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Devi essere più esplosivo, sali sopra quella benedetta palla. Cerca di velocizzare il movimento del braccio, non aspettare che la palla si abbassi. Dalle maggiore rotazione, deve passare più alta sopra la rete. Non voglio che tu mi faccia vedere quello che sai fare, ma quello che non sai fare.
A Roma, sulle vestigia del vecchio Parioli di viale Tiziano – ora intitolato a Paolo Rosi, il giornalista scomparso nel 1997, ex rugbista e per trent’anni voce televisiva dell’atletica leggera italiana –, un uomo con pochi capelli, i radi baffi bianchi, le gambe che imprecano all’indirizzo delle ginocchia anchilosate dalla ruggine, una vecchia racchetta dal telaio smangiato e qualcosa di indefinibile dentro la testa a comandarlo, ribatte ogni colpo con un controbalzo di rovescio che finisce sempre nello stesso punto dall’altra parte del campo. Nell’angolo sinistro, a una spanna dalla riga di fondo.
Quarant’anni fa riuscì a sorprendere con il suo stile personalissimo Arthur Ashe che, ammirato, gli riservò uno spazio nella sua autobiografia: «Gli ho alzato un pallonetto che lo ha superato nell’angolo del suo rovescio e subito dopo sono sceso a rete. Lui è scattato indietro e, lo giuro, mi ha oltrepassato con un tiro incrociato, colpendo la pallina da dietro le spalle, sul rimbalzo. Sono rimasto di stucco e ho pensato che se era riuscito a fare una cosa del genere avrebbe potuto nascondermi la palla per il resto dell’incontro. Zuga è uno che sa come maneggiare la racchetta. Uno dei pochi capaci di colpire in demi-volée dalla linea di fondo come Hewitt, Pietrangeli e Santana».
Fammi vedere quello che non sai fare, ripete. Ad ogni palla varia la rotazione. L’allievo è mancino. Mentre esegue il dritto, che dovrebbe essere il suo colpo più efficace e potente, è costretto a cercare la palla modificando a ogni approccio la postura delle spalle e del braccio, come se la palla fosse legata a un guinzaglio invisibile e venisse spostata una frazione di secondo prima dell’impatto dalle dita del maestro. In questo modo le cose che non sa fare non faticano a venir fuori.
Tonino Zugarelli ha bellissime ruvide mani da contadino, portano i segni di un lavoro segreto, lontano, i calli di qualche antenato. Sono mani che hanno conosciuto la fame e la rabbia. Due sentimenti che non se ne sono ancora andati. La prima cosa che mi dice all’ombra del gazebo di un bar triste, seduto sulla punta di una sedia di plastica rossa con la pubblicità dei gelati Algida stampigliata sullo schienale, è questa: «Li ha visti? Quelli una volta erano campi da tennis, oggi sono campi per le patate».
Le patate sono sempre state il simbolo della povertà, e della sopravvivenza. Tonino ne ha mangiate tante. La sua famiglia non possedeva nulla, se non l’istinto dei naufraghi. Il padre era arrivato a Roma dalla Sicilia, faceva il muratore. Lavoro che c’era e non c’era, dipendeva da amicizie, favori, alti e bassi del settore edile, dal freddo e dal caldo delle stagioni. Tirò su una casa abusiva ai Colli della Farnesina: una stanza, un cucinino, un piccolo bagno, il tetto di lamiera. Vi portò la moglie e i tre figli piccoli.
Nel libro Zuga. Il riscatto di un ultimo, scritto con Lia Del Fabro, Tonino ricorda la grande nevicata del 1956, quando il padre per dar da mangiare alla famiglia cattura passerotti con trappole illegali. «A dicembre ci accompagnava in campagna a cercare nei boschi i cespugli di pungitopo e di agrifoglio selvatico. Portati a casa i rami spinosi con le bacche rosse, ci mettevamo tutti attorno al tavolo a confezionare mazzetti che avremmo cercato di vendere nelle domeniche dell’Avvento davanti alla chiesa di Santa Croce, in via Guido Reni».
Aveva sette o otto anni, si accovacciava sui gradini della parrocchia e attendeva la fine della messa: «Qualche signora di quel quartiere benestante si avvicinava e, alla fine, si decideva pure a comprare un mazzetto, credo impietosita dall’immagine di piccolo fiammiferaio che offrivo, seduto lì al freddo per ore».
Il tennis lo conquistò per necessità, i giocatori in maglione a coste della borghesia romana lasciavano buone mance ai raccattapalle per farsi perdonare di averli trattati come servi. Lui provava qualche colpo di nascosto, ma il gioco non riusciva ad appassionarlo.
«Non ho mai pianto per il tennis. Ero malato di calcio. Facevo sega a scuola, la mattina giocavo una partita, il pomeriggio un’altra sotto falso nome. Ho studiato fino alla licenza di terza media, il sette miglior voto in pagella. Non ero uno stupido, ho capito presto che non mi sarebbe stato permesso di cullare desideri. Se qualcuno mi domandava che cosa avrei voluto fare da grande non sapevo rispondere. Non avevo tempo né soldi per i sogni. Nel mio rione ti legavi a un pallone o andavi a rubare».