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«A Santiago del Cile eravamo in cinque. Ognuno di noi racconterà una storia diversa. Questa è la mia».
Nicola Pietrangeli ha scelto il bollito misto, uno dei suoi piatti preferiti, l’accompagna con senape e maionese. Chi passa accanto al suo tavolo gli rende omaggio come si farebbe con un principe in età reverendissima. Gli domandano come sta, quale sarà il suo prossimo impegno con la federazione, quanto sarebbero felici di averlo ospite a quell’evento di beneficenza organizzato per il fine settimana. Lui articola educatamente qualcosa in risposta, ma nobilmente distratto, con la morbida distanza di chi ha vissuto lunghe vite. Si dovrebbe scrivere un gentiluomo, se il termine avesse ancora un significato nella realtà.
A Gianni Clerici ha detto: «Nasco a Tunisi da madre russa e padre italiano. Non l’ho mai detto a nessuno ma avrei potuto farmi chiamare conte. I miei nonni russi erano nobili e poiché mia madre non aveva fratelli maschi trasmise il suo titolo a me. Il mio nonno paterno era tedesco e aveva la moglie svedese. Sono un bel bastardo. Durante la guerra i francesi ci cacciarono da Tunisi. Quando arrivai a Roma avevo tredici anni e diventai molto popolare a piazza di Spagna. Ero Er Francia. Non capivo una parola di italiano, solo russo e francese. Poi il russo l’ho dimenticato per imparare male l’italiano. Papà diventò rappresentante di Lacoste, in un anno riuscì a vendere 280.000 magliette, ognuna costava 2800 lire. Gli dissi di aggiungere cento lire in più per me, ma lui mi rispose di no. Ho fatto i calcoli, mi sarei comprato quattro appartamenti».
Prima di cominciare a vendere Lacoste il padre esumava cadaveri. Giunto a Roma senza un lavoro si presentò all’ambasciata di Francia e chiese aiuto. Torni domani, gli risposero. Il giorno dopo si imbatté in Bob Abdesselam, tennista di buon livello e ufficiale dell’esercito francese. Fu lui a trovargli un’occupazione.
Il ricordo è stato raccolto da Lea Pericoli nel libro C’era una volta il tennis: «In quel periodo l’ambasciata era alla ricerca dei soldati francesi morti durante la guerra in Italia. Il governo mandava delle circolari ai Comuni con la richiesta di segnalare le tombe dei soldati dispersi. In seguito alle indicazioni pervenute, mio padre partiva con camion e operai per recuperare i cadaveri e seppellirli nel piccolo cimitero di Venafro. Finito il lavoro al Sud cominciò a raccogliere i morti al Nord. Vicino a Treviso esiste un bellissimo monumento eretto dopo la Prima guerra mondiale che raccoglie le spoglie dei soldati francesi. Il cimitero è quello di Pederobba. Papà andava a disseppellire i morti nelle regioni del Nord e li sistemava in questo angolo di terra. Fu sempre lui a ristrutturare il cimitero francese di Monte Mario a Roma. Facendo il becchino ricominciò a vivere».
Nicola è un bambino paffuto e curioso. Ogni tanto accompagna il padre a scavare tombe, si gira di schiena solo all’ultimo atto, quando gli spalatori scoprono il volto della salma, ciò che di esso è rimasto. Impara ben presto a riconoscere il potere della morte e non è un bello spettacolo, comincia allora il suo carnale amore per la vita. Più tardi fa suo il motto di Aristotele Onassis: L’importante non è essere ricchi ma vivere come se lo fossimo. Ha dilapidato molto nell’osservanza del precetto: denaro, vincite al lotto, imprese sportive e imprenditoriali, amori e malattie. Ora osserva il Tevere limaccioso con lo sguardo ancora pieno di luce e di ottimismo.
Ha giocato 164 partite in Coppa Davis, ha vinto gli Internazionali di Francia nel 1959 e nel 1960, Roma nel 1957 e nel 1961, tre volte Montecarlo, nel 1964, 1967 e 1968. Nel 1960 è stato semifinalista a Wimbledon, dove cedette di fronte a Rod Laver solo al quinto set. Era dotato di un rovescio slice inimitabile e assassino. Gli altri campioni dicevano di lui: Se dopo anni di inattività ci ritrovassimo tutti su di un’isola deserta Nicola ci batterebbe uno a uno.
«Facevo tutto con l’impugnatura del dritto, nemmeno sapevo che cosa volesse dire back. Sono stato dieci volte più forte di Panatta, ho il mio posto nella Hall of Fame e al Foro Italico c’è un campo con il mio nome. Me lo hanno intitolato da vivo, una rarità. Eppure quand’ero giovane non è che avessi tutta questa voglia di giocare a tennis. Il mio desiderio più grande era poter viaggiare. Capitò però che feci il mio primo viaggio proprio grazie al tennis: da Roma a Napoli con la squadra juniores del Parioli. Se sono riuscito ad arrivare fin qui, pensai, magari la prossima volta riesco a vedere Milano. La verità è che mi sarebbe piaciuto fare l’esploratore. Mi immaginavo bellissimo e fiero dentro giubbotti a mezza coscia infarciti di tasche, i pantaloni con lo sbuffo, gli stivali di cuoio, sulla testa il caschetto con la reticella, un revolver appeso al cinturone e magari un elefante sul quale montare e girar l’Africa».
Si versa un bicchiere di vino rosso. Toscano. Il suono del cellulare lo fa sobbalzare. Si scusa con una smorfia, deve rispondere. Rivolge all’interlocutore parole dolci, tranquillizzanti, con un filo d’ironia per alleviare il peso di un compleanno gravoso. Copre il telefono con la mano sinistra. «È Lea. Lea Pericoli» mormora con pudore. I due si appoggiano l’uno all’altra per età, affetto, memorie e glorie. Condividono la sorte degli amori che non tramontano in fondo mai, amori che si accompagnano dandosi il braccio lungo la strada in discesa che resta loro davanti.
Più tardi chiamo Lea Pericoli per cercare di capire proprio l’unicità di quest’amore. «Lui era un bel ragazzo, io non ero male. Nel nostro lungo girovagare assieme abbiamo avuto migliaia di occasioni per finire a letto, lei nemmeno se lo immagina. Non è mai accaduto. Io avevo sempre un altro, lui di altre ne aveva sempre almeno due. Con lui ho gioito, ho pianto, entrambi abbiamo affrontato un tumore. Con Nicola sono stata anche a Santiago, sapevo che perdere quella Davis lo avrebbe sfregiato. Ero la sua reginetta, lui è stato meglio di un amico, molto di più di un marito».
Ci vuole talento, dico dopo a Pietrangeli.
Lui ride.
«Ah, il talento… Tra quelli che ho conosciuto chi ne aveva di più fu senza dubbio Lew Hoad. Su una partita secca era meglio di chiunque, anche di Laver. La sua stretta di mano ti frantumava. Io avevo una predisposizione naturale per tutti i giochi nei quali era contemplata la presenza di una sfera. Il calcio, il golf, la pallavolo. Ho giocato a pallacanestro in quarta serie senza conoscerne le regole. Nel tennis ho avuto un maestro che si chiamava muro. Mio padre era il numero due della Tunisia, corrispondeva a un forte quarta categoria in Italia. Appena arrivati a Roma siamo andati ad abitare dai miei nonni materni, quelli russi. Sotto casa c’era un campo da tennis. Mi ero portato lì una racchetta che aveva un manico enorme, non riuscivo neppure a stringerla in mano, trascorrevo interi pomeriggi a ribattere una pallina contro quel muro. Ma la felicità mi saltava addosso quando stavo da un’altra parte. Me la sentivo dentro ogni fibra del corpo quando giocavo a calcio in strada, il pallone aveva il cuoio ma non la camera d’aria, lo riempivamo di carta di giornali, non rimbalzava, era come prendere a calci un gatto morto. Giocavo con le scarpe di mio padre, erano scarpini da rugby con la punta quadrata, numero 45. Io portavo il 39, ci entravo dentro tenendo su le scarpe normali. Mi presento in campo così, ci danno un rigore e chi lo tira il rigore? L’unico che ha le scarpe da pallone, io. L’ho preso di punta e ho ammazzato due piccioni per aria. Poi sono finito nei ragazzi della Lazio, ero una mezza promessa, mi diedero in prestito in serie C alla Viterbese o alla Ternana, nemmeno ricordo più. Non ho fatto il salto di qualità.
«Mi arrangiavo, non c’erano soldi nel calcio, non ce n’erano nel tennis. Non guadagnavo nulla, tutte le pensioni in cui alloggiavo durante i primi tornei si chiamavano Miramare. Passati di verdura e spaghetti al pomodoro, scaloppine sottili come carta velina. Io avevo voglia e fretta, credo di essere stato intelligente e fortunato. Il passaggio da sconosciuto a quasi famoso è stato rapido, allora i tennisti europei diventavano bravi non prima dei venticinque, ventisei anni. Posso dire di essere stato un giocatore dalla fame precoce. In un ambiente molto ipocrita e diviso solo formalmente tra professionisti e dilettanti a un certo punto hanno cominciato a passarmi qualcosa sottobanco. Con quei soldi mi sono potuto comprare da solo le prime Lacoste».
Il peccato della superbia si può trasformare in virtù se si ha la modestia di praticarlo in solitudine. È il contrario dell’ostinazione, ci può consentire di comprendere quando arriva il momento in cui dobbiamo rassegnarci a perdere per sempre quello che abbiamo già perduto.
Fino a due anni fa giocava ancora, qui al Circolo Canottieri Roma da dove scortato dai carabinieri partì per la trasferta di Santiago, dieci euro in palio per ogni set, ma un giorno gli occhi non sono stati più gli stessi. Hanno perso la percezione esatta dei contorni del mondo, gli oggetti in movimento parevano scegliere traiettorie beffarde, sparivano all’improvviso, tradivano distanze e profondità. Che ti succede Nicola? Un campione non sopporta di steccare la palla. Game over. Bisogna capire quand’è il momento di spegnere la luce, altrimenti non ci si abitua al buio che avanza, diventiamo ciechi e assieme patetici.
«A trentatré anni mi sentivo una forza della natura, a trentotto ero ancora campione italiano e a quaranta un giocatore dignitoso, ma cominciavo a perdere qualche partita. Mi seccava, e tanto. Ricordo un tour estivo, a Riccione Năstase mi batte in semifinale. Andiamo a Viareggio e gli organizzatori mi dicono: Nicola, se non vai in finale tu, qui non ci viene nessuno. In semifinale mi ritocca ancora una volta Năstase, allora parlo con Ilie alla vigilia dell’incontro, gli dico vediamo un po’ se possiamo fare qualcosa e ci mettiamo d’accordo, gli do trentamila lire, che era l’equivalente del primo premio, e in finale ci vado io. In quell’occasione ho cominciato a riflettere sull’opportunità di lasciare, ma non ho detto niente a nessuno. Non è in campo che ho deciso di smettere, di fronte alla fatica, al ritardo di un riflesso, al rallentamento delle gambe. L’ho deciso fuori. Dopo due sconfitte subite contro Panatta».
L’ha già affrontato quando Panatta è soltanto il miglior italiano juniores. Adriano va in vantaggio 4-1, dopo averlo irriso con un numero oltraggioso di smorzate. Ad un cambio di campo lo avverte: Oh ragazzi’, io so’ Pietrangeli, le palle corte le ho inventate io. Quella volta vince 7-5 6-2.
«Al termine della partita Adriano viene a trovarmi negli spogliatoi e dandomi del lei mi dice: La saluta tanto papà. Perché?, gli faccio io. È Ascenzio. Oddio, ma tu sei Ascenzietto. Però questa la racconto più avanti. Alla fine facevo lunghe passeggiate solitarie. Mi dibattevo nelle mie paure del futuro, mi domandavo se la presunzione e l’orgoglio sarebbero stati sufficienti a farmi sopravvivere evitando il rischio di scivolare nella depressione. Sono sempre stato pigro, mi costava fatica giocare, figuriamoci l’idea di annunciare il ritiro, ma credo di essere stato intelligente quando ho accettato di archiviare una parte della mia vita per cominciarne un’altra. Ripensandoci oggi, fu una scelta banale. Lo sport non è come tanti altri mestieri nei quali più invecchi e più diventi bravo. E il tennis è lo sport più difficile, lo sport dei pazzi e degli uomini soli. È cattivo, non esiste il pareggio, sai quando entri in campo ma non quando ne uscirai».