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Anche quando si è fortunati c’è sempre un tratto di strada da percorrere prima di riuscire a prendere il bivio giusto. Zugarelli ne porta la testimonianza sulla pelle: sotto l’occhio destro un taglio profondo lasciato da un pugno, il segno indelebile di un fil di ferro sotto quello sinistro, su una coscia la ferita causata da un coccio di bottiglia, in testa un lungo sfregio provocato da uno scontro a sassate. Un giorno ha preso un metro e con pazienza le ha misurate. Trentacinque centimetri di cicatrici. Il prezzo di una seconda nascita.

Nel centro federale di Formia, dove si riunisce per la prima volta agli altri tre – Panatta, Bertolucci e Barazzutti –, Mario Belardinelli, che più che direttore tecnico è padre, educatore e confidente dei ragazzi affidati alle sue cure, gli chiede con discrezione e affetto come ha perso l’ultima falange del pollice destro.

«Da ragazzino non avevo mai voglia di tornare a casa a fine giornata. Una sera mia madre mandò mio fratello Roberto a recuperarmi. Io stavo esplorando i cantieri dei palazzi in costruzione e quando mi accorsi della sua presenza cercai di nascondermi sotto una catasta di pali di legno che servivano a sorreggere i solai prima della gettata di cemento. Roberto mi vide e per stanarmi prese un sasso e lo lanciò verso di me. La pietra colpì la catasta e fece cadere un palo che mi schiacciò la mano. Avevo appena otto anni ma non ho dimenticato nulla di quanto accadde in ospedale. I medici non badarono ai dettagli, avevano fretta, in fondo si trattava solo del dito di un piccolo ribelle di periferia. Disteso sul lettino, cosciente a metà per l’anestesia, mentre tagliavano e ricucivano, li sentii parlare del pranzo della domenica appena passata, di quanto era buono il maialino con la foglia d’alloro in bocca».

Nel 1976 vince sulla terra di Båstad, in Svezia, il suo unico torneo nel circuito professionistico, battendo proprio l’amico Corrado Barazzutti, e l’anno successivo sfiora l’impresa a Roma, arrendendosi in finale, dopo una battaglia tiratissima di quattro set, allo statunitense di origine greca Vitas Gerulaitis.

«Quella settimana Dio mi prese per mano. E mi abbandonò il settimo giorno».

È la sua migliore stagione e gli fa guadagnare la ventisettesima posizione nella classifica mondiale. In Davis disputa sedici partite, vincendone sette e perdendone nove. Senza la menomazione al pollice destro che gli impediva i giusti cambi di impugnatura, hanno scritto in molti, sarebbe arrivato sulla soglia della top ten. Lui ha sempre sostenuto fosse una sciocchezza.

«Non ho mai avuto problemi tecnici o psicologici. Si trattava soltanto di un pezzo di dito in meno, non mi è mai capitato di essere condizionato da questo limite mentre stavo in campo. La verità è che ero un autodidatta, non sono stato seguito da un maestro. Imparavo guardando gli altri giocare. Fu Belardinelli a migliorarmi, mi ripeteva sempre: Sei il più rapido di tutti e quattro, Tonino, devi giocare in attacco perché vedi la volée in anticipo.

Oggi mi piace allenare i bambini, sono così diversi da com’ero io alla loro età. Ho smarrito l’adolescenza. Leggo nella loro mente, li sento ripetere a sé stessi: Impara, migliora, divertiti, vinci. Non ho mai pensato ciò che pensano i bambini a cui faccio lezione. Sa cosa credo? Che il Signore mi abbia dato il tennis come un risarcimento. Avevo preso troppi calci in culo, mi serviva una vendetta e Dio mi ha detto aspetta, non farlo, ti regalo il tennis. Il rimpianto è non averlo amato abbastanza. Il tennis mi ha consentito di recuperare una cultura e di conoscere il mondo, anche se parlo ancora romanaccio. Mi sono comprato una casetta, sulla quale mi restano da rimborsare dieci anni di mutuo, e capita che qualcuno mi riconosca per strada. Lo confesso, mi fa piacere. Quando ho smesso mi è rimasto poco. Due soli amici nell’ambiente, Vincenzo Franchitti e Ezio “Pancho” Di Matteo. Tutti gli altri, a cominciare dal presidente della Fit Angelo Binaghi, mi hanno chiuso le porte in faccia, ma piuttosto che chiedere aiuto vado a spazzare i cessi».