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Nel 1975 la Federazione lo invita a dare una prima occhiata ai ragazzi della squadra azzurra. C’è qualcosa che luccica in quello sparuto e promettente gruppo uscito dal centro di Formia, ma nessuno sa dire se sia oro. Sono estrosi, umorali, discontinui, spesso si imbizzarriscono, pestano i piedi nell’acqua delle loro qualità e la trasformano in fango. Li guida con grazia paternalistica Fausto Gardini, il presidente Giorgio Neri vorrebbe sostituirlo con qualcuno di polso più fermo sin dall’inizio della stagione, lo ha individuato in Pietrangeli, ma immaginando che l’esonero provocherebbe a Gardini un profondo dolore preferisce confidare che siano i risultati a sciogliere il nodo al posto suo. Il verdetto non si fa attendere, la Francia non proprio irresistibile di Jauffret e Dominguez, che veleggiano entrambi tra la ventesima e la quarantesima posizione della classifica mondiale, ci butta fuori dalla Davis all’esordio e spalanca le porte al nuovo capitano, nonostante le resistenze di Belardinelli al quale non servono doti di vaticinio per pronosticare le future difficoltà di coabitazione.
«Sapevo poco di Barazzutti e Zugarelli, qualcosa in più di Bertolucci. Panatta invece si può dire che lo avevo visto nascere. Tra di noi ci sono diciassette anni di differenza. Il padre Ascenzio era il custode del circolo Parioli e anche un amico per quella banda di adolescenti padrona del club e della quale facevo parte. Un giorno stiamo lì a infiammarci sulle sorti di Roma e Lazio, quando arriva lui tutto trafelato e ci fa: Ao’, me nasce un fijo. E noi: E chi se ne frega! Neppure sapevo che di cognome facesse Panatta, per noi era soltanto Ascenzio, suo figlio automaticamente diventa dunque Ascenzietto. Lo ricordo bimbo attaccato alla rete mentre si giocava a pallone, gli dicevo: Togli le mani da lì Ascenzie’ che ti rompiamo le dita. Poi mi trasferii all’Eur e lo dimenticai fino a quando il maestro Simon Giordano mi porta in campo un ragazzino che, assicura, riuscirà a stupirmi. Cominciamo a palleggiare e dopo un paio di colpi lui scende a rete. Gli dico: Ehi, vacci piano, fammi riscaldare. E lui: Quando famo la partita? Dieci anni dopo mi strapperà il titolo italiano».
Si aspetta una squadra, se ne trova due. Da una parte Panatta e Bertolucci, dall’altra Barazzutti e Zugarelli. Negli spogliatoi i due clan occupano panche opposte, negli allenamenti una coppia corre in un senso, l’altra nel senso contrario. Non esiste la fratellanza, non c’è neppure l’amicizia, ci sono però la forza e l’equilibrio tecnico. La formazione è un mantra come quella del Grande Torino o dell’Inter del mago Helenio Herrera. Panatta e Barazzutti in singolare, Panatta-Bertolucci in doppio. Il capitano può limitarsi a porgere l’asciugamano e aprire le bottigliette dell’acqua alla fine dei game dispari.
«Si odiavano, forse per gelosie, forse per interessi. Panatta era la diva, nato per il tennis, talento straordinario, peccato sia durato poco. Di primo acchito antipatico, scorbutico e volubile, capace di cambiare opinione ogni dieci minuti. Bertolucci era la spalla, il gregario, l’alleato anche fuori del campo. Barazzutti il soldatino friulano né bello né brutto, né buono né cattivo. Zugarelli il presunto capro espiatorio, ha sempre sofferto il complesso della vittima. Contro la Gran Bretagna sull’erba di Wimbledon fui costretto a farlo giocare quando Barazzutti, chissà se era vero o se era paura, si diede malato. Da quel momento Tonino si è sentito titolare a tutti gli effetti e non ha mai più accettato il ruolo di rincalzo. Ma fu a Londra, più che durante la semifinale con l’Australia, che capii che se la politica non ce lo avesse impedito quell’anno avremmo scritto i nostri nomi sulla Coppa Davis. Dissi loro: io sono il capitano e quando siete qui fate quello che dico io. Fuori potete pure prendervi a coltellate, la cosa non m’interessa».
Vince la Davis al primo tentativo. Viene sorretto dalle ali della fortuna, dell’abilità e della strafottenza di un sanguemisto che affronta i nemici anche con la spada dell’ignoranza e dell’ironia. I ricordi si affollano nella sua mente, cadono come noci da un albero scosso e si rimettono in piedi con la stessa baldanza di allora.
«La vittoria di Santiago è stata una storia bella e divertente. Mi sono trovato in situazioni alle quali ero assolutamente impreparato, mi fecero incontrare a sorpresa persino gli Inti-Illimani».
Il gruppo musicale si esibisce in esilio. Indirizza a Pietrangeli e ai suoi giocatori una lettera dai toni pacati, una preghiera: «Sappiamo che non giochereste mai per Pinochet né per i responsabili della sua scalata al potere. Tuttavia è impensabile che in un paese in cui la grande maggioranza della gente è stata trascinata a condizioni tali di miseria che ogni giorno milioni di persone devono affrontare la fame, un paese in cui la disoccupazione supera il trenta per cento e in cui il salario di un operaio corrisponde a circa 30-40.000 lire mensili, chi non fa parte dell’esigua minoranza che trae i frutti dall’attuale governo possa permettersi di assistere a un qualsiasi spettacolo artistico o sportivo. Il numero di orfani e vedove di coloro che sono stati rinchiusi nello stadio Nacional supera il pubblico che assisterebbe alla finale di Davis. Non possiamo chiedere al boia che ha macchiato di sangue lo stadio il rispetto per le sue vittime. Possiamo rivolgerci solo a voi. Il Cile è un falso finalista. Santiago offre la possibilità di una povera vittoria sportiva e di un’amara insalatiera. Noi crediamo che non giocando in Cile la squadra italiana otterrà una vittoria sportiva ma anche di civiltà e di solidarietà umana. Sono mani cilene che applaudiranno per questo gesto, sono mani pulite di uomini, donne e bambini che credono e lottano per i valori che il popolo italiano difende e ha consacrato nella Costituzione della Repubblica».
«Non avevo la minima idea di chi fossero questi Inti-Illimani, credetti che a qualcuno di quei ragazzi il regime avesse un ucciso il padre, la madre, un fratello. Mi spiegarono che allo stadio Nacional nessuno metteva più piede dopo le esecuzioni e le torture ordinate da Pinochet. Ci ripensai nei giorni della finale, lo stadio del calcio era a trecento metri da quello del tennis, andai a vederlo. Poi fummo invitati dalle autorità cilene a una partita di spareggio per l’accesso alla Coppa Libertadores. Quel giorno sulle tribune ci saranno stati almeno sessantamila spettatori. Pensai che avevano fatto in fretta a dimenticare…».
È sposato più o meno felicemente. Abita a Roma sulla Flaminia Vecchia, un’auto dei carabinieri staziona giorno e notte sotto casa. Gli telefonano minacciandolo: schifoso fascista, ammazziamo te e tutta la tua famiglia. I figli ridono, non si rendono conto che il pericolo è reale. Per complicarsi l’esistenza lui infila alcune delle sue battute irriverenti: «Anche Allende non era un tenero, da quanto mi risulta»; «Perdere con i cileni è impossibile, con quelle pippe posso giocarci pure io».
Combatte. Più di quanto abbia mai fatto su un campo da tennis. Ai giocatori ordina di non rilasciare dichiarazioni, avrebbe preso su di sé l’intero peso della trattativa.
«Conoscevo bene Franco Evangelisti che era il braccio destro di Andreotti. Un giorno mi avvertì: Guarda Nicola, che il presidente a Santiago del Cile non vi ci manda. Io gli risposi: Ah sì? Allora di’ al tuo presidente che mi deve togliere il passaporto perché io ci vado lo stesso. A costo di andarci da solo. Feci in tv un confronto di un’ora con Pajetta, rispetto a lui valevo zero. Riuscii quasi a portarlo dalla mia parte. Alla fine gli dissi: Onorevole, se tutti i comunisti sono come lei quasi quasi mi iscrivo al partito. Non parlai mai con Berlinguer ma diventai amico fraterno del senatore Pci Ignazio Pirastu grazie all’intercessione dell’allora presidente del Cagliari Andrea Arrica. Fu proprio Arrica a insistere con Pirastu, spiegandogli a più riprese che io non volevo fare politica ma solo portare la Coppa Davis in Italia. Alla vigilia della nostra partenza ci trovammo entrambi su Raiuno e Pirastu mi disse: Noi ci abbiamo provato a non mandarvi ma ora saremo i primi a fare il tifo per voi. La vittoria sul campo di Santiago fu soltanto dei ragazzi, ma io mi tengo il merito, che non divido con nessuno, di averceli portati. L’unico che si schierò al mio fianco fu il segretario della Federazione Gianfranco Cameli. Galgani, divenuto presidente quando noi già eravamo in Cile, lo cacciò immediatamente. La mia condanna fu soltanto differita nel tempo».
Nel 1977 gli azzurri raggiungono un’altra volta la finale dopo aver superato Svezia, Spagna e Francia. A Sydney l’Australia si vendica della sconfitta subita l’anno precedente e con la sua vittoria per 3-1 (l’Italia si aggiudica il doppio mentre a risultato ormai acquisito l’ultimo incontro tra Roche e Barazzutti viene sospeso) si riprende la coppa a distanza di quattro anni dall’ultimo successo sugli Stati Uniti, nel 1973. Qualche settimana dopo Paolo Galgani convoca la squadra azzurra in un albergo di Firenze.
«Io chiedo: Che c’è? Mi risponde il silenzio. Allora lo ripeto: Che c’è? A forza di insistere uno solo trova il coraggio di alzarsi. A capo chino mi dice: Sai Nicola, non proviamo più nei tuoi confronti i sentimenti e la fiducia che sentivamo l’anno scorso. Li ho mandati tutti affanculo. Mi avevano fatto fuori. Il presidente del Coni Giulio Onesti mi inviò una lettera di ringraziamento ammettendo che contro di me era stata architettata una congiura da basso impero. Per cinque anni non ci siamo parlati. Adriano mi chiese scusa piangendo al termine di una serata a Cortina, ma quella volta era ubriaco come una cucuzza e il pentimento dunque non aveva alcun valore. Però tutto passa nella vita e un giorno è svanito anche il risentimento».
Pietrangeli ama le canzoni di Domenico Modugno. Nel pieno della polemica Modugno scrisse una ballata sulla Coppa Davis unendosi al fronte degli oppositori.
La sorte della coppa è controversa
c’è chi vuol che si vada e viceversa
io sono per il no anche se poi
sono sportivo come tutti voi
Ma purtroppo per il tennis
e per la Coppa Davis
un solo guaio c’è
un solo guaio c’è
e si chiama Pinochet.
D’accordo che ci piace l’insalata
e che l’insalatiera è alla portata
ma non mischiam con faciloneria
la dittatura con la democrazia.
Ma che facciamo? Andiam da quel fascista
e gli diciam: Señor hasta la vista
e poi prendendo in mano la racchetta
dimentichiamo tutto così in fretta.
Ma Allende e Corvalán
le stragi nello stadio
dov’è finito l’odio
dov’è finito l’odio
è diventato sport.
Dov’è finito l’odio
se proprio in quello stadio
hanno ucciso la libertà.
«Apprezzai molto una sua intervista radiofonica nella quale diceva che per sentirsi felice gli bastava possedere le sue sigarette, la sua stanza da letto e un paio di scarpe. Rivelava che cantare lo eccitava allo stesso modo di fare l’amore, che aveva bisogno del pubblico e che aveva spiegato ai suoi figli quanto sia bello lottare per conquistare qualcosa. È quello che abbiamo fatto noi nel 1976. Abbiamo lottato. Non ho rimorsi».