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Quello stesso pomeriggio, a Wimbledon, Ilie Năstase fa il suo ingresso sul Center Court dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club. È il tempio degli sciamani, religioso e magico, intriso di tradizioni immarcescibili e di credenze irragionevoli. Qualche minuto prima, nello spogliatoio, davanti allo specchio, mentre il suo più giovane avversario è già sulla porta, Năstase si è pettinato con cura i capelli che porta lunghi sulla fronte e sulle spalle, ora li ravvia ancora una volta, si aggiusta il colletto della maglietta Adidas disciplinatamente infilata dentro i pantaloncini. Sono gesti con i quali il rumeno tenta di mascherare la tensione. Lo zingaro, lo sporco e cattivo «Nasty», il più anarchico, irriverente, disgustoso, divertente e libero campione del circuito è stato numero uno del mondo, bacia benissimo la mano alle signore e non sopporta più il suo antico pigmalione e socio in affari, nonché compagno di doppio, Ion Ţiriac, colpevole di ricordargli troppo spesso quanto poco abbia vinto in proporzione al suo sconfinato talento: «Sei il giocatore più grande con i peggiori risultati».

Ilie è inseguito da stuoli di donne bellissime – si racconterà che ne ha avute più di mille – e dallo show di sé stesso. Ha inventato il music-hall, scriverà Gianni Clerici di lui. Nessuno lo ha mai capito. «Per le persone intelligenti è facile essere intelligenti, allora provate a immaginare com’è facile per me, un balordo, essere balordo».

È già stato qui quattro anni fa, anche allora di sabato, contro l’americano Stan Smith, un’altra finale da predestinato gettata sciaguratamente alle ortiche dopo un comico, disperato litigio con le racchette che a suo dire un accordatore maledetto aveva preparato con una tensione sbagliata. Panatta gli prestò una delle sue, non servì a guarirlo. Smith vinse al quinto set: 4-6 6-3 6-3 4-6 7-5. Oggi per la stampa specializzata è di nuovo il favorito, in finale è approdato senza concedere neanche un set agli avversari. Eppure ha paura. Tra due settimane compirà trent’anni, sa che non avrà una terza chance. Entrando in campo alza lo sguardo alle tribune e pensa: «Vogliono vedermi vincere, pensano che posso solo vincere. Ma dall’altra parte ci sarà un muro e quando giochi contro un muro alla fine è il muro a vincere».

Il muro cammina pochi passi dietro di lui. È biondo e bellissimo, la Svezia delira per lui e per gli Abba. Björn Borg indossa il completo Fila destinato a diventare un’icona dell’abbigliamento sportivo. Una massa di capelli trattenuti da una fascia, un filo di pietre e legno al collo, attraversa il sottopassaggio con il suo incedere da orsacchiotto di peluche troppo cresciuto, un po’ ingobbito, lo sguardo fisso al suolo. Sembra un turista di passaggio o un intruso sceso dagli spalti dopo aver beffato il cordone di sicurezza; eppure è proprio qui che immaginava di arrivare quando a otto anni prese in mano per la prima volta una racchetta e finse di giocare il match point a Wimbledon. Ha vent’anni e ventisette giorni, è l’idolo delle teenager e fidanzato con la collega, guarda caso rumena, Mariana Simionescu, che sposerà nel 1980. Anche lui nelle due settimane del torneo non ha ceduto un set. In semifinale ha superato «Bum Bum» Tanner, l’americano con la permanente che serve a duecento chilometri l’ora, poi si è ritrovato a ringraziare Dio e il suo allenatore e padre putativo Lennart Bergelin che lo ha costretto a trasferirsi a Londra quindici giorni prima dell’inizio dei campionati e che con allenamenti metodici e durissimi gli ha modificato la battuta rendendola più profonda e angolata. Un servizio adattato all’erba, insomma. Guarda la schiena di Năstase e pensa a quanto è difficile giocare contro Ilie, finora il rumeno lo ha quasi sempre battuto. Lo infastidisce stare lì ad aspettare che finisca di dire cazzate al pubblico, al giudice di sedia e persino all’avversario. Non si capisce mai che cosa ha intenzione di fare, forse non lo sa neppure lui. Sa che può attenderlo ogni genere di colpo, ognuno con un effetto diverso.

Solo quando raggiungono le loro sedie, appena sotto quella dell’arbitro, e sistemano le racchette – ne hanno cinque ciascuno – Borg si accorge che Năstase non gli ha ancora rivolto la parola, percepisce allora che il campione rumeno è nervoso e gli torna in mente la frase pronunciata quella stessa mattina in albergo da Bergelin, in pratica un vaticinio, non una sicumera: «Vai ragazzo, ce la farai e sarai il primo svedese della storia che alzerà da vincitore il trofeo di Wimbledon».

Anche gli altri due ragazzi si sono accomodati sulle sedie, le poltrone e il divano sono troppo distanti dal televisore e non possono rischiare di perdere qualche dettaglio del match per il quale sono lì. La tv è stata issata su un mobile dozzinale finto Ottocento che sembra un trono, la moquette è verde come lo era il centrale di Wimbledon fino al termine della prima settimana. Sono impettiti e rigidi come sentinelle, tesi più dell’artista per cui fanno il tifo. Ilie per loro è un mito, piccoli balordi zingari da cortile.

La fine è nota. Nella prima partita Năstase si porta avanti 3-0 e sul servizio dello svedese ha una palla break che se realizzata lo porterebbe sul 4-0. Fino a quel momento ha quasi ridicolizzato Borg, al cambio di campo ha sorseggiato tè freddo da un thermos e fatto ridere il pubblico, affettuosamente dalla sua parte, deviando una pallina con un colpo di testa. Ma Ilie fallisce quel punto e sfuma con esso la sua ultima occasione nel tempio inglese del tennis. Il ragazzo biondo venuto dal Nord incamera il match con il punteggio di 6-4 6-2 9-7.

Con il suo primo trionfo a Wimbledon si compie così la rivoluzione di Björn Borg, la rivolta del topspin che mette fine all’ancien régime dei gesti bianchi. La lama della ghigliottina è un dritto dal quale esplodono passanti assassini. Il colpo è effettuato dal basso in alto con una impugnatura chiusa da manovale che scandalizza gli esteti della disciplina. Il suo rovescio bimane, mutuato addirittura dall’hockey su ghiaccio, calibra passanti lungolinea dalle traiettorie che nessuno aveva mai osato prima.

Il tennis lascia il cielo ardente dell’empireo riservato agli angeli, diventa uno sport laico ed entra nella modernità. Nulla sarà più come prima. È la riforma cartesiana di un ateo – Gianni Brera lo paragonerà a un contadino con la roncola sistemandolo così alle radici della terra – la cui faccia assomiglia a quella di Gesù. «Dovrebbero spedire Borg su un altro pianeta» dice Năstase. «Noi giochiamo a tennis, lui gioca a qualcos’altro».

Guido e Mauro, paralizzati e muti sulle loro sedie, hanno le lacrime agli occhi. Per molto tempo non torneranno in cortile con le racchette, la pioggia poco alla volta cancellerà le righe di gesso e con esse un’estate speciale.

A Wimbledon quell’anno Panatta batte il venezuelano Jorge Andrew, poi l’australiano Dale Collings, prima di arrendersi allo statunitense Charlie Pasarell nonostante si fosse portato in vantaggio di due set. Tonino Zugarelli abbandona la scena al primo turno infrangendosi contro lo scoglio di furbizia e cattiveria di Jimmy Connors. Jaime Fillol viene eliminato dal neozelandese Onny Parun dopo le vittorie contro l’olandese Rolf Thung e l’australiano Ross Case. Patricio Cornejo è rispedito in Cile da Stan Smith.

Nel corso della finale, durante i due minuti di riposo concessi dal regolamento ai giocatori a ogni cambio di campo, Borg ricorre frequentemente a uno spray al cortisone nel tentativo di lenire un dolore addominale causato da un fastidioso strappo muscolare che fatica a rimarginarsi.

Un mal di pancia che gli consentirà di declinare la convocazione per l’incontro di Davis con l’Italia, in programma dal 16 al 18 luglio. A Roma ci verrà da turista. La Svezia è la detentrice della Coppa, l’ha vinta l’anno prima a Stoccolma sulla Cecoslovacchia.

Il forfait di Borg spiana la strada agli azzurri. Non ci sarà match. A Londra il destino ha scritto dunque la sua prima pagina.