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Carissimo don Pablo,

Faccio l’impiegato in una banca di Santiago e guadagno abbastanza bene. Le scrivo per togliermi un peso enorme dalla coscienza, sono quasi vent’anni che me lo porto dentro. Era il 21 novembre del 1973. Allo stadio Nacional era in programma la partita di calcio Cile-Urss, spareggio per andare ai Mondiali in Germania Ovest l’anno successivo. Io ero il capitano del Cile. All’andata avevamo pareggiato 0-0, un buon risultato: contavamo di vincere il ritorno con l’aiuto del nostro pubblico.

I giorni precedenti furono un inferno: la nazionale sovietica comunicò che non intendeva venire a giocare a Santiago per protesta contro il golpe fascista del generale Pinochet. I nostri dirigenti ci obbligarono a scendere in campo ugualmente: il Cile, l’arbitro austriaco e nessun avversario. L’ordine era semplice: al fischio d’avvio, avremmo dovuto inscenare un’azione e fare un gol. Subito dopo l’arbitro avrebbe decretato la fine di una partita mai disputata, il Cile avrebbe vinto e si sarebbe qualificato per i Mondiali.

Negli spogliatoi, pochi istanti prima di andare in campo, mi si avvicinò il presidente della federazione cilena e mi disse: «Francisco, il gol devi segnarlo tu». Mi sentii crollare il mondo addosso, schiacciato da una responsabilità che non avrei mai voluto sopportare. Ma non ebbi la forza di rifiutare. Stavo diventando il personaggio chiave di una farsa che avrebbe fatto il giro del mondo, stavo diventando un simbolo politico. Sì, perché quella partita era soprattutto politica: il regime di Pinochet voleva dimostrare la propria forza all’opinione pubblica democratica che condannava la sua violenza.

Mi interessavo di politica, a quel tempo. Ma in silenzio, non si poteva alzare la voce di fronte ai mitra dei soldati. O meglio, io non ne avevo il coraggio. Mio padre Eduardo aveva fatto l’operaio per tutta la vita e si era rovinato a forza di lavorare. Mi diceva sempre: «Chamaco, voi giovani dovete cercare di cambiare questo sporco sistema, io lavoro come un pazzo e il padrone si arricchisce. Non è giusto». Compresi con il passare degli anni il significato di quelle parole, quando già andavo al liceo e studiavo e leggevo e imparavo a conoscere come girano le cose. Mio padre aveva voluto a tutti i costi che non abbandonassi la scuola, anche se in casa ci sarebbe stato bisogno di uno stipendio in più.

Quel giorno mi allacciai gli scarpini con una lentezza insolita, volevo rallentare il tempo, volevo che il momento di quel gol non arrivasse mai. Venne l’arbitro negli spogliatoi, ricordo che fece l’appello, nome per nome, numero per numero, poi uscimmo sul campo. C’era una folla incredibile, bandiere che sventolavano, gente che urlava. Pensavo: ma cosa avranno da gridare? Stiamo vivendo con i militari agli angoli delle strade, con i carri armati che circolano sui viali di Santiago come se fossero padroni della città, spariscono persone e non si ritrovano più, ci sono donne che vanno alla polizia per cercare i loro mariti e i loro figli: che ci sarà mai da urlare di gioia? Poi capii: quella partita e quella qualificazione ai Mondiali era in fondo un modo per dimenticare la tristezza. E quel pensiero mi fece coraggio.

L’arbitro fischiò l’inizio della partita e io corsi verso la porta. Non ricordo chi mi passò il pallone, segnai senza accorgermene e fuggii subito negli spogliatoi, tra il frastuono delle trombe e il canto dei tifosi. Vomitai. Venne l’allenatore Luis Álamos e mi chiese se stavo bene. Dovevo tornare in campo perché la federazione cilena aveva organizzato un’amichevole contro il Santos. Non ce la faccio, risposi. Álamos, che mi conosceva da molto tempo, non fece altre domande. Tornai a casa e mi misi a letto. Ero sconvolto. Non lessi i giornali per tre giorni. Rimasi sempre in casa a pensare: al gol, al pubblico che esultava, a quello stadio che avevano sgomberato poche ore prima dai prigionieri politici che il regime chiamava sovversivi. Molti erano ragazzi come me, la cui unica colpa era quella di avere dichiarato le proprie idee. Io, invece, ero un vigliacco, uno che non aveva saputo dire no, andando contro i princìpi secondo i quali era cresciuto. Capii quanto sia facile parlare di libertà e quanto sia complicato realizzarla.

Si chiederà, don Pablo: Perché scrive proprio a me? Che cosa c’entro io con tutta questa storia? Le ho detto prima che questa lettera è un modo per liberarmi la coscienza da un peso insopportabile. Quando lei morì, il 23 settembre 1973, mentre Santiago viveva il momento più tragico della sua storia, io mi sentii perso, smarrito, senza guida. Ricordo che presi un libro dalla mia modesta biblioteca e cominciai a leggere una sua poesia e la ripetei all’infinito, per ore e ore, finché non divenne una parte di me.

Il giorno successivo c’ero anch’io ai suoi funerali. Eravamo in trecento, suonarono l’Internazionale e vidi la sua casa di via Márquez de la Plata completamente distrutta dalla crudeltà dei soldati che volevano sotterrare per sempre la sua esistenza. Stavo nascosto in mezzo alla folla. Qualcuno urlò il suo nome e un’altra voce rispose forte: «Presente». E poi ancora. E ancora. E un altro gridò: «Compagno Salvador Allende». Quel nome gelò la folla. Era la prima volta che veniva pronunciato in pubblico da quando i militari di Pinochet lo avevano ammazzato pochi giorni prima. Io tremavo e avevo paura, tanta paura. Ma restai lì dov’ero, un po’ coperto, un po’ nascosto. Quando tornai a casa piansi, pensai a mio padre e mi rimproverai per non avere avuto il coraggio di gridare anch’io «presente». Non ce l’avevo fatta, come non ce la feci quel giorno nello stadio di Santiago.

Ecco perché le scrivo oggi, don Pablo Neruda. Oggi, 12 dicembre 1992, giorno in cui la sua salma finalmente è ritornata a Isla Negra dopo gli anni d’esilio in un cimitero anonimo. Segnare quel gol è stato un tradimento che non mi sono mai perdonato. Le lascio questa lettera davanti alla porta.

Con affetto e devozione,

Francisco Valdés