Primo viaggio a Boston

Sir William Keith, il governatore della provincia, era allora a New Castle, e poiché il capitano Homes stava per caso in sua compagnia quando la mia lettera lo raggiunse, gli parlò di me e gliela fece vedere. Il governatore la lesse e si mostrò sorpreso nell’apprendere la mia età. Disse che davo l’impressione di essere un giovane promettente e di talento e che pertanto andavo incoraggiato. Gli stampatori di Philadelphia erano pessimi ed egli non dubitava che se io mi fossi messo in proprio avrei avuto successo; per parte sua, egli mi avrebbe procurato dei contratti governativi e mi avrebbe favorito in ogni cosa per quanto in suo potere. Appresi in seguito tutto ciò da mio cognato a Boston. Ma ne ero ancora all’oscuro quando un giorno, mentre io e Keimer eravamo intenti a lavorare insieme vicino alla finestra, vedemmo il governatore e un altro gentiluomo riccamente vestito (che risultò essere il colonnello French di New Castle) attraversare la strada puntando verso casa nostra per poi bussare alla porta.

Keimer corse immediatamente giù, convinto che si trattasse di una visita per lui. Ma il governatore chiese di me, venne di sopra e, con un garbo e un’affabilità che non mi era capitato spesso di constatare, mi fece molti complimenti, espresse il desiderio di conoscermi meglio, mi rimproverò bonariamente per non essermi presentato a lui al mio arrivo e mi invitò ad accompagnarlo alla taverna dov’era diretto con il colonnello French per assaggiare, così disse, dell’eccellente madera. Io rimasi alquanto sorpreso, mentre Keimer mi fissava inebetito. Mi recai comunque insieme al governatore e al colonnello French alla taverna all’angolo della Terza Strada e fra un sorso di madera e l’altro egli mi propose di aprir bottega per conto mio, mi prospettò le possibilità di successo, mentre sia lui che il colonnello French mi assicurarono che per ottenere i contratti di lavoro dei rispettivi governi avrei potuto contare sul loro interessamento e sul loro appoggio. Alla mia obiezione circa la disponibilità di mio padre ad aiutarmi, Sir William si offrì di darmi una lettera per lui nella quale gli avrebbe spiegato i vantaggi della cosa, dichiarandosi certo di riuscire a convincerlo. Fu così deciso che avrei preso il primo vascello utile per tornare a Boston portando con me la lettera di raccomandazione del governatore indirizzata a mio padre.

L’idea doveva nel frattempo rimanere segreta; io continuai a lavorare con Keimer come prima e il governatore ogni tanto mi mandava a chiamare perché cenassi con lui, cosa di cui mi sentivo molto onorato, e conversava con me nella maniera più affabile, familiare e amichevole che si possa immaginare. L’opportunità di un piccolo vascello diretto a Boston si presentò verso la fine di aprile dell’anno 1724. Mi congedai da Keimer col pretesto di andare a far visita ai miei amici. Il governatore mi diede una lunga lettera per mio padre nella quale diceva cose molto lusinghiere sul mio conto e raccomandava con forza il mio progetto di iniziare l’attività a Philadelphia, cosa che secondo lui avrebbe certamente fatto la mia fortuna. Uscendo dalla baia finimmo su una secca che provocò l’apertura di una falla; in mare la bufera non ci diede tregua e fummo costretti ad azionare le pompe quasi continuamente, e a turno toccò anche a me. Arrivammo comunque sani e salvi a Boston in circa due settimane. Mancavo da sette mesi e gli amici non avevano avuta nessuna mia notizia poiché mio cognato non era ancora rientrato e non aveva scritto. La mia imprevista comparsa sorprese i miei familiari; nondimeno, tutti furono molto contenti di vedermi e mi diedero il benvenuto, a eccezione di mio fratello.

Lo andai a trovare alla stamperia. Ero vestito meglio di quanto mai fossi stato quando lavoravo per lui; indossavo infatti un elegante abito nuovo e in tasca tenevo un orologio e quasi cinque sterline in monete d’argento. Egli non mi accolse con molto calore, mi squadrò da capo a piedi e si rimise a lavorare. Gli operai erano avidi di sapere dov’ero stato, che genere di paese fosse e se mi era piaciuto. Io ne intonai le lodi e parlai della vita felice che vi conducevo, esprimendo il fermo proposito di farvi ritorno; e quando uno di essi mi chiese che genere di moneta usassimo laggiù, tirai fuori una manciata di pezzi d’argento e glieli sparpagliai dinanzi, offrendo una vista ai loro occhi spettacolare poiché a Boston era corrente la cartamoneta. Poi colsi l’occasione per mostrare il mio orologio e infine (mentre mio fratello se ne stava ancora astioso e corrucciato) diedi loro una pezza da otto reali perché si comprassero da bere e me ne andai. Questa mia visita lo offese oltre misura. Infatti, quando mia madre qualche tempo dopo provò a farci riconciliare, esprimendo il desiderio di vederci di nuovo vivere in armonia e comportarci in futuro come fratelli, egli disse che lo avevo insultato di fronte ai suoi dipendenti in un modo che non avrebbe mai potuto dimenticare o perdonare. Quanto a ciò, comunque, si sbagliava.

Mio padre ricevette la lettera del governatore con evidente sorpresa, ma per un paio di giorni non vi fece quasi cenno. Al ritorno del capitano Homes gliela mostrò e gli chiese se conosceva Keith e se sapeva che tipo fosse, aggiungendo di suo che egli doveva avere scarso giudizio se pensava di far mettere in proprio un ragazzo a cui mancavano ancora tre anni alla maggiore età. Homes disse quello che poteva a favore del progetto, ma mio padre fu irremovibile circa la sua inopportunità e alla fine oppose un secco diniego. Poi scrisse una lettera cortese a Sir William ringraziandolo per la protezione che mi aveva così spontaneamente offerto, ma rifiutando per il momento di prestarmi aiuto nel metter su l’impresa poiché secondo lui ero troppo giovane perché mi si potesse affidare il governo di un’iniziativa così importante, la cui preparazione richiedeva una spesa considerevole.

Allettato dalla descrizione che gli avevo fatta del mio nuovo paese, Collins, il mio amico e compagno d’avventure, che aveva un impiego all’ufficio postale, decise di seguirmi. E mentre io rimanevo in attesa delle risoluzioni di mio padre, egli partì prima di me per il Rhode Island via terra, dopo avermi affidato l’incarico di portare a New York - dove ci saremmo ritrovati - i suoi libri, una discreta collezione di matematica e scienze naturali. Sebbene mio padre non approvasse la proposta di Sir William, gli aveva tuttavia fatto piacere che io fossi riuscito a ottenere un riconoscimento così lusinghiero da un personaggio tanto eccellente nel mio nuovo luogo di residenza e che fossi stato così laborioso e accorto da sistemarmi per benino in un tempo tanto breve. Non vedendo perciò alcuna prospettiva di riconciliazione fra me e mio fratello, egli acconsentì a che io tornassi di nuovo a Philadelphia, mi consigliò di comportarmi in modo rispettoso con la gente di laggiù, di tentare di guadagnarmi la stima di tutti e di evitare gli opuscoli satirici e i libelli, per i quali era convinto che io avessi un’inclinazione eccessiva; mi fece poi osservare che, grazie alla costante operosità e alla giudiziosa parsimonia, avrei potuto metter da parte abbastanza per avviare un’impresa per conto mio quando avessi compiuto ventuno anni. Questo fu tutto ciò che potei ottenere, se si escludono alcuni doni in segno dell’affetto suo e di mia madre quando mi imbarcai di nuovo per New York, questa volta con il loro consenso e la loro benedizione.

Poiché lo sloop faceva scalo a Newport, nel Rhode Island, andai a visitare mio fratello John che vi si era stabilito da alcuni anni dopo essersi sposato. Egli mi accolse con molta affettuosità perché mi aveva sempre voluto bene. Un suo amico, un certo Vernon, che in Pennsylvania aveva un credito di circa trentacinque sterline, volle che io riscuotessi la somma a suo nome e la custodissi in attesa di ricevere istruzioni su cosa farne. Mi diede perciò una delega per l’incasso. In seguito, questo fatto fu per me causa di un serio imbarazzo. A Newport imbarcammo dei passeggeri diretti a New York, fra i quali vi erano due giovani donne che viaggiavano insieme e una saggia e austera matrona quacchera con i suoi servitori. Io avevo mostrato una cortese sollecitudine nel renderle piccoli servigi che mi sembrarono aver suscitato in lei una certa qual benevolenza verso di me. Perciò, quando ella si avvide di una confidenza vieppiù crescente fra me e le due giovani donne, confidenza che queste ultime avevano l’aria di incoraggiare, mi trasse da parte e mi disse: «Ragazzo mio, sono preoccupata per te poiché sei senza amici e non pare che tu abbia grande esperienza del mondo o delle insidie a cui e esposta la gioventù; stanne certo, quelle sono donnacce, lo si capisce dalla loro condotta, e se non stai all’erta ti cacceranno in qualche guaio. Esse sono per te delle sconosciute e poiché il tuo bene mi sta sinceramente a cuore ti consiglio di starne lontano». Visto che sulle prime non davo l’impressione di avere di entrambe un concetto altrettanto sfavorevole, ella mi fece menzione di alcune cose che aveva notato e che a me erano sfuggite e così mi convinse che era nel giusto. La ringraziai del consiglio disinteressato che promisi di seguire. Quando arrivammo a New York, le due donne mi dissero dove abitavano e mi invitarono ad andare a trovarle ma io me ne guardai bene. E fu una saggia decisione, poiché il giorno seguente il capitano si accorse che dalla sua cabina erano spariti un cucchiaio d’argento e degli altri oggetti e, saputo che si trattava di due donne di malaffare, si procurò un’autorizzazione per perquisire il loro alloggio, trovò la refurtiva e fece condannare le due ladre. Cosicché, sebbene durante la traversata fossimo a malapena riusciti a evitare uno scoglio sommerso, pensai che l’esser scampato a quest’ultimo pericolo fosse stato per me assai più importante.

A New York trovai il mio amico Collins che mi aveva preceduto di qualche giorno. Eravamo stati intimi fin da piccoli e avevamo letto insieme gli stessi libri. Egli aveva comunque il vantaggio di disporre di più tempo per leggere e studiare e mi surclassava in matematica, per l’apprendimento della quale possedeva un talento straordinario. Quando vivevo a Boston passavo gran parte delle mie ore libere a conversare con lui; egli si dimostrava in ogni occasione persona sobria e laboriosa, per la sua cultura godeva di notevole stima presso diversi membri del clero e altri gentiluomini e sembrava promettere piuttosto bene per il futuro. Ma durante la mia assenza aveva preso il vizio di sbronzarsi d’acquavite e dalle sue stesse parole e da quanto mi dissero gli altri appresi che si era ubriacato ogni santo giorno dal suo arrivo a New York, comportandosi in modo molto stravagante. Aveva anche perso soldi al gioco, sicché fui costretto a pagargli l’alloggio e a far fronte alle sue spese sia in viaggio che a Philadelphia, cosa per me estremamente inopportuna. L’allora governatore di New York, Burnet, figlio del vescovo Burnet, sentendo dal capitano che tra i passeggeri vi era un giovane in possesso di un gran numero di libri, lo prego di condurmi da lui. Gli feci perciò visita e avrei portato Collins con me se fosse stato sobrio. Il governatore mi ricevette con grande cortesia, mi mostrò la sua ricchissima biblioteca e insieme conversammo a lungo di libri e scrittori. Era costui il secondo governatore a farmi l’onore di accorgersi di me e per un povero ragazzo quale io ero ciò fu molto gratificante.

Proseguimmo per Philadelphia. Strada facendo avevo riscosso il denaro di Vernon, senza il quale difficilmente avremmo potuto giungere a destinazione. Collins desiderava trovar lavoro come contabile, ma o dall’alito o dal comportamento dovevano aver subodorato il suo vizio perché, sebbene potesse contare su alcune raccomandazioni, nessuna delle sue richieste ebbe successo ed egli continuò a gravare su di me per il vitto e l’alloggio. Sapendo che avevo il denaro di Vernon, seguitava a chiedermi prestiti, promettendo sempre di restituirmi i soldi non appena fosse riuscito a guadagnare. Alla fine ne aveva avuti tanti che fui preso dall’angoscia al pensiero di cosa avrei fatto nel caso l’invio del denaro mi fosse stato richiesto. Egli persisteva nel bere e talvolta per questo litigavamo, poiché quando era un po’ alticcio diveniva molto irritabile. Una volta che eravamo in barca sul Delaware insieme ad altri giovani, rifiutò di remare quando fu il suo turno:

«Remerete voi per me fino a casa», disse. «Non remeremo per te», risposi io. «Lo dovrete fare», egli replicò, «o resterete sul fiume tutta la notte; decidete come più vi piace». Gli amici si misero in mezzo: «Remeremo noi, non fa niente»; ma io che m’ero già guastato con lui per altri motivi, mi ostinai nel diniego. Al che egli giurò che mi avrebbe fatto remare o mi avrebbe gettato in acqua e venne verso di me saltando sui sedili; quando mi raggiunse e mi si avventò contro, lo agguantai sotto il cavallo e sollevandolo lo scaraventai a testa in giù nel fiume. Sapevo che era un buon nuotatore e pertanto non mi diedi troppa pena per lui; ma prima che egli potesse riemergere e afferrarsi alla barca, con un paio di colpi di remo noi ci eravamo messi fuori dalla sua portata. E ogni volta che tornava ad avvicinarsi, gli domandavamo se voleva remare dando pochi colpi ancora per tenerci a distanza. Stava quasi per crepare dalla rabbia, ma testardamente non si dichiarava disposto a remare; tuttavia, vedendolo alfine soccombere alla stanchezza, lo issammo a bordo e a sera già inoltrata lo riportammo a casa zuppo fino al midollo. Da quel momento non ci parlammo più; un bel giorno, un capitano delle Indie occidentali, che aveva avuto l’incarico di procurare un tutore per i figli di un gentiluomo delle Barbados, incontratolo per caso acconsentì a portarlo con sé. Egli si separò allora da me promettendo di inviarmi il primo denaro guadagnato per estinguere il suo debito. Ma da allora non ne ho saputo più nulla.

L’avere usato il denaro di Vernon fu uno dei primi grossi errata della mia vita. E il fatto dimostrò che mio padre non aveva poi tanto torto quando mi riteneva troppo giovane per assumere la responsabilità di affari importanti. Ma Sir William, dopo aver letto la sua lettera, dichiarò che era uomo troppo prudente. C'erano persone e persone e non in tutti i casi il discernimento andava di pari passo con gli anni, né i giovani ne erano sempre necessariamente privi. «E dal momento che egli non ti aiuterà a metterti in proprio», continuò, «lo farò io. Preparami un inventario delle cose che è necessario fare arrivare dall’Inghilterra e io me le farò mandare. Mi ripagherai quando potrai. Sono fermamente deciso ad avere qui un bravo stampatore e potrei giurare sulle tue possibilità di successo». L’affermazione fu fatta con una spontaneità tale da non lasciarmi il minimo dubbio circa la schiettezza di ciò che egli diceva. Fino ad allora a Philadelphia avevo tenuto segreto il mio proposito di aprire una stamperia e non mutai perciò atteggiamento. Se si fosse risaputo che contavo sull’appoggio del governatore, probabilmente qualche amico che lo conosceva meglio mi avrebbe consigliato di non fidarmi di lui, poiché, come mi fu spiegato in seguito, era notoriamente liberale nel fare promesse che non aveva nessuna intenzione di mantenere. Tuttavia, visto che io non l’avevo in alcun modo sollecitato, come potevo pensare che le sue generose offerte non fossero sincere? Io lo credevo una delle persone migliori al mondo.

Gli presentai l’inventario di una piccola stamperia, per una spesa che secondo i miei calcoli ammontava a circa cento sterline. Egli lo trovò di suo gradimento, ma mi chiese se non sarebbe stato possibile trarre un qualche beneficio dalla mia presenza in Inghilterra per scegliere i caratteri e controllare che tutto fosse di buona qualità.

«Inoltre», disse, «laggiù potrai farti delle conoscenze e stabilire contatti con i commercianti di libri e articoli di cancelleria». Io riconobbi che la cosa poteva esser vantaggiosa. «Allora», egli aggiunse, «preparati a partire con l’Annis», a quel tempo l’unica nave che una volta l’anno effettuasse la traversata fra Londra e Philadelphia. Tuttavia, alla partenza mancavano ancora alcuni mesi e pertanto io restai a lavorare da Keimer, inquieto per il denaro che Collins aveva avuto da me e con l’ansia quotidiana che Vernon si facesse vivo, cosa che comunque non accadde se non dopo un paio d’anni.

Credo di aver tralasciato di dire che durante il mio primo viaggio da Boston a Philadelphia fummo sorpresi dalla bonaccia al largo di Block Island, dove la ciurma si mise a pescare merluzzi tirandone su una grossa quantità. Fino a quel momento mi ero mantenuto fedele al proposito di non consumare cibo di origine animale e in questa circostanza, sulla scorta del mio maestro Tryon, considerai la cattura di ogni pesce come una sorta di delitto immotivato, poiché nessuno di essi ci aveva arrecato o avrebbe mai potuto arrecarci un danno tale da giustificare la strage. Tutto ciò sembrava più che ragionevole. Ma in passato il pesce mi era piaciuto moltissimo e quello che ora usciva caldo caldo dalla padella aveva un profumino delizioso. Per un po’ esitai tra i principi e il desiderio, finché non mi sovvenne che quando i pesci erano stati sventrati avevo visto tirar fuori dal loro stomaco altri pesci più piccoli. «Allora», pensai, «se vi divorate fra di voi non vedo perché non possa mangiarvi io». Feci così una gustosissima cena a base di merluzzo e ho continuato a mangiarne in compagnia di altre persone, solo di tanto in tanto e in occasioni particolari tornando a una dieta vegetariana. L’essere creature ragionevoli è davvero un bel vantaggio, visto che ci mette in condizione di trovare o farci una ragione per qualsiasi cosa si abbia in mente di fare.