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Il presidente muore a primavera appena iniziata in uno strano giorno di sole acceso, un sole raramente così tiepido in quella stagione. Se ne va nel suo elegante vestito leggero, le scarpe italiane, un elmetto da combattimento infilato sulla testa, stringendo in pugno il fucile Ak-47 donatogli da Fidel Castro. Assassinato dai traditori, o suicida per non dar loro la soddisfazione di finirlo. Quando alla radio parla per l’ultima volta al paese e dice «la storia è nostra e la fanno i popoli», il cielo comincia a rannuvolarsi.
Antonio Arévalo Sagredo ha quindici anni e fino a quel momento è stato felice.
«Avevo appena vissuto i tre anni più belli della mia vita. Tre anni non sono molti, ma quelli mi hanno segnato per sempre. Essere partecipe dei mutamenti sociali e culturali, avere coscienza anche fisica di tutto questo mi aveva riempito il cuore di orgoglio e di gioia. Mi sentivo dentro la storia di una grande nazione che voleva finalmente tornare a vedere il cielo. Ero attento e curioso, forse più di quanto ci si potesse aspettare da un ragazzo all’inizio della sua adolescenza. La scuola che cambiava, l’editoria popolare che si espandeva, l’odore della libertà che trasudava dalla terra che calpestavo, la mia terra. Sentirsi cileno, recuperare il senso di essere orgogliosamente latinoamericano. Ascoltavo il canto nuovo, la nuova canzone cilena. Vivevo pienamente quell’euforia popolare, popolare sul serio perché coinvolgeva gli strati sociali lontanissimi dal potere e dal benessere. Dava ai dimenticati il diritto di esistere».
È un bambino quando diventa una sorta di mascotte della brigata «Ramona Parra», collettivo di muralisti che prende il nome dalla militante del Partito comunista cileno uccisa a vent’anni, nel 1946, durante il massacro di plaza Bulnes.
«Uscivo la notte, di nascosto dai miei genitori, per dipingere soprattutto scritte gigantesche e piene di colori. In un primo tempo avevo fatto parte dell’orchestra della Gioventù comunista, ma ho scoperto presto che non ero votato per la musica, per questa ragione passai a riempire i caratteri che il disegnatore tracciava sui muri a grande velocità. È stato il mio primo serio impegno politico. Ne andavo fiero».
Sotto l’abbondanza del cielo cileno si preoccupa solo del colore rosso.
«Dove vedevo una R scattava il mio pennello, era lì che bisognava agire, mi facevano capire i miei compagni. Molte volte eravamo costretti a scappare prima di terminare il lavoro, nascondendoci sotto le macchine in sosta per sfuggire a quelli di Patria y Libertad che ci davano la caccia. Molte altre volte finivamo dritti dritti in caserma, perché eravamo una preda ambita anche dai carabinieri. Era il 1969 e di lì a poco saremmo diventati governo. Partecipai ai lavori volontari. Ho imparato a mungere le vacche, a conoscere come si usa un aratro, a innamorarmi intorno al focolare la sera fra le canzoni di lotta, quelle di Violeta Parra e di Víctor Jara, il cantautore che sarà massacrato e ucciso cinque giorni dopo il golpe».
È ancora un bambino ma parla come un uomo con i contadini, con gli operai, con i minatori. Lo chiamano compagno. Si sente grande. La mattina dell’11 settembre 1973 la sua prima preoccupazione è quella di riabbracciare suo padre, separato dalla moglie, che per due decenni aveva curato le campagne elettorali di Salvador Allende. Eusebio Arévalo è un funzionario del Partito comunista. Sarà costretto alla clandestinità. Braccato dagli aguzzini di Pinochet abbandonerà la famiglia nel tentativo di riorganizzare la base del partito. Di lui si perderanno le tracce. Antonio andrà in Cile nel 1987 per cercare di riannodare i fili della storia del padre e scoprirà che è morto pochi mesi prima del suo ritorno. Morto alcolizzato.
«L’11 settembre 1973 ero a casa della mia nonna paterna. L’abitazione si trovava in un quartiere della periferia sud di Santiago. Ricordo di avere sentito degli spari in lontananza, non riuscii a capire che cosa stava accadendo fino a quando non mi chiamarono alcuni vicini che stavano con l’orecchio appiccicato alla radio per ascoltare le ultime notizie. Andai subito da loro, volevo sapere a che cosa dovevo quel brutto presentimento che mi batteva nella mente. Piansi nell’udire le parole di Salvador Allende. Prima che finisse il discorso le pallottole cominciarono a colpire le mura e le porte della casa. Mi rifugiai all’interno assieme a mia nonna e bruciammo tutto il materiale comunista in nostro possesso».
Antonio vuole rivedere suo padre, non ha dimenticato tutto ciò che papà gli ha detto del presidente.
«Allende era un uomo integro che esprimeva fiducia, forse il fatto di essere un medico lo aiutava. Elegantissimo e sobrio allo stesso tempo, con quei grandi occhiali che a quel tempo io paragonavo a quelli di Kissinger e Onassis, ai miei occhi uomini altrettanto potenti e importanti. I suoi discorsi erano pieni di forza e fiducia, era un grande oratore».
Dal Palazzo della Moneda già sotto le bombe dell’aviazione il presidente lascia al Cile democratico il suo testamento politico e morale attraverso le onde di Radio Magallanes. Sono le nove e dieci del mattino.
«Mi accomiato da voi. È possibile che ci sparino addosso. Ma sappiate che siamo qui perlomeno con questo esempio, per mostrare che in questo paese ci sono uomini che compiono la loro funzione fino in fondo. Io lo farò».
Ci sono passaggi di quel discorso, dice Antonio Arévalo con la voce rotta dalla commozione, che non ho più dimenticato.
«Mi rivolgo alla gioventù, a quelli che hanno cantato e hanno donato la loro allegria e il loro spirito di lotta. Mi rivolgo all’uomo del Cile, all’operaio, al contadino, all’intellettuale, a quelli che saranno perseguitati. Continuerete ad ascoltarmi. Sarò sempre vicino a voi, il ricordo che avrete di me sarà quello di un uomo degno che fu leale con la patria».
In una pausa della sparatoria, scrive Isabel Allende nel suo libro più fortunato, La casa degli spiriti, il presidente riunì i sopravvissuti e disse loro di andarsene, perché non voleva martiri né sacrifici inutili, tutti avevano una famiglia e dovevano portare a termine un importante compito a venire. «Chiederò una tregua affinché possiate uscire» aggiunse. Ma nessuno se ne andò. Qualcuno tremava, ma tutti erano in apparente possesso della loro dignità. Il bombardamento fu breve, ma trasformò il palazzo in un ammasso di rovine. Alle due del pomeriggio l’incendio aveva divorato gli antichi saloni che erano serviti fin dai tempi coloniali, e rimaneva solo un pugno di uomini intorno al presidente. I militari entrarono nell’edificio e occuparono tutto quanto restava del pianoterra. Al di sopra del fragore udirono la voce isterica di un ufficiale che ordinava loro di arrendersi e di scendere in fila indiana e con le braccia in alto. Il presidente strinse la mano a ciascuno. «Io scenderò per ultimo» disse. Non lo rividero mai più.
Dentro il fumo del golpe Antonio decide che deve a ogni costo mettersi in cammino nella capitale sconvolta.
«Durante quella giornata attraversai Santiago, una macchina mi diede un passaggio fino a un certo punto, poi arrivai in centro e continuai a piedi. C’era un grande movimento militare in tutta la città, ma io ero giovane, direi di più, ero piccolo, non guardai in faccia nessuno e raggiunsi la zona vicina allo stadio Nacional, dove viveva mio padre e mi stabilii con lui. Nei mesi successivi i miei genitori si rimisero assieme, ma la loro ritrovata unione non durò per molto. Dopo un lungo silenzio, gente che veniva incarcerata e torturata, cadaveri abbandonati in strada, accogliemmo famiglie smembrate di amici».
I corpi dei fucilati nello stadio sono messi in sacchi di tela blu, i soldati li portano via con i furgoni. I torturati in agonia vengono gettati dagli aerei in volo mentre sono ancora vivi.
«La rabbia trattenuta dei primi giorni successivi al colpo di stato diventò paura autentica. Si cominciava a sapere delle retate, degli arresti, dei massacri. Iniziò per la mia famiglia un periodo di grandi tragedie. Nonostante il pericolo per la mia incolumità personale partecipai attivamente alle riunioni dei miei compagni di militanza. Entravamo nei locali pubblici sempre in coppia, uomo e donna, per non alimentare sospetti. Andavamo alle partite nello stadio Nacional già sgombrato dai detenuti con pacchi di volantini del partito nascosti sotto i vestiti e li mettevamo sopra le tribune. Confidavamo che il vento avrebbe fatto il resto. Cadevano sulle nostre teste mentre uscivamo confusi tra la folla. Era immensamente importante dire: Ci siamo ancora. Eccoci, non ci hanno distrutto. Non sono mai stato schedato dalla Dina, la polizia segreta di Pinochet. Sembravo un ragazzo perbene, ero ben vestito. In due occasioni mi portarono in caserma con qualche compagno. Un giorno, per umiliarmi, i carabinieri mi tagliarono i capelli su un autobus, fecero stendere in terra alcune persone e mi obbligarono a camminare sopra le loro schiene. L’intenzione era di sfregiare moralmente sia me sia loro».
I soldati pattugliano le strade, arrestano gli uomini con la barba e i capelli lunghi, tagliano a forbiciate i pantaloni delle donne.
«Il 1974 fu per me un anno decisivo. La ferocia dei golpisti aveva sterminato il nostro Comitato centrale. Non potevo continuare gli studi, feci molti tentativi, nessuno andò in porto. Le autorità mi lasciavano iscrivere a scuola, poi dopo qualche settimana mi congedavano. Mio padre appariva e scompariva, il cerchio cominciava a chiudersi intorno a noi. Una mattina, alla fine del ’74, i militari mi inseguirono. Ero con un compagno di partito, avevamo le borse piene di materiale politico. Il passo fu breve, davanti a noi c’era il Consolato italiano a Santiago, ci rifugiammo nelle sue stanze per un paio d’ore. Le case dei nostri erano circondate, due amici giornalisti erano scomparsi, non seppi mai più nulla di loro. Furono gli stessi funzionari del Consolato a organizzarci l’ingresso nell’ambasciata. L’edificio era presidiato da decine di carabinieri armati. Fu un vero e proprio blitz. Ricevetti istruzioni precise. Oggi rido, in realtà la raccomandazione era una sola: Vai più veloce che puoi, mi dissero. Ricordo di essermi messo a correre come un pazzo e di aver lanciato in aria il giornale che avevo in una tasca della giacca. Intravidi in maniera indistinta un carabiniere e un cane. Poi più nulla, mi ritrovai tremante sulle scale della residenza italiana con una sigaretta tra le labbra, io che non ho mai fumato. Rimasi lì dal dicembre del 1974 al marzo del 1975».
Alla fine di marzo Antonio lascia Santiago del Cile.
«Mi accompagnò all’aeroporto Emilio Barbarani, giovane diplomatico italiano che visse in Cile altri due mesi, fino alla partenza dell’ultimo richiedente asilo. Arrivai a Roma e mi portarono all’hotel Claudia, era lì che gli esuli cileni venivano ricevuti dai rappresentanti dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Le correnti politiche dell’opposizione in esilio si radunavano e si univano attraverso l’associazione Cile Democratico, la cui sede si trovava in via di Torre Argentina. C’erano vecchi dirigenti, alcuni appena scarcerati e ancora segnati dalla prigionia e dalle percosse. Nell’ottobre di quello stesso anno ci fu l’attentato contro Bernardo Leighton e sua moglie al residence Aurelia. Un vero shock per tutti noi, dopo quell’episodio capimmo che non saremmo mai più stati al sicuro, in nessun luogo al mondo».
L’inverno successivo si scatenano le polemiche sulla partecipazione dell’Italia alla finale di Coppa Davis a Santiago.
«Seguii la vicenda con attenzione. Leggevo i giornali, ascoltavo i dibattiti politici in tv, partecipai a qualche manifestazione, mi sorprese la determinazione di Nicola Pietrangeli. Mi convinsi alla fine che la trasferta della squadra azzurra sarebbe stata utile alla nostra causa. Come me erano contrari al boicottaggio molti altri esuli. Pensavamo fosse importante che gli stranieri visitassero il nostro paese, potessero conoscere la sua realtà e raccontarla senza temere vendette e ritorsioni. L’ultimo atto della Davis offriva un’opportunità. Ogni occasione internazionale era un’occasione anche per noi di giungere alla verità, allo smascheramento della dittatura».
Antonio Arévalo Sagredo, scrittore e poeta, è addetto culturale dell’ambasciata cilena in Italia. Ha lo sguardo intelligente e allegro di chi crede che la vita sia comunque un dono meraviglioso.
Il generale Augusto Pinochet rimase al potere fino all’11 marzo 1990. Due anni prima era stato sconfitto al plebiscito dal fronte del «No». Morirà all’età di novantuno anni, senza aver pagato per i crimini commessi, il 10 dicembre 2006, giornata internazionale per i diritti umani.
Tra il settembre del 1973 e la primavera del 1975 più di settecento cileni perseguitati dal regime di Pinochet trovarono asilo nelle stanze dell’ambasciata italiana di Santiago. Molti di loro vi rimasero per mesi, spesso con mogli e figli, in attesa di un salvacondotto e di un biglietto aereo. Assistiti come fratelli dai diplomatici della Farnesina che entrarono in rotta di collisione con la giunta militare: Piero De Masi, Tomaso de Vergottini, Roberto Toscano, Emilio Barbarani, Enrico Calamai e Damiano Spinola.
Non è stato possibile ricostruire il numero esatto delle vittime provocate dal regime fascista in Cile. I risultati ufficiali delle varie commissioni d’inchiesta sono incompleti e discordanti. I morti accertati, tra assassinii e sparizioni, sarebbero stati 3508. Ma ci sono bilanci che alzano questa cifra fino a trentaduemila vittime nei complessivi sedici anni di potere. Oltre trentamila sono state le persone torturate e finite in carcere. Nei primi tre anni successivi al golpe del ’73 almeno centotrentamila cileni furono arrestati su ordine della giunta militare. Di migliaia di loro non si è più saputo nulla.