ditto il vero; e gittato gli occhi per la prigione, viddi un poco di mattone fracido: così lo strofinai l’uno coll’altro e feci a modo che un poco di savore 6; di poi così carpone mi accostai a un taglio 7 di quella porta della prigione, e co’ denti tanto feci che io ne spiccai 8 un poco di scheggiuzza; e fatto che io ebbi questo, aspettai quella ora del lume che mi veniva alla prigione, la quale era dalle venti ore e mezzo insino alle ventuna e mezzo. Allora cominciai a scrivere il meglio che io poteva in su certe carte che avanzavano9 innel libro della Bibbia; e riprendevo 10 gli spiriti mia dello intelletto, isdegniati di non voler più istare in vita; i quali rispondevano a il corpo mio, iscusandosi della loro disgrazia; e il corpo dava loro isperanza di bene: così in dialogo iscrissi:

"Afflitti spirti miei,
oimè crudeli, che vi rincresce vita11!"
"Se contra il Ciel tu sei,
chi fia per noi? chi ne porgerà aita 12?
Lassa, lassaci andare a miglior vita."
"Deh non partite ancora,
ché più felici e lieti
promette il Ciel 13 che voi fussi già mai".
"Noi resterèn 14 qualche ora,
purché del magno Idio concesso sièti
grazia, che non si torni a maggior guai."

Ripreso di nuovo il vigore, da poi che da per me medesimo io mi fui confortato, seguitando di legger la mia Bibbia, e’ mi ero di sorte assuefatto gli occhi in quella oscurità, che dove prima io solevo leggere una ora e mezzo, io ne leggevo tre intere. E tanto maravigliosamente consideravo la forza della virtù de Dio in quei semplicissimi uomini 15, che con tanto fervore si credevano che Idio conpiaceva loro tutto quello che quei s’inmaginavano 16: promettendomi ancora io de17 l’aiuto de Dio, sì per la sua divinità e misericordia, e ancora per la mia innocenzia; e continuamente, quando con orazione e quando con ragionamenti volti a Dio, sempre istavo in questi alti pensieri in Dio: di modo che e’ mi cominciò a venire una dilettazione tanto grande di questi pensieri in Dio, che io non mi ricordavo più di nessuno dispiacere che mai io per l’addietro avessi auto, anzi cantavo tutto il giorno salmi e molte altre mie composizione tutte diritte a Dio. Solo mi dava grande affanno le ugna 18 che mi crescevano: perché io non potevo toccarmi che 19 con esse io non mi ferissi; non mi potevo vestire, perché o le mi si arrovesciavano in drento o in fuora, dandomi assai dolore. Ancora mi si moriva 20 e’ denti in bocca; e di questo io m’avvedevo, perché sospinti i denti morti da quei ch’erano vivi, a poco a poco sofforavano le gengie 21, e le punte delle barbe 22 venivano a trapassare il fondo delle lor casse 23. Quando me ne avvedevo gli tiravo, come cavargli d’una guaina, sanza altro dolore o sangue: così me n’era usciti assai bene. Pure accordatomi 24 anche con quest’altri nuovi dispiaceri, quando cantavo, quando oravo 25, e quando scrivevo con quel matton pesto sopraditto; e cominciai un capitolo 26 in lode della prigione, e in esso dicevo tutti quelli accidenti che da quella io avevo auti: qual capitolo si scriverà poi al suo luogo 27.

 

CXX. Il buon Castellano mandava ispesso segretamente 1 a sentire quello che io facevo; e perché l’ultimo dì di luglio io mi rallegrai da me medesimo assai, ricordandomi della gran festa che si usa di fare in Roma in quel primo dì d’agosto 2, da me dicevo: "Tutti questi anni passati questa piacevol festa io l’ho fatta con le fragilità del mondo 3; questo anno io la farò oramai con la divinità de Dio"; e da me dicevo: "Oh quanto più lieto sono io di questa che di quelle 4!" Quelli 5 che mi udirno dire queste parole, il tutto riferirno al Castellano; il quale con maraviglioso dispiacere disse: "Oh Dio! colui trionfa e vive, in tanto male; e io istento in tante comodità, e muoio solo per causa sua! Andate presto e mettetelo in quella più sotterrania caverna, dove fu fatto morire il predicatore Foiano 6 di fame: forse che vedendosi in tanta cattività 7, gli potria uscire il ruzzo del 8capo". Subito venne dalla mia prigione il capitano Sandrino Monaldi con circa venti di quei servitori del Castellano; e mi trovorno che io ero ginocchioni, e non mi volgevo a loro, anzi adoravo un Dio Padre addorno di Angeli e un Cristo risucitante vittorioso, che io mi avevo disegniati innel muro con un poco di carbone, che io avevo trovato ricoperto dalla terra, di poi 9 quattro mesi che io ero stato rovescio innel letto con la mia gamba rotta; e tante volte sogniai che gli Angeli mi venivano a medicarmela, che di poi quattro mesi ero divenuto gagliardo come se mai rotta la non fussi stata. Però 10 vennono a me tanto armati, quasi che paurosi che io non fussi un velenoso dragone. Il ditto capitano disse: "Tu senti pure che noi siamo assai, e che con gran romore noi vegniamo a te; e tu a noi non ti volgi". A queste parole, inmaginatomi benissimo quel peggio che mi poteva intervenire, e fattomi pratico e costante 11 al male, dissi loro: "A questo Idio 12 che mi porta a quello de’ cieli ho volto l’anima mia e le mie contemplazione e tutti i mia spiriti vitali; e a voi ho volto appunto quello che vi si appartiene,13perché quello che è di buono in me voi non sete degni di guardarlo, né potete toccarlo: sì che fate, a quello che è vostro, tutto quello che voi potete". Questo ditto capitano, pauroso, non sapendo quello che io mi volessi fare, disse a quattro di quelli più gagliardi: "Levatevi l’arme tutte da canto". Levate che se l’ebbono, disse: "Presto presto saltategli a dosso e pigliatelo. Non fussi 14 costui il diavolo, che tanti 15 noi doviamo aver paura di lui? Tenetelo or forte che non vi scappi". Io, sforzato e bistrattato da loro, inmaginandomi molto peggio di quello che poi m’intervenne, alzando gli occhi a Cristo dissi: "O giusto Idio, tu pagasti pure in su quello alto legno16 tutti e’ debiti nostri: perché addunche ha a pagare la mia innocenzia i debiti di chi io non conosco? Oh pure sia fatta la tua voluntà". Intanto costoro mi portavano via con un torchiaccio17 acceso: pensavo io che mi volessino gittare innel trabocchetto del Sammalò 18: così chiamato un luogo paventoso, il quale n’ha inghiottiti assai così vivi, perché vengono a cascare inne’ fondamenti del Castello giù in un pozzo. Questo non m’intervenne: per la qual cosa me ne parve avere un bonissimo mercato 19: perché loro mi posono in quella bruttissima caverna sopra detta, dove era morto il Foiano di fame, e ivi mi lasciorno istare, non mi faccendo altro male. Lasciato che e’ m’ebbono, cominciai a cantare un De profundis clamavit 20, un Miserere21 e In te Domine speravi22. Tutto quel giorno primo d’agosto festeggiai con Dio, e sempre mi iubbilava23 il cuore di speranza e di fede. Il sicondo giorno mi trassono di quella buca e mi riportorno dove era quei miei primi disegni di quelle inmagini de Idio. Alle quali giunto che io fui, alla presenza di esse di dolcezza e di letizia io assai piansi. Da poi il Castellano ogni dì voleva sapere quello che io facevo e quello che io dicevo. Il Papa, che aveva inteso tutto il seguìto24, e di già li medici avevano isfidato a morte 25 il ditto Castellano, disse: "Innanzi che il mio Castellano muoia, io voglio che e’ faccia morire a suo modo quel Benvenuto, ch’è causa della morte sua, acciò che lui non muoia invendicato". Sentendo queste parole il Castellano per bocca del duca Pierluigi, disse al ditto: "Addunche il Papa mi dona Benvenuto, e vuole che io ne faccia le mie vendette? Non pensi addunche ad altro e lasci fare a me". Sì come il cuor del Papa fu cattivo inverso di me, pessimo e doloroso fu innel primo aspetto quello del Castellano; e in questo punto quello Invisibile, che mi aveva divertito 26 dal volermi ammazzare, venne a me pure invisibilmente ma con voci chiare; e mi scosse e levommi da iacere e disse: "Oimè! Benvenuto mio, presto presto ricorri a Dio con le tue solite orazione, e grida forte forte". Subito spaventato mi posi inginocchioni, e dissi molte mie orazioni ad alta voce; di poi tutte, un Qui habitat in aiutorium27; di poi questo, ragionai con Idio un pezzo; e in uno istante la voce medesima aperta e chiara mi disse: "Vatti a riposa 28, e non aver più paura". E questo fu che il Castellano, avendo dato commessione bruttissima per la mia morte, subito la tolse 29 e disse: "Non è egli Benvenuto quello che io ho tanto difeso, e quello che io so certissimo che è innocente, e che tutto questo male se gli è fatto a torto? O come Idio arà mai misericordia di me e dei mia peccati, se io non perdono a quelli che m’hanno fatto grandissime offese? O perché ho io a offendere un uomo da bene, innocente, che m’ha fatto servizio e onore? Vadia 30, ché in cambio di farlo morire, io gli do vita e libertà; e lascio per testamento che nissuno gli domandi nulla del debito della grossa ispesa che qui gli arebbe a pagare 31 ". Questo intese il Papa e l’ebbe molto per male.

 

CXXI. Io istavo intanto colle mie solite orazione e scrivevo il mio capitolo, e cominciai a fare ogni notte i più lieti e i più piacevoli sogni che mai inmaginar si possa; e sempre mi pareva essere insieme visibilmente con quello che invisibile avevo sentito bene ispesso, a il quale io non domandavo altra grazia se non e’ lo pregavo, e strettamente 1, che mi menassi dove io potessi vedere il sole, dicendogli che era quanto desiderio io avevo; e che se io una sola volta lo potessi vedere, da poi io morrei contento. Di tutte le cose che io avevo in questa prigione dispiacevoli, tutte mi erano diventate amiche e compagne, e nulla mi disturbava. Se bene quei divoti 2 del Castellano, che aspettavano che il Castellano m’impiccassi a quel merlo dove io ero sceso, sì come lui aveva detto, veduto poi che il detto Castellano aveva fatta un’altra resoluzione tutta contraria da quella; costoro, che non la potevano patire 3, sempre mi facevano qualche diversa paura, per la quale io dovessi pigliare spavento per la perdita della vita. Sì come io dico, a tutte queste cose io m’ero tanto addimesticato, che di nulla io non avevo più paura e nulla più mi moveva: solo questo desiderio, che il sogniare di vedere la spera 4 del sole. Di modo che seguitando innanzi colle mie grande orazioni, tutte volte collo affetto a Cristo, sempre dicendo: "O vero figliuol de Dio, io ti priego per la tua nascita, per la tua morte in croce e per la tua gloriosa resurressione, che tu mi facci degno che io vegga il sole, se none altrimenti, almanco in sogno; ma se tu mi facessi degno che io lo vedessi con questi mia occhi mortali, io ti prometto di venirti a visitare al tuo santo Sepulcro". Questa resoluzione e queste mie maggior preci a Dio le feci a’ dì dua d’ottobre nel mille cinquecento trentanove. Venuto poi la mattina seguente, che fu a’ dì tre ottobre detto, io m’ero risentito5 alla punta 6 del giorno, innanzi il levar del sole, quasi un’ora; e sollevatomi da quel mio infelice covile, mi messi a dosso un poco di vestaccia che io avevo, perché e’ s’era cominciato a far fresco; e stando così sollevato, facevo orazione più divote che mai io avessi fatte per il passato: ché in dette orazione dicevo con gran prieghi a Cristo che mi concedessi almanco tanto di grazia, che io sapessi per ispirazion divina per qual mio peccato io facevo così gran penitenzia; e da poi che sua Maestà divina non mi aveva voluto far degnio della vista del sole almanco in sogno, lo pregavo per tutta la sua potenzia e virtù che mi facessi degno che io sapessi quale era la causa di quella penitenzia.

 

CXXII. Dette queste parole, da quello Invisibile, a modo che1 un vento io fui preso e portato via, e fui menato in una stanza, dove quel mio Invisibile allora visibilmente mi si mostrava in forma umana, in modo d’un giovane di prima barba: con faccia maravigliosissima, bella, ma austera, non lasciva; e mi mostrava 2 innella ditta stanza. dicendomi: "Quelli tanti uomini che tu vedi, sono tutti quei che insino a qui son nati e poi son morti". Il perché3 io lo domandavo per che causa lui mi menava quivi: il qual mi disse: "Vieni innanzi meco e presto lo vedrai". Mi trovavo in mano un pugnialetto e indosso un giaco di maglia; e così mi menava per quella grande stanza, mostrandomi coloro che a infinite migliaia or per un verso or per un altro camminavano. Menatomi innanzi, uscì innanzi a me per una piccola porticella in un luogo come in una strada istretta; e quando egli mi tirò drieto a sé innella detta istrada, all’uscire di quella stanza mi trovai disarmato, ed ero in camicia bianca sanza nulla in testa, ed ero a man ritta del ditto mio compagnio. Vedutomi a quel modo, io mi maravigliavo, perché non ricognoscevo quella istrada; e alzato gli occhi, viddi che il chiarore del sole batteva in una pariete di muro, modo che 4 una facciata di casa, sopra il mio capo. Allora io dissi: "O amico mio, come ho io da fare, che io mi potessi alzare tanto che io vedessi la propia spera5 del sole?" Lui mi mostrò parecchi scaglioni 6 che erano quivi alla mia man ritta, e mi disse: "Va quivi da te". Io spiccatomi7 un poco da lui, salivo con le calcagnia allo indietro su per quei parecchi scaglioni, e cominciavo a poco a poco a scoprire la vicinità 8 del sole. M’affrettavo di salire; e tanto andai in sù in quel modo ditto che io scopersi tutta la spera del sole. E perché la forza de’ suoi razzi 9, al solito loro, mi fece chiudere gli occhi, avvedutomi dell’error mio 10, apersi gli occhi e guardando fiso il sole11, dissi: "O sole mio, che t’ho tanto desiderato, io voglio non mai più vedere altra cosa, se bene i tuoi razzi mi acciecano". Così mi stavo con gli occhi fermi in lui; e stato che io fui un pochetto in quel modo, viddi in un tratto tutta quella forza di quei gran razzi gittarsi in sulla banda manca12 del ditto sole; e restato il sole netto, sanza i suoi razzi, con grandissimo piacere io lo vedevo; e mi pareva cosa maravigliosa che quei razzi si fussino levati in quel modo. Stavo a considerare che divina grazia era stata questa, che io avevo quella mattina da Dio, e dicevo forte: "Oh mirabil tua potenzia! oh gloriosa tua virtù! Quanto maggior grazia mi fai tu, di quello che io non m’aspettavo!" Mi pareva questo sole sanza i razzi sua, né più né manco un bagno di purissimo oro istrutto13. Inmentre che io consideravo questa gran cosa, viddi in mezzo a detto sole cominciare a gonfiare14; e crescere questa forma di questo gonfio, e in un tratto si fece un Cristo in croce della medesima cosa che era il sole; ed era di tanta bella grazia in benignissimo aspetto, quale ingegno umano non potria inmaginare una millesima parte; e in mentre che io consideravo tal cosa, dicevo forte: "Miracoli, miracoli! O Idio, o clemenzia tua, o virtù tua infinita, di che cosa mi fai tu degno questa mattina!" E in mentre che io consideravo e che io dicevo queste parole, questo Cristo si moveva inverso quella parte dove erano andati i suoi razzi, e innel mezzo del sole di nuovo gonfiava, sì come aveva fatto prima; e cresciuto il gonfio, subito si convertì in una forma d’una bellissima Madonna, qual15 mostrava di essere a sedere in modo molto alto con il ditto figliuolo in braccio in atto piacevolissimo, quasi ridente; di qua e di là era messa in mezzo 16 da duoi angeli bellissimi tanto, quanto lo inmaginare non arriva. Ancora vedevo in esso sole, alla mana ritta, una figura vestita a modo di sacerdote 17: questa mi volgeva le stiene 18 e ’l viso teneva volto inverso quella Madonna e quel Cristo. Tutte queste cose io vedevo vere, chiare e vive, e continuamente ringraziavo la gloria di Dio con grandissima voce. Quando questa mirabil cosa mi fu stata innanzi agli occhi poco più d’uno ottavo d’ora, da me si partì, e io fui riportato in quel mio covile. Subito cominciai a gridare forte, ad alta voce dicendo: "La virtù de Dio m’ha fatto degno di mostrarmi tutta la gloria sua, quale non ha forse mai visto altro occhio mortale: onde per questo io mi cogniosco di essere libero e felicé e in grazia a Dio; e voi ribaldi, ribaldi resterete, infelici e nella disgrazia de Dio. Sappiate che io sono certissimo che il dì di tutti e’ Santi, quale fu quello che io venni al mondo nel mille cinquecento a punto, il primo dì di novembre, la notte seguente a quattro ore, quel dì che verrà 19, voi sarete forzati 20 a cavarmi di questo carcere tenebroso; e non potrete far di manco, perché io l’ho visto con gli occhi mia e in quel trono di Dio. Quel sacerdote, qual era volto inverso Idio e che a me mostrava le stiene, quello era il santo Pietro, il quale avocava 21 per me, vergogniandosi che innella casa sua si faccia ai cristiani così brutti torti. Sì che ditelo a chi volete, che nissuno non ha potenzia di farmi più male; e dite al quel Signior 22 che mi tien qui, che se lui mi dà o cera o carta,23 e modo che io gli possa sprimere 24 questa gloria de Dio, che mi s’è mostra 25, certissimo io lo farò chiaro di quel che forse lui sta in dubbio".

 

CXXIII. Il Castellano, con tutto che i medici non avessino punto di 1 speranza della sua salute, ancora era restato in lui spirito saldo e si era partito 2 quelli umori della pazzia, che gli solevano dar noia ogni anno; e datosi in tutto e per tutto all’anima, la coscienza lo rimordeva, e gli pareva pure che io avessi ricevuto e ricevessi un grandissimo torto; e faccendo intendere al Papa quelle gran cose che io diceva, il Papa gli mandava a dire come quello che non credeva nulla, né in Dio né in altri,3 dicendo che io ero inpazzato, e che attendessi il più che lui poteva alla sua salute. Sentendo il Castellano queste risposte, mi mand ò a confortare e mi mandò da scrivere e della cera e certi fuscelletti4 fatati per lavorar di cera, con molte cortese parole, che me le disse un certo di quei sua servitori che mi voleva bene. Questo tale era tutto contrario di quella setta di quegli altri ribaldi, che mi arebbon voluto veder morto. Io presi quelle carte e quelle cere, e cominciai a lavorare; e ’n mentre che io lavoravo scrissi questo sonetto indiritto 5 al Castellano.

S’i’ potessi, Signior, mostrarvi il vero 6 del lume eterno, in questa bassa vita, qual ho da Dio 7, in voi vie più gradita saria mia fede, che d’ogni alto impero8.

Ahi! se ’l credessi il gran Pastor del chiero 9 che Dio s’è mostro10 in sua gloria infinita, qual mai vide alma, prima che partita da questo basso regnio, aspro e sincero11;

le porte di Iustizia sacre e sante sbarrar 12 vedresti, e ’l tristo impio furore cader legato, e al Ciel mandar le voce13.

S’i’ avessi luce, ahi lasso, almen le piante sculpir del Ciel potessi il gran valore14! Non saria il mio gran mal sì greve croce.

CXXIV. Venuto l’altro giorno 1 a portarmi il mio mangiare quel servitore del Castellano, il quale mi voleva bene, io gli detti questo sonetto iscritto; il quale, segretamente 2 da quelli altri maligni servitori, che mi volevano male, lo dette al Castellano: il quale volentieri m’arebbe lasciato andar via, perché gli pareva che quel torto che m’era istato fatto, fussi gran causa della morte sua. Prese il sonetto, e lettolo più d’una volta, disse: "Queste non sono né parole né concetti da pazzo; ma sì bene d’uomo buono e da bene"; e subito comandò a un suo secretario che lo portassi al Papa, e che lo dessi in propia mano, pregandolo che mi lasciassi andare. Mentre che il detto segretario portò il sonetto al Papa, il Castellano mi mandò lume per il dì e per la notte, con tutte le comodità che in quel luoco si poteva desiderare: per la qual cosa io cominciai a migliorare della indisposizione della mia vita, quale era divenuta grandissima. Il Papa lesse il sonetto più volte; di poi mandò a dire al Castellano che farebbe ben presto cosa che gli sarebbe grata. E certamente che il Papa m’arebbe poi volentieri lasciato andare; ma il signor Pierluigi ditto, suo figliuolo, quasi contra la voglia del Papa, per forza mi vi teneva. Avvicinandosi la morte del Castellano, inmentre che io avevo disegniato e sculpito 3 quel maraviglioso miracolo 4, la mattina d’Ogni Santi mi mandò per Piero Ugolini, suo nipote, a mostrare certe gioie; le quali quando io le viddi, subito dissi: "Questo è il contrasegnio5 della mia liberazione". Allora questo giovane, che era persona di pochissimo discorso6, disse: "A cotesto non pensar tu mai, Benvenuto". Allora io dissi: "Porta via le tue gioie, perché io son condotto di sorte 7, che io non veggo lume se none 8 in questa caverna buia, innella quale non si può discernere la qualità delle gioie; ma quanto all’uscire di questo carcere, e’ non finirà questo giorno intero, che voi me ne verrete a cavare; e questo è forza che così sia, e non potete far di manco". Costui si partì e mi fece riserrare; e andatosene, soprastette più di dua ore di oriuolo 9; di poi venne per me senza armati, con dua ragazzi che mi aiutassino sostenere, e così mi menò in quelle stanze larghe che io avevo prima, questo fu ’l 1538 10, dandomi tutte le comodità che io domandavo.

 

CXXV. Ivi a pochi giorni il Castellano, che pensava che io fussi fuora e libero, stretto 1 dal suo gran male pass ò di questa presente vita, e in cambio suo restò messer Antonio Ugolini suo fratello, il quale aveva dato ad intendere al Castellano passato 2, suo fratello, che mi aveva lasciato andare. Questo messer Antonio, per quanto io intesi, ebbe commessione dal Papa di lasciarmi stare in quella prigione larga, per insino a tanto che lui gli direbbe quel che s’avessi a fare di me. Quel messer Durante bresciano già sopra ditto si convenne 3 con quel soldato speziale pratese di darmi a mangiare qualche licore 4 in fra i miei cibi, che fussi mortifero, ma non subito; facessi in termine 5 di quattro o di cinque mesi. Andorno inmaginando 6 di mettere in fra il cibo del diamante pesto; il quale non ha veleno in sé di sorte alcuna, ma per la sua inistimabil durezza resta con i canti 7 acutissimi, e non fa come l’altre pietre: ché quella sottilissima acutezza a tutte le pietre, pestandole, non resta, anzi restano come tonde; e il diamante solo resta con quella acutezza: di modo che entrando innello stomaco insieme con gli altri cibi, in quel girare che e’ fanno e’ cibi per fare la digestione, questo diamante s’appicca ai cartilaggini dello stomaco e delle budella, e di mano in mano che ’l nuovo cibo viene pigniendo 8 sempre innanzi, quel diamante appiccato a esse 9 con non molto ispazio di tempo le fora; e per tal causa si muore; dove che ogni altra sorte di pietre o vetri mescolata col cibo non ha forza d’appiccarsi, e così ne va col cibo. Però10 questo messer Durante sopraditto dette un diamante di qualche poco di valore a una di queste guardie. Si disse che questa cura 11 l’aveva auta un certo Lione 12 aretino, orefice, mio gran nimico. Questo Lione ebbe il diamante per pestarlo; e perché Lione era poverissimo e ’l diamante poteva valere parecchi decine di scudi, costui dette ad intendere a quella guardia che quella polvere che lui gli dette fussi quel diamante pesto che s’era ordinato per darmi; e quella mattina che io l’ebbi, me lo messono in tutte le vivande; che fu un venerdì: io l’ebbi in insalata e in intingoli e in minestra. Attesi di buona voglia a mangiare, perché la sera io avevo digiunato. Questo giorno era di festa. È ben vero che io mi sentivo scrosciare la vivanda sotto i denti, ma non pensavo mai a tal ribalderie. Finito che io ebbi di desinare, essendo restato un poco d’insalata innel piattello, mi venne diritto gli occhi a certe stiezze13 sottilissime, le quale m’erano avanzate. Subito io le presi, e accostatomi al lume della finestra, che era molto luminosa, parte che 14 io le guardavo, mi venne ricordato di quello iscrosciare che m’aveva fatto la mattina il cibo più che il solito; e riconsideratole bene, per quanto gli occhi potevan giudicare, mi credetti resolutamente che quello fussi diamante pesto. Subito mi feci morto resolutissimamente,15 e così cordoglioso corsi divotamente alle sante orazione; e come resoluto, mi pareva esser certo di essere ispacciato e morto; e per una ora intera feci grandissime orazione a Dio, ringraziandolo di quella così piacevol morte. Da poi che le mie stelle mi avevano così destinato, mi pareva averne aùto un buon mercato16a uscirne per quella agevol via; e mi ero contento, e avevo benedetto il mondo e quel tempo che sopra di lui ero stato. Ora me ne tornavo a miglior regnio con la grazia de Dio, che me la pareva avere sicurissimamente acquistata; e in quello che io stavo con questi pensieri, tenevo in mano certi sottilissimi granelluzzi di quello creduto diamante, quale per certissimo giudicavo esser tale. Ora, perché la speranza mai non muore, mi parve essere sobbillato 17 da un poco di vana speranza: qual fu causa che io presi un poco di coltellino, e presi di quelle ditte granelline, e le missi in su ’n un ferro della prigione; dipoi appoggiatovi la punta del coltello per piano, aggravando18 forte, senti’ disfare la ditta pietra; e guardato bene con gli occhi, viddi che così era il vero. Subito mi vesti’ di nuova isperanza e dissi: "Questo non è il mio nimico messer Durante 19, ma è una pietraccia tenera la quale non è per farmi un20male al mondo". E sì come io m’ero risoluto di starmi cheto e di morirmi in pace a quel modo, feci nuovo proposito, ma in prima ringraziando Idio e benedicendo la povertà, che sì come molte volte è la causa della morte degli uomini, quella volta ell’era stata causa istessa della vita mia: perché avendo dato quel messer Durante mio nimico, o chi21fussi stato, un diamante a Lione, che me lo pestassi, di valore di più di cento scudi, costui per povertà lo prese per sé, e a me pest ò un berillo cetrino 22 di valore di dua carlini, pensando forse, per essere ancora esso pietra, che egli facesse el medesimo effetto del diamante.

 

CXXVI. In questo tempo il vescovo di Pavia 1, fratel del conte di San Sicondo 2, domandato monsignior de’ Rossi di Parma, questo vescovo era prigione in Castello per certe brighe già fatte a Pavia; e per esser molto mio amico, io mi feci fuora 3 alla buca della mia prigione, e lo chiamai ad alta voce, dicendogli che per uccidermi quei ladroni m’avevan dato un diamante pesto; e gli feci mostrare da un suo servitore alcune di quelle polveruzze avanzatemi; ma io non gli dissi che io avevo conosciuto che quello non era diamante; ma gli dicevo che loro certissimo mi avevano avelenato da poi la morte di quell’uomo da bene del Castellano; e quel4 poco che io vivessi, lo pregavo che mi dessi de’ sua pani uno il dì, perché io non volevo mai più mangiare cosa nissuna che venissi da loro. Così mi promise mandarmi della sua vivanda. Quel messer Antonio,5che certo di tal cosa non era consapevole, fece molto gran romore e volse vedere quella pietra pesta, ancora lui pensando che diamante egli fussi; e pensando che tale impresa venissi dal Papa, se la passò così di leggieri 6, considerato che gli ebbe il caso. Io m’attendevo a mangiare della vivanda che mi mandava il Vescovo, e scrivevo continuamente quel mio capitolo della prigione, mettendovi giornalmente tutti quelli accidenti che di nuovo mi venivano 7, di punto in punto. Ancora il ditto messer Antonio mi mandava da mangiare per un certo sopra ditto Giovanni speziale, di quel di Prato, e quivi soldato. Questo, che m’era nimicissimo e che era istato lui quello che m’aveva portato quel diamante pesto, io gli dissi che nulla io volevo mangiare di quello che egli mi portava, se prima egli non me ne faceva la credenza8: per la qual cosa lui mi disse che a’ Papi si fanno le credenze. Al quale io risposi che sì come i gentili uomini sono ubrigati a far la credenza al Papa, così lui, soldato, spezial, villan da Prato, era ubrigato a far la credenza a un Fiorentino par mio. Questo disse di gran parole, e io a lui. Quel messer Antonio, vergogniandosi alquanto, e ancora disegnato 9 di farmi pagare quelle spese che il povero Castellano morto mi aveva donate, trovò un altro di quei sua servitori, il quale era mio amico; e mi mandava la mia vivanda, alla quale piacevolmente il sopra ditto mi faceva la credenza sanza altra disputa. Questo servitore mi diceva come il Papa era ogni dì molestato da quel monsignior di Morluc10, il quale da parte del Re continuamente mi chiedeva; e che il Papa ci aveva poca fantasia11 a rendermi; e che il cardinale Farnese 12, già tanto mio patrone e amico, aveva aùto a dire che io non disegniassi13uscire di quella prigione di quel pezzo 14: al quale io dicevo che io n’uscirei a dispetto di tutti. Questo giovane dabbene mi pregava che io stessi cheto, e che tal cosa io non fussi sentito dire, perché molto mi nocerebbe; e che quella fidanza,15 che io avevo in Dio, dovessi aspettare la grazia sua, standomi cheto. A lui dicevo che le virtù de Dio non hanno aver paura delle malignità della ingiustizia.

 

CXXVII. Così passando pochi giorni innanzi, comparse a Roma il cardinale di Ferrara 1; il quale, andando a fare reverenzia al Papa, il Papa lo trattenne tanto che venne l’ora della cena. E perché il Papa era valentissimo uomo, volse avere assai agio a ragionare col Cardinale di quelle francioserie 2. E perché innel pasteggiare vien detto di quelle cose, che fuora di tale atto3 tal volta4 non si dirieno: per modo che, essendo quel gran re Francesco in ogni cosa sua liberalissimo, e il Cardinale, che sapeva bene il gusto del Re, ancora lui a pieno compiacque al Papa molto più di quello che il Papa non si inmaginava: di modo che il Papa era venuto in tanta letizia, sì per questo e ancora perché gli usava una volta la settimana di fare una crapula assai gagliarda, perché dappoi la gomitava 5. Quando il Cardinale vidde la buona disposizione del Papa, atta a conpiacer grazie,6mi chiese da parte del Re con grande istanzia, mostrando che il Re aveva gran desiderio di tal cosa. Allora il Papa, sentendosi appressare all’ora del suo vomito, e perché la troppa abbundanzia del vino ancora faceva l’uffizio suo, disse al Cardinale con gran risa: "Ora ora voglio che ve lo meniate a casa"; e date le ispresse commessione 7, si levò da tavola; e il Cardinale subito mandò per me, prima che il signor Pierluigi lo sapessi, perché non m’arebbe lasciato in modo alcuno uscire di prigione. Venne il mandato 8 del Papa insieme con dua gran gentiluomini del ditto cardinale di Ferrara, e alle quattro ore di notte 9 passate mi cavorno del ditto carcere e mi menorno dinanzi al Cardinale; il quale mi fece innistimabile accoglienze; e quivi bene alloggiato mi restai a godere. Messer Antonio, fratello del Castellano e in luogo suo 10, volse che io gli pagassi tutte le spese, con tutti que’ vantaggi che usano volere e’ bargelli e gente simile, né volse osservare nulla di quello che il Castellano passato aveva lasciato11che per me si facessi. Questa cosa mi costò di molte decine di scudi, e12perché il Cardinale mi disse di poi che io stessi a buona13guardia s’i’ volevo bene alla vita mia, e che se la sera lui non mi cavava di quel carcere, io non ero mai per uscire: ché di già aveva inteso dire che il Papa si condoleva molto di avermi lasciato.

 

CXXVIII. M’è di necessità tornare un passo indietro, perché innel mio capitolo s’interviene 1 tutte queste cose che io dico. Quando io stetti quei parecchi giorni in camera del Cardinale e di poi innel giardin segreto del Papa, infra gli altri mia cari amici mi venne a trovare un cassiere di messer Bindo Altoviti, il quale per nome era chiamato Bernardo Galluzzi; a il quale io avevo fidato 2 il valore di parecchi centinaia di scudi; e questo giovane innel giardin segreto del Papa mi venne a trovare e mi volse rendere ogni cosa: onde io gli dissi che non sapevo dare la roba mia né a ’mico 3 più caro né in luogo dove io avessi pensato che ella fussi più sicura; il quale amico mio pareva che si scontorcessi di non la volere 4, e io quasi che per forza gnele 5 feci serbare. Essendo l’ultima volta uscito del Castello, trovai che quel povero giovane di questo Bernardo Galluzzi detto si era rovinato6: per la qual cosa io persi la roba mia. Ancora: nel tempo che io ero in carcere, un 7 terribil sogno, mi fu fatto, modo che con un calamo,8 iscrittomi in nella9 fronte, parole di grandissima importanza; e quello che me le fece mi replicò ben tre volte che io tacessi e non le riferissi ad altri. Quando io mi svegliai, mi senti’ la fronte contaminata 10. Però11innel mio capitolo della prigione s’interviene moltissime di queste cotal cose. Ancora: mi venne detto, non sapendo quello che io mi dicevo, tutto quello che di poi intervenne al signior Pier Luigi 12, tanto chiare e tanto appunto 13, che da me medesimo ho considerato che propio uno Angel del Cielo me le dittassi. Ancora: non voglio lasciare indrieto una cosa, la maggiore che sia intervenuto a un altro uomo; qual è per iustificazione14 della divinità de Dio e dei segreti sua, quale si degniò farmene degnio: che d’allora in qua, che io tal cosa vidi, mi restò uno isplendore, cosa maravigliosa, sopra il capo mio: il quale si è evidente a ogni sorta di uomo a chi io l’ho voluto mostrare, qual15sono stati pochissimi. Questo si vede sopra l’ombra mia la mattina innel levar del sole insino a dua ore di sole, e molto meglio si vede quando l’erbetta ha addosso quella molle rugiada; ancora si vede la sera al tramontar del sole. Io me ne aveddi 16 in Francia in Parigi, perché l’aria in quella parte di là è tanto più netta dalle nebbie, che là si vedeva espressa 17 molto meglio che in Italia, perché le nebbie ci sono molto più frequente; ma non resta che a ogni modo io non la vegga; e la posso mostrare ad altri, ma non sì bene come in quella parte ditta. Voglio descrivere18 il mio capitolo fatto in prigione e in lode di detta prigione; di poi seguiterò i beni e’ mali accadutimi di tempo in tempo, e quelli ancora che mi accadranno innella vita mia.

QUESTO CAPITOLO SCRIVO A LUCA MARTINI, CHIAMANDOLO IN ESSO COME QUI SI SENTE.

Chi vuol saper quant’è il valor de Dio, e quant’un uomo a quel Ben1 si assomiglia, convien che stie ’n prigione, al parer mio.

Sie 2 carco di pensieri e di famiglia, e qualche doglia3per la sua persona, e lunge esser venuto mille miglia 4.

Or se tu vuoi poter far cosa buona, sie preso a torto, e poi istarvi assai, e non avere aiuto da persona;

ancor ti rubin quel po’ che tu hai; pericol della vita 5; e bistrattato, senza speranza di salute 6 mai.

E sforzinti gittare al disperato 7, rompere 8 il carcer, saltare il Castello 9; poi sie rimesso in più cattivo lato.10

Ascolta, Luca, or che ne viene il bello: aver rotto una gamba, esser giuntato11, la prigion molle 12 e non aver mantello.

Né mai da nissuno ti sie parlato, e ti porti il mangiar con trista nuova un soldato, spezial, villan da Prato.

Or senti ben dove la gloria pruova 13: non v’esser da seder, se non sul cesso; pur sempre desto a far qualcosa nuova.

Al servitor comandamento spresso 14 che non ti oda parlar, né dieti 15 nulla; e la porta apra un picciol picciol fesso 16.

Or quest’è dove un bel cervel trastulla 17; né 18 carta, penna, inchiostro, ferro o fuoco, e 19 pien di bei pensier fin dalla culla.

La gran pietà, che se n’è detto poco 20, ma per ogniuna inmaginane cento, ché a tutte ho riservato parte e loco.

Or, per tornar al nostro primo entento 21, e dir lode che merta la prigione, e’ non basteria del Ciel chiunche v’è drento 22.

Qua non si mette mai buone persone, se non vien 23 da ministri, o mal governo, invidie 24, isdegno o per qualche quistione.

Per dir il ver di quel ch’io ne discerno, qua si cognosce e sempre Idio si chiama, sentendo ognor le pene dello inferno.

Sie tristo un, quant’e’ può al mondo, in fama 25, e stie ’n prigione in circa a dua mal’anni 26, e’ n’esce santo e savio, e ogniun l’ama.27

Qua s’affinisce l’alma e ’l corpo e’ panni; e ogni omaccio grosso si assottiglia, e vedesi del Ciel fino agli scanni 28.

Ti vo’ contar una gran maraviglia: venendomi di scrivere un capriccio, che cose in un bisogno un uomo piglia29.

Vo per la stanza, e’ cigli e ’l capo arriccio, poi mi drizzo a un taglio della porta 30, e co’ denti un pezzuol di legnio spiccio31;

e presi un pezzo di matton per sorta 32, e rotto in polver ne ridussi un poco; poi ne feci un savor coll’acqua morta 33.

Allora allor della poesia il fuoco m’entrò nel corpo, e credo per la via ond’esce il pan34: ché non v’era altro loco.

Per tornare a mia prima fantasia, convien, chi vuol saper che cosa è ’l bene, prima che sappia35 il mal, che Dio gli dia.

D’ogn’arte la prigion sa fare e tiene: se tu volessi ben dello speziale 36, ti fa sudare il sangue per le vene.

Poi l’ha in sé un certo naturale 37, ti fa loquente 38, animoso e audace, carco di bei pensieri in bene e in male.

Buon per colui che lungo tempo iace 39 ’n una scura prigion, e po’ alfin n’esca: sa ragionar di guerra, triegua e pace.

Gli è forza che ogni cosa gli riesca: ché quella fa l’uom sì di virtù pieno, che ’l cervel non gli fa poi la moresca 40.

Tu mi potresti dir: "Quelli anni hai meno 41 E’ non è ’l ver, ché la t’insegnia un modo ch’empier te ne puo’ poi ’l petto e ’l seno.

In quanto a me, per quanto io so, la lodo; ma vorrei ben ch’e’ s’usassi una legge: chi più la merta non andassi in frodo 42.

Ogni uom, ch’è dato in cura al pover greggie 43, addottorar vorries’ in la 44 prigione, perché sapria ben poi come si reggie.

Faria le cose come le persone 45, e non s’usciria mai del seminato, né si vedria sì gran confusione.

In questo tempo ch’io ci sono stato, io ci ho veduti frati, preti e gente 46, e starci men chi più l’ha meritato.

Se tu sapessi il gran duol che si sente, se ’nanzi a te se ne va un di loro! Quasi che d’esser nato l’uom si pente.

Non vo’ dir più: son diventato d’oro, qual47 non si spende così facilmente, né se ne faria troppo buon lavoro 48.

E’m’è venuto un’altra cosa a mente, ch’io non t’ho detto, Luca, ov’io lo scrissi 49: fu in su’n un libro d’un nostro parente 50;

che in sulle margin 51 per lo lungo missi 52 questo gran duol che m’ha le membra istorte 53, e che il savor non correva 54, ti dissi;

che a far un "O" bisogniava tre volte ’ntigner lo stecco; che altro duol 55 non stimo sia nello inferno fra l’anime avolte 56.

Or poi che a torto 57 qui no sono ’l primo, di questo taccio; e torno alla prigione, dove il cervel e ’l cuor pel duol mi limo 58.

Io più la lodo che l’altre persone; e volendo far dotto un che non sa, sanza essa non si può far cose buone.

Oh fusse, come io lessi poco fa,59 un che dicessi come alla Piscina: "Piglia i tua panni, Benvenuto, e va60!"

Canteria ’l Credo e la Salveregina, il Paternostro, e poi daria la mancia a ciechi, pover, zoppi ogni mattina.

Oh quante volte m’han fatto la guancia pallida e smorta questi gigli 61, a tale ch’io non vo’ più né Firenze né Francia 62!

E se m’avien ch’io vada allo spedale, e dipinto vi sia la Nunziata 63, fuggirò, ch’io parrò uno animale.

Non dico già per lei 64, degnia e sagrata 65, né de’66 suoi gigli gloriosi e santi, che hanno il cielo e la terra inluminata;

ma perché ognior né veggo su pe’ canti 67 di quei che hanno le lor foglie a uncini, arò paur che non sien di quei tanti 68.

Oh quanti come me vanno tapini, qual nati, qual serviti69 a questa impresa 70, spirti chiari, leggiadri 71, alti e divini!

Vidi cader la mortifer’impresa dal ciel veloce, fra la gente vana, poi nella pietra nuova lampa accesa;

del Castel prima romper la campana 72, che io n’uscissi; e me l’aveva detto Colui che in cielo e in terra il vero spiana 73;

di bruno, appresso a questo, un cataletto di gigli rotti ornato; pianti e croce, e molti afflitti per dolor nel letto 74.

Viddi colei che l’alme affligge e cuoce 75, che spaventava or questo, or quel; poi disse: "Portar ne vo’ nel sen chiunche a te nuoce".

Quel Degnio76 poi nella mia fronte scrisse col calamo di Pietro 77 a me parole, e ch’io tacessi ben tre volte disse.

Vidi Colui 78 che caccia e affrena79 il sole, vestito d’esso 80 in mezzo alla sua Corte, qual occhio mortal mai veder non suole.

Cantava un passer solitario forte sopra la rocca: ond’io "Per certo" dissi, "quel mi predice vita, e a voi morte."

E le mie gran ragion cantai e scrissi, chiedendo solo a Dio perdon, soccorso, ché sentia spegnier gli occhi a morte fissi.

Non fu mai lupo, leon, tigre e orso più setoso 81 di quel, del sangue umano, né vipra 82 mai più venenoso morso;

quest’era un crudel ladro capitano 83, ’l maggior ribaldo, con certi altri tristi; ma perché ogniun nol sappia il dirò piano 84.

Se avete birri affamati mai visti,85 ch’entrino a pegniorar86 un poveretto, gittar per terra Nostredonne e Cristi 87,

il dì d’agosto vennon per dispetto a tramutarmi 88 una più trista tomba: "Novembre: ciascun sperso e maladetto 89".

Ave’90 agli orecchi una tal vera tromba, che ’l tutto mi diceva, e io a loro 91, sanza pensar, perché ’l dolor si sgombra 92.

E quando privi di speranza foro 93, mi detton, per uccidermi, un diamante pesto a mangiare, e non legato in oro.

Chiesi credenza 94 a quel villan furfante, che ’l cibo mi portava; e da me dissi: "Non fu quel già ’l nimico mio Durante 95".

Ma prima i mie’ pensieri a Dio remissi 96, pregandol perdonassi ’l mio peccato; e "Miserere" lacrimando dissi.

Del gran dolore alquanto un po’ quietato, rendendo volentieri a Dio quest’alma, contento a miglior regnio e d’altro stato,

scender dal Ciel con gloriosa palma 97 un Angel vidi; e poi con lieto volto promisse al viver mio più lunga salma 98,

dicendo a me: "Per Dio, prima fie tolto 99 ogni avversario tuo con aspra guerra 100, restando tu filice, lieto e sciolto,101

in grazia a Quel ch’è Padre in cielo e ’n terra".