Pubblici servizi e doveri

(1749-1753)

Conclusa la pace ed esauriti pertanto i compiti dell’associazione, tornai di nuovo a pensare al progetto di fondazione di un’accademia. Feci il primo passo coinvolgendovi un certo numero di amici laboriosi, gran parte dei quali proveniva dal Junto; poi scrissi e pubblicai un opuscolo intitolato Proposte concernenti l’istruzione dei giovani in Pennsylvania. Lo distribuii gratuitamente fra gli abitanti più in vista e, quando mi sembrò che le loro idee fossero state in qualche modo influenzate dalla lettura, lanciai una sottoscrizione per aprire un’accademia e dotarla di fondi; si sarebbe dovuta versare la somma in cinque quote annuali consecutive; speravo, dividendola così, di aumentare il numero dei sottoscrittori e penso proprio che sia andata in questo modo, con un ammontare finale (se non ricordo male) di non meno di cinquemila sterline.

Nell’introdurre la proposta, ne presentai la pubblicazione non come iniziativa mia ma di alcuni gentiluomini dotati di senso civico, evitando per quanto possibile, secondo la mia regola consueta, di comparire in pubblico come l’autore di qualsiasi progetto mirante al bene della collettività.

Onde mettere immediatamente in esecuzione il progetto, i sottoscrittori scelsero tra di loro ventiquattro amministratori fiduciari e incaricarono il signor Francis, allora procuratore generale, e me stesso di stendere lo Statuto dell’Accademia, che non appena pronto fu firmato, sicché venne affittata una casa, furono assunti dei maestri e la scuola apri credo nello stesso anno 1749.

Dato il rapido aumento degli scolari, la casa si rivelò presto troppo piccola e, con l’intenzione di costruire, ci mettemmo in cerca di un terreno bene esposto quando la Provvidenza ci fece imbattere in una grande casa già bella e finita, che con poche modifiche sarebbe potuta ottimamente servire al nostro scopo; si trattava della costruzione già ricordata, eretta dai seguaci del signor Whitefield, che ottenemmo nel modo seguente.

Bisogna premettere che, essendo stato questo edificio costruito con il contributo di persone appartenenti a sette diverse, si fece particolare attenzione, nel nominare gli amministratori fiduciari ai quali conferire la costruzione e il terreno, a non consentire la predominanza di nessuna setta, nel timore che ciò potesse col tempo divenire strumento per appropriarsi dell’uso esclusivo del tutto, in contrasto con l’intenzione originaria. Per questo motivo fu nominata una persona per ciascuna setta, cioè una per la Chiesa d’Inghilterra, una per i presbiteriani, una per i battisti, una per i moravi, ecc. Le vacanze derivanti da causa di morte avrebbero dovuto esser ricoperte mediante elezione tra i sottoscrittori. Accadde che il rappresentante dei moravi non piacesse ai suoi colleghi e, alla sua morte, essi decisero che non volevano nessun altro di quella setta. Si pose a quel punto il problema di come evitare di avere due persone di un’altra setta qualsiasi in conseguenza della nuova scelta.

Furono fatti parecchi nomi, tutti respinti per questa ragione. Alla fine qualcuno fece il mio, osservando che ero semplicemente un uomo onesto, non appartenente a nessuna setta, e ciò li convinse a nominarmi. L’entusiasmo dei giorni della costruzione era scemato da tempo e gli amministratori fiduciari non erano riusciti a procurarsi nuove contribuzioni per pagare il fitto del terreno e saldare altri debiti connessi al fabbricato, che erano per loro motivo di grande imbarazzo. Essendo ora membro tanto del consiglio di amministrazione della casa quanto di quello dell’accademia, mi si presentò la vantaggiosa opportunità di mediare fra entrambi e alla fine li portai a un’intesa con la quale gli amministratori della casa si obbligavano a cederla a quelli dell’accademia, mentre questi ultimi si impegnavano a onorare il debito, a tenere sempre una grande sala a disposizione dei predicatori occasionali, secondo l’intenzione originaria, e ad aprire una scuola gratuita per l’istruzione dei fanciulli poveri. L’accordo fu di conseguenza messo per iscritto e dopo il pagamento del debito gli amministratori dell’accademia entrarono in possesso dello stabile; due piani vennero ricavati dall’enorme e maestoso salone, a loro volta divisi in stanze sotto e sopra per le varie classi, e con l’acquisto di altro terreno ne risultò ben presto un edificio adatto ai nostri scopi e gli scolari vi si trasferirono. La responsabilità e i fastidi delle trattative con gli operai, dell’acquisto dei materiali e della sovrintendenza ai lavori toccarono a me e io vi feci fronte tanto più gioiosamente in quanto la cosa allora non interferiva con i miei affari personali, dal momento che l’anno precedente avevo preso come socio il signor David Hall, uomo abilissimo, laborioso e onesto, il cui carattere conoscevo a fondo essendo egli stato alle mie dipendenze per quattro anni. Egli mi allevio del peso della stamperia, pagandomi puntualmente la mia quota di profitti. La nostra società durò per diciotto anni, con successo per entrambi.

Gli amministratori fiduciari dell’accademia di lì a qualche tempo ottennero di esser riconosciuti ufficialmente dal governatore mediante statuto; i fondi aumentarono grazie alle contribuzioni provenienti dall’Inghilterra e alle concessioni di terre da parte dei Proprietari, a cui l’Assemblea ha da allora fatto aggiunte considerevoli, e in tal modo venne fondata l’attuale Università di Philadelphia. Io ne sono stato amministratore fin dall’inizio, ormai quarant’anni orsono, e ho avuto la grandissima soddisfazione di vedere numerosi giovani, che in essa erano stati educati, distinguersi per la perizia acquisita e ricoprire degnamente incarichi di pubblica utilità, dando lustro al loro paese.

Dopo essermi svincolato come ho già detto dagli affari privati, mi lusingavo che la fortuna messa da parte, sebbene modesta, fosse sufficiente ad assicurarmi per il resto della vita tempo libero per gli studi scientifici e gli svaghi e, acquistati tutti i congegni del dottor Spencer, che era venuto dall’Inghilterra per tenere delle conferenze, con grande alacrità proseguì nei miei esperimenti sull’elettricità; ma il pubblico, considerandomi ormai una persona benestante, mi tenne stretto per i suoi scopi; quasi tutti gli organi del nostro governo civile, più o meno nello stesso periodo, mi affidarono qualche compito. Il governatore mi designò quale giudice di pace; la corporazione della città mi elesse al Consiglio Comunale e immediatamente dopo mi nominò assessore; e i cittadini comuni mi elessero deputato perché li rappresentassi all’Assemblea. Quest’ultima carica mi riuscì tanto più gradita in quanto alla fine mi ero stancato di stare ad ascoltare dibattiti ai quali come segretario non potevo prendere parte e spesso così monotoni che ero indotto a svagarmi con quadrati magici o cerchi o qualsiasi altra cosa pur di evitare la noia. Fra l’altro pensavo che il diventare deputato avrebbe esteso il mio potere di fare del bene. Non voglio dare a intendere comunque che la mia ambizione non fosse lusingata da tutte queste promozioni. Lo fu sicuramente. Poiché in considerazione dei miei umili inizi si trattava per me di grandi cose, tanto più piacevoli in quanto testimonianze molteplici e spontanee della stima della cittadinanza che mai avevo brigato per ottenere.

Per un po’ esercitai l’ufficio di giudice di pace, partecipando ad alcune udienze o ascoltando cause in qualità di magistrato. Ma comprendendo che per mantenere quella carica onorevolmente era indispensabile una conoscenza del diritto consuetudinario maggiore di quanta io non avessi, a poco a poco rinunciai al mandato, adducendo a scusante l’obbligo di adempiere i doveri più importanti di legislatore nell’Assemblea. Fui riconfermato in questo incarico per dieci anni consecutivi, senza aver mai sollecitato il voto di nessun elettore o manifestato direttamente o indirettamente il desiderio di esser prescelto. Al mio passaggio sui banchi della Camera, mio figlio fu nominato suo segretario.

L’anno seguente, dovendosi stipulare un trattato con gli indiani a Carlisle, il governatore inviò alla Camera un messaggio con la richiesta di designare dei rappresentanti che, insieme ad alcuni membri del Consiglio, fungessero da delegati per il negoziato. La Camera indicò il Presidente (il signor Norris) e me stesso, e così ufficialmente investiti ci recammo a Carlisle e incontrammo gli Indiani come stabilito.

Sapevamo che questa gente è soggetta a ubriacarsi con estrema facilità e che in tale condizione diviene molto litigiosa e turbolenta; vietammo perciò severamente la vendita di alcolici e quando essi si lamentarono della restrizione promettemmo che, se si fossero mantenuti sobri per la durata delle trattative, avremmo dato loro rum in abbondanza una volta concluso l’affare. Essi presero l’impegno sulla parola e lo mantennero - non avendo altro modo di procurarsi il liquore - e le trattative si svolsero con molto ordine, concludendosi con soddisfazione reciproca. Dopo di che essi chiesero e ottennero il rum. Ciò avvenne nel pomeriggio. Erano un centinaio circa di uomini, donne e bambini, sistemati in capanne provvisorie costruite in forma di quadrato poco fuori il villaggio. La sera, sentendo che facevano un gran fracasso, noi delegati uscimmo a vedere cosa stesse succedendo. Scoprimmo che avevano acceso un gran falò al centro della spianata. Erano tutti ubriachi, uomini e donne, litigavano e si prendevano a botte. I loro corpi scuri, seminudi, intravisti nella luce fosca del falò, mentre si rincorrevano e si percuotevano con i tizzoni, con l’accompagnamento di urla terrificanti, formavano una scena quanto mai rispondente alla nostra visione immaginaria dell’Inferno. Non c'era modo di sedare il tumulto e pertanto ci ritirammo nei nostri alloggi. A mezzanotte alcuni vennero a picchiare furiosamente alla nostra porta, chiedendo dell’altro rum, ma noi non ce ne demmo per inteso.

Il mattino dopo, consci del disturbo arrecatoci con il cattivo comportamento, mandarono tre loro consiglieri anziani a presentare le scuse. L’oratore riconobbe la colpa, ma la attribuì al rum, e poi tentò di scagionare il rum dicendo: «Il Grande Spirito, creatore di tutto, ha fatto ogni cosa per un certo uso, e qualsiasi uso egli abbia assegnato a una cosa, quell’uso se ne deve sempre fare. Ora, quando fece il rum disse, ‘Che questo serva agli indiani per ubriacarsi’. E così dev’essere». E in verità, se è disegno della Provvidenza estirpare questi selvaggi per fare posto ai coltivatori della terra, sembra verosimile che il rum possa essere lo strumento prescelto. Ha già annientato tutte le tribù che un tempo abitavano le regioni costiere.

Nel 1751 il dottor Thomas Bond, mio carissimo amico, ebbe l’idea di fondare a Philadelphia un ospedale per il ricovero e la cura degli ammalati poveri, forestieri o abitanti della provincia che fossero. Un progetto molto caritatevole, che è stato attribuito a me ma in origine era suo. Nonostante lo zelo e l’energia con cui si diede da fare per procurarsi le sottoscrizioni, poiché in America si trattava di una novità della quale a tutta prima non si vedeva lo scopo, egli ebbe scarso successo.

Alla fine venne da me e mi fece il complimento di dirmi che aveva riscontrato l’impossibilità di portare a compimento un’iniziativa di utilità pubblica senza che vi fossi coinvolto io; «perché», aggiunse, «spesso quelli a cui chiedo di sottoscrivere mi domandano: ‘Avete discusso con Franklin di questo affare? e lui che ne pensa?’ E appena rispondo di non averlo fatto (perché persuaso che la cosa non rientri fra i vostri interessi), essi non sottoscrivono e mi dicono che ci penseranno sopra». Gli posi delle domande circa la natura e la probabile utilità del suo progetto e, ricevendone risposte molto soddisfacenti, non solo diedi il mio personale contributo, ma con entusiasmo mi impegnai nella raccolta delle sottoscrizioni di altri. Tuttavia, prima di procedere alla richiesta, cercai di preparare il terreno scrivendo dell’argomento sui giornali, secondo un costume per me usuale in casi del genere ma che egli aveva trascurato. Le sottoscrizioni furono quindi più abbondanti e generose, ma quando iniziarono a calare mi accorsi che sarebbero state insufficienti senza un qualche aiuto dell’Assemblea e pertanto proposi di inoltrare una petizione, cosa che fu fatta. Da principio i rappresentanti delle campagne non gradirono il progetto. Essi obiettavano che si sarebbe dimostrato utile solo per la città e che di conseguenza ai cittadini soltanto toccava di sostenerne le spese; e in più dubitavano della generale approvazione di questi ultimi. La mia asserzione in senso contrario, che il progetto aveva incontrato un favore tale da non lasciar dubbi sulla nostra capacità di raccogliere 2000 sterline in donazioni volontarie, fu considerata alla stregua di una supposizione molto stravagante e del tutto fantasiosa. Proprio su ciò architettai il mio piano; chiesi l’autorizzazione a presentare un disegno di legge per costituire in società i sottoscrittori, secondo la richiesta formulata nella petizione, e accordar loro una certa somma, autorizzazione che ottenni soprattutto in considerazione del fatto che la Camera poteva respingere il disegno se non lo gradiva, e stilai quest’ultimo in modo da presentare come condizionale la clausola più importante, cioè: “E l’autorità sopra menzionata decreta che, quando i detti sottoscrittori si saranno riuniti e avranno eletto i propri amministratori e il tesoriere, e avranno raccolto mediante contribuzione un capitale sociale del valore di 2000 sterline (il cui interesse annuo verrà devoluto al ricovero degli ammalati poveri del detto ospedale e alla fornitura gratuita del vitto, dell’assistenza, dei consigli e delle medicine), e ne avranno reso conto in modo soddisfacente al Presidente pro tempore dell’Assemblea; quest’ultimo potrà e dovrà allora prenderne legalmente atto, sottoscrivendo a norma di decreto un ordine al tesoriere provinciale per il pagamento di duemila sterline in due rate annuali a favore del tesoriere dell’ospedale suddetto, da destinarsi alla fondazione, costruzione e completamento del medesimo”.

Questa condizione fece passare il disegno di legge, in quanto i membri che si erano opposti allo stanziamento e ora pensavano di potere senza spesa alcuna acquistar credito quali persone caritatevoli, si schierarono a favore; da quel momento, nel sollecitare le sottoscrizioni della gente, mettemmo insistentemente in evidenza l’impegno condizionato della legge come ragione aggiuntiva per dare, dal momento che la donazione di ciascuno si sarebbe raddoppiata. In tal modo la clausola fu efficace in entrambe le direzioni. Come previsto le sottoscrizioni superarono in breve tempo la somma stabilità e noi richiedemmo e ottenemmo il contributo pubblico che ci consentì di mettere in atto il progetto. In men che non si dica fu costruito un edificio comodo e ben strutturato; l’istituzione giorno dopo giorno si è dimostrata utile ed è tutt’oggi fiorente. E non mi sovviene di nessun altro tra i miei stratagemmi politici il cui successo sul momento mi abbia procurato maggior piacere o per il quale, ripensandoci, io sia riuscito a giustificare più facilmente il ricorso all’astuzia.

Più o meno in questo stesso periodo, il reverendo Gilbert Tennent, ideatore di un altro progetto, venne a chiedermi di aiutarlo a raccogliere sottoscrizioni per erigere un nuovo edificio da destinare a luogo di riunione. Esso doveva servire a ospitare una congregazione che egli aveva costituito tra i presbiteriani un tempo discepoli del signor Whitefield. Non avendo desiderio alcuno di rendermi sgradito ai miei concittadini col sollecitare troppo spesso le loro contribuzioni, opposi un netto rifiuto. Al che egli mi prego di fornirgli un elenco delle persone che per mia esperienza sapevo esser generose e amanti del bene pubblico. Ritenevo sconveniente da parte mia, dopo la loro benevola accondiscendenza alle mie sollecitazioni, esporli all’essere importunati da altri questuanti e pertanto mi rifiutai anche di fornire una lista del genere. Allora egli volle che gli dessi almeno il mio consiglio. «Lo farò di buon grado», gli risposi, «e, innanzi tutto, vi consiglio di rivolgervi a tutti quelli dai quali siete certo di ricevere qualcosa; poi a quelli che non sapete se daranno qualcosa o meno, mostrando loro la lista di coloro che hanno già dato; e infine, non ignorate quelli dei quali siete sicuro che non daranno niente, poiché per alcuni di essi potreste esservi sbagliato». Egli rise e mi ringraziò, aggiungendo che avrebbe fatto tesoro del mio consiglio. Così fu, tanto che si rivolse a tutti e mise insieme una somma assai più considerevole di quella che si aspettava, con la quale costruì l’elegantissimo e spazioso edificio delle riunioni che si trova in Arch Street.

La nostra città, benché costruita con magnifica regolarità, con strade larghe, dritte e incrociantisi ad angolo retto, disgraziatamente trascurò per molto tempo di pavimentarle e quando pioveva le ruote dei carri pesanti le riducevano a un pantano, sicché era difficile attraversarle. Quando non pioveva la polvere era intollerabile. Ero vissuto vicino a quello che era chiamato il Jersey Market e avevo constatato la sofferenza degli abitanti che sguazzavano nella fanghiglia mentre facevano provviste. Una striscia di terra nel bel mezzo del mercato fu alla fine lastricata di mattoni, così che una volta giunti lì si potevano mettere i piedi sul solido, ma spesso ci si infangava fin sopra le scarpe per arrivarci. A furia di parlare e di scrivere sull’argomento, riuscì finalmente a ottenere che si pavimentasse in pietra la strada tra il mercato e il marciapiede di mattoni che correva lungo le case su entrambi i lati. Per qualche tempo ciò permise di raggiungere agevolmente il mercato con le scarpe asciutte. Ma non essendo il resto della strada lastricato, ogni volta che un carro usciva dalla mota schizzava e lasciava il fango sulla pavimentazione, la quale si ricopriva subito di una melma che nessuno rimuoveva poiché la città non aveva ancora gli spazzini.

Dopo avere per un po’ domandato in giro, trovai un pover’uomo gran lavoratore che era disposto a mantenere pulita la strada, spazzandola due volte la settimana e rimuovendo la terra dinnanzi a tutte le porte del vicinato, per la somma di sei pence al mese a testa. Scrissi allora e feci stampare un articolo in cui esponevo i vantaggi che il quartiere poteva conseguire con questa modica spesa: la maggiore facilità nel tenere le nostre case pulite, poiché la gente che vi entrava non avrebbe portato dentro così tanta sporcizia; per i negozi il beneficio dell’aumento della clientela, in quanto gli acquirenti vi potevano arrivare più a loro agio, e l’assenza di polvere depositata dal vento sulle loro merci, ecc. ecc. Mandai una copia dell’articolo a ciascun vicino e dopo un giorno o due feci un giro per vedere chi voleva sottoscrivere un contratto per la detta somma. Tutti firmarono e la cosa si fece e bene per qualche tempo. Gli abitanti della città erano contenti della pulizia della pavimentazione che circondava il mercato e, risultando ciò di utilità generale, ne nacque un desiderio diffuso di avere tutte le strade pavimentate, mentre la gente divenne più disposta ad accettare una tassa per questo scopo.

Dopo qualche tempo predisposi un disegno di legge per la pavimentazione delle strade cittadine e lo presentai all’Assemblea. Fu proprio prima che partissi per l’Inghilterra nel 1757 ed esso venne approvato quando io non c'ero già più, con una modifica circa l’accertamento dell’imposta che a mio giudizio lo peggiorava, ma con una clausola aggiuntiva che, oltre alla pavimentazione, prevedeva l’illuminazione delle strade, il che rappresentava un grosso miglioramento. La gente fu da principio favorevolmente colpita dall’idea di illuminare l’intera città grazie a un privato cittadino, il defunto signor John Clifton, il quale aveva offerto un saggio dell’utilità dei lampioni sistemandone uno davanti alla porta di casa sua. Anche l’onore di questa iniziativa di pubblica utilità è stato ascritto a me, ma in realtà esso spetta a questo gentiluomo. Io mi limitai a seguire il suo esempio e posso solo vantare qualche merito per quanto concerne la forma dei nostri lampioni, diversi da quelli a globo che all’inizio ci vennero forniti da Londra. Trovammo questi ultimi poco pratici per i motivi seguenti: non facevano entrare l’aria da sotto e perciò il fumo non fuoriusciva subito dall’alto ma circolava nel globo, ristagnava all’interno e ne offuscava in poco tempo la luce; senza contare, poi, la seccatura quotidiana di doverli ripulire e il rischio che un colpo accidentale li facesse a pezzi, rendendoli del tutto inservibili. Suggerì perciò di costruirli impiegando quattro lastre di vetro, con un lungo imbuto di sopra per il tiraggio e delle fenditure di sotto per lasciar passare l’aria allo scopo di facilitare l’ascesa del fumo. In questo modo si mantenevano puliti e non si annerivano in poche ore come quelli di Londra, ma continuavano a risplendere fino al mattino; e un colpo accidentale in genere avrebbe mandato in frantumi solo uno dei vetri, sostituibile con facilità. A volte mi sono chiesto perché i londinesi, visto l’effetto che i fori sul fondo dei lampioni di Vauxhall hanno nel tenerli puliti, non ne abbiano fatti fare di simili nei lampioni stradali. Ma dal momento che quei fori sono stati praticati con un altro scopo, vale a dire per comunicare più rapidamente la fiamma allo stoppino mediante un lucignolo pendente che fuoriesce da essi, forse nessuno ha pensato che servono anche a far entrare l’aria. E di conseguenza, a poche ore dall’accensione dei lampioni le strade di Londra sono illuminate molto malamente.

Il parlare di queste migliorie me ne fa ricordare una che proposi, trovandomi a Londra, al dottor Fothergill, uno degli uomini più ingegnosi che io abbia conosciuto, grande fautore di progetti di pubblica utilità. Avevo constatato che le strade quando erano asciutte non venivano mai spazzate per rimuovere la polvere, ma che la si lasciava accumulare finché la pioggia non la riduceva in fanghiglia; a quel punto, dopo che aveva ricoperto per alcuni giorni il selciato in quantità tale che non c'era verso di attraversare se non servendosi di passaggi mantenuti sgombri dalla povera gente con le scope, veniva rastrellata con grande fatica e caricata su carri scoperti, per cui a ogni sobbalzo sul lastricato un po’ di melma schizzava fuori e ricadeva, causando talvolta fastidio ai passanti. La ragione addotta per non spazzare le strade era che la polvere si sarebbe infilata nelle finestre dei negozi e delle case.

Un evento casuale mi aveva fatto capire quanta strada si poteva spazzare in poco tempo. Una mattina trovai alla porta di casa mia in Craven Street una povera donna che spazzava il marciapiede con una scopa di betulla. Aveva un aspetto molto pallido e debole come se fosse appena uscita da una malattia. Le domandai chi le avesse dato quell’incarico ed ella mi rispose: «Nessuno; ma sono tanto povera e in miseria che spazzo dinnanzi alle porte di lor signori nella speranza che mi diano qualcosa». Le ordinai di pulire tutta quanta la strada e che le avrei dato uno scellino. Erano in quel momento le nove e alle dodici si presentò a riscuotere. Per la lentezza con cui a tutta prima l’avevo vista lavorare, mi pareva incredibile che ogni cosa fosse stata fatta così celermente e mandai il mio servo a controllare; egli tornò dicendo che l’intera strada era stata spazzata a regola d’arte e tutta quanta la polvere era stata messa nel canale di scolo al centro. La prima pioggia la lavò via completamente, sicché il selciato e perfino il canale erano perfettamente puliti.

Calcolai allora che se quella donna debole era in grado di spazzare una strada del genere in tre ore, un uomo forte e vigoroso avrebbe potuto farlo in metà tempo. E mi sia a questo punto consentito di sottolineare la convenienza di avere in una strada così piccola un solo canale di scolo nel mezzo invece di uno su ciascun lato vicino al marciapiede. Poiché se tutta la pioggia che cade su una strada scorre dai lati verso il centro, la corrente che viene a formarsi è abbastanza forte per trascinare via tutto il fango che incontra. Quando invece essa è divisa in due canali, è spesso troppo debole per tener sgombri entrambi e non fa che rendere più fluida la fanghiglia che trova, sicché le ruote dei carri e gli zoccoli dei cavalli la fanno schizzare sul marciapiede, che perciò diventa sporco e scivoloso, quando non inzaccherano i passanti. La proposta che portai all’attenzione del bravo dottore era la seguente:

“Allo scopo di pulire in modo più efficace e mantenere tali le strade di Londra e Westminster, si propone:

“Che alle diverse guardie sia affidato il compito di far spazzare la polvere nella stagione asciutta e di far rastrellare il fango nel resto dell’anno, ognuna nelle varie strade e nei vicoli della propria ronda.

“Che esse siano rifornite di scope e altri strumenti idonei, da custodire nei rispettivi posti di guardia, a disposizione della povera gente che potranno assumere per questo lavoro.

“Che nei mesi estivi asciutti la polvere venga spazzata e raccolta in mucchi opportunamente distanziati, prima dell’ora in cui di solito si aprono le finestre e i negozi, quando gli spazzini la porteranno tutta via in carri coperti.

“Che il fango una volta rastrellato non venga lasciato ammucchiato per essere sparso di nuovo dalle ruote dei carri e dagli zoccoli dei cavalli e che gli spazzini siano forniti di carrette non montate su ruote ma su slitte, con il fondo a graticcio, ricoperto di paglia, che tratterrà il fango lasciando scolare via l’acqua, sicché quest’ultimo diverrà molto più leggero, dato che all’acqua si deve in massima parte il suo peso. Queste carrette saranno sistemate a distanze convenienti e il fango vi sarà trasportato mediante carriole in quanto esse dovranno rimanere ferme finché l’acqua non sia scolata, e solo allora i cavalli le porteranno via”.

In seguito mi vennero dei dubbi circa la fattibilità dell’ultima parte di questa proposta, a causa dell’insufficiente larghezza di alcune strade e della difficoltà di sistemare le slitte di drenaggio in modo tale da non ostruire troppo il passaggio. Ma sono tuttora dell’idea che la prima parte, nella quale si suggerisce di spazzare la polvere e portarla via prima dell’apertura dei negozi, sia agevolmente praticabile in estate, quando le giornate sono lunghe. Infatti, passeggiando lungo lo Strand e per Fleet Street alle sette del mattino, osservai che tutti i negozi erano chiusi sebbene fosse giorno fatto e il sole fosse alto già da tre ore. Gli abitanti di Londra di loro spontanea volontà preferiscono vivere molto al lume di candela e dormire quando c'è la luce del sole; e tuttavia si lamentano spesso, piuttosto assurdamente, del dazio sulle candele e del prezzo elevato del sego.

Alcuni forse penseranno che queste siano quisquilie e che non valga la pena di occuparsene o raccontarle. Se però essi considerano che, quantunque la polvere cacciata negli occhi di una sola persona o dentro un singolo negozio in una giornata di vento sia irrilevante, il gran numero di casi che si verificano in una città popolosa e il loro frequente ripresentarsi le conferiscono tuttavia peso e importanza, forse non censureranno con eccessiva severità quelli che dedicano una certa attenzione ad affari di natura in apparenza così bassa. La felicità umana non è tanto il prodotto dei grandi colpi di fortuna che capitano di rado, quanto dei piccoli guadagni quotidiani. Così, se insegnate a un povero giovane come radersi e tenere in ordine il rasoio, contribuirete alla felicità della sua vita più che se gli donaste 1000 ghinee. Il denaro forse sarà speso subito, lasciando solo il rammarico di averlo scioccamente dissipato. Nel primo caso, invece, egli eviterà il fastidio continuo di dovere star dietro al barbiere e di esser talora costretto a sopportare le sue dita sporche, il fiato puzzolente e il rasoio senza filo. Egli si farà la barba quando più gli aggraderà, godendosi il piacere quotidiano di radersi con uno strumento efficace. Con questa convinzione ho azzardato le poche pagine che precedono, sperando che esse possano offrire dei suggerimenti che un giorno o l’altro forse torneranno utili alla città che amo e nella quale per molti anni ho vissuto felicemente e forse anche a qualche altra città in America.

Essendo stato per qualche tempo alle dipendenze del direttore generale delle poste in America, in qualità di controllore incaricato di coordinare i diversi uffici ed esigere il rendiconto dai funzionari, alla sua morte, nel 1753, fui designato, unitamente al signor William Hunter, quale suo successore su mandato del direttore generale delle poste in Inghilterra. Fino ad allora l’ufficio americano non aveva corrisposto nulla a quello inglese. Il nostro compenso, pari a 600 sterline annue da dividere in due, avrebbe dovuto esser detratto dai profitti dell’ufficio. Per conseguire questo risultato erano necessari numerosi miglioramenti; inevitabilmente, nella fase iniziale alcuni si rivelarono dispendiosi, tanto che durante i primi quattro anni l’ufficio venne a trovarsi in perdita, avendo noi anticipato più di 900 sterline. Ma poco dopo esso cominciò a rivelarsi redditizio e prima che io ne venissi allontanato, per un capriccio del Governo di cui dirò più avanti, lo avevamo portato a fruttare alla Corona un introito netto pari al triplo di quello dell’ufficio postale dell’Irlanda. Dopo quel provvedimento avventato, non sono stati in grado di cavarci più un solo centesimo.

Gli affari dell’ufficio postale furono quell’anno all’origine di un mio viaggio nella Nuova Inghilterra, dove il College di Cambridge di sua iniziativa mi attribuì il titolo di Dottore in lettere. Il College di Yale nel Connecticut mi aveva già fatto un tale onore in precedenza. In tal modo, senza aver mai studiato in nessuna delle due facoltà arrivai a possederne i diplomi. Essi mi furono conferiti in considerazione delle mie scoperte e dei progressi fatti nella branca delle scienze naturali che indaga sull’elettricità.