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Dal 30 aprile al 2 maggio 1976 l’Italia affronta e batte la Polonia a Firenze, è un «cappotto». Il 5-0 è merito della coppia formata da Adriano Panatta e Paolo Bertolucci che giocano sia i singolari sia il doppio. Si replica dal 21 al 23 maggio con la Jugoslavia, un altro 5-0, con il rientro di Corrado Barazzutti nelle vesti di secondo singolarista, inflitto a Pilić e Franulović. Dopo aver archiviato senza particolari patemi la pratica Svezia, 4-0 a Roma contro Norberg, Johansson e Bengtson, carneadi orfani di Borg, nella prima settimana di agosto la squadra azzurra vola a Londra dov’è in programma la finale della zona europea di Davis.

Ci arriva da sfavorita, ma per la seconda volta il destino passa dall’erba di Wimbledon e si diverte a capovolgere i pronostici.

È proprio Zugarelli a consegnare il primo punto all’Italia con il successo su Taylor con il punteggio di 6-1 7-5 3-6 6-1. Panatta strappa il due a zero imponendosi su John Lloyd al quinto set: 5-7 6-3 6-3 2-6 6-4. Sabato gli inglesi riaprono il match nel doppio, quando John Lloyd e il fratello David, dopo essersi trovati in svantaggio di due set (6-8 3-6), si aggiudicano il terzo 6-3 e al termine di una maratona di trentaquattro games incamerano anche il quarto per 18-16. Stanchi e demoralizzati Panatta e Bertolucci si fanno travolgere dall’onda britannica e nel quinto cedono di schianto portando a casa la miseria di due giochi. Panatta si scuote il giorno successivo, batte Taylor 3-6 6-2 6-4 6-4 e stacca il biglietto per la sfida con l’Australia che si terrà al Foro Italico nell’ultima settimana di settembre.

Anche se ininfluente ai fini del risultato Zugarelli onora il quinto incontro che si gioca per regolamento al meglio dei cinque set. Il suo avvio è distratto, il che consente a Lloyd di vincere le prime due partite per 6-4 8-6, poi Tonino si risveglia, infila un triplice 6-1 e chiude l’incontro con un tuffo acrobatico. I giornali sportivi hanno trovato il loro «Ammazzainglesi» da mettere nei titoli.

Non sono la riserva, pensa Tonino mentre a Wimbledon aspetta di tornare in campo dopo la fine del secondo set perso con Lloyd. Sono uno dei quattro. Il Ringo Starr della band, Tonino che ama le canzoni più tristi dei Beatles come While my guitar gently weeps, quella scritta da George Harrison, «gli errori da cui forse dobbiamo imparare».

Riserva. La parola gli riacutizza un vecchio dolore, lo ricaccia nel luogo da dove è fuggito aggrappandosi di malavoglia al tennis e sposandosi a vent’anni con la sua Bruna conosciuta al bar Zamparini.

Bella, semplice, nello sguardo una luce sghemba tanto simile alla sua. «Avevo quattordici anni, Tonino sedici, abitavamo a pochi passi l’una dall’altro, ma non riuscivamo a trascorrere mai più di un’ora da soli: papà vigilava e poi lui mi stava antipatico, così bello e strafottente».

Si mettono assieme in un cinema, danno I dieci comandamenti di Cecil B. DeMille con Charlton Heston, Yul Brynner e Anne Baxter. Quattro ore, un bacio forse per sfinimento. Bruna scopre ben presto un ragazzo fragile, dolcissimo e selvaggio. Decide di tenerselo stretto e di proteggerlo. Se avessi un’altra vita, mi dice, vorrei passarla un’altra volta con lui.

Pietrangeli gli sta di fronte. È in piedi e gli mormora qualcosa, forse un incoraggiamento di routine. Tonino non l’ascolta. È un’ombra, Pietrangeli, niente di più. «Time» ammonisce l’arbitro di sedia, il prato luccica sotto un sole così così. È la sua erba, spelacchiata come lui. Dopo il tramonto diventerà fluorescente come i prati della sua infanzia.

«Ora mi alzo e vinco».

Non è mai andato d’accordo con Nicola. Mai. Pelle, istinto, diffidenza, lignaggio, modo di stare al mondo. Nicola sempre in prima fila, anzi, mezzo passo più avanti della linea, Tonino nell’angolo in alto a sinistra della fotografia, l’aria di quello fatto tornare indietro mentre stava uscendo dall’inquadratura o dell’intruso ritratto per caso. E quello chi è, che ci fa lì? Ha sempre avuto la sensazione che Nicola non lo apprezzasse tecnicamente e lo considerasse sul piano sociale figlio di un dio minore. Pietrangeli, che medita di escluderlo anche questa volta nonostante la superficie sia più congeniale a lui che alla paziente trama da rosso del soldatino Barazza. Zuga è un animale da erba con la sua apertura corta, il senso dell’anticipo, l’attitudine ai colpi di controbalzo, la rapidità nelle discese a rete, le volée profonde e tagliate.

«E poi mi sentivo bene, mai stato fisicamente così in forma».

Nulla smuove il capitano dalle sue convinzioni: il titolare è Corrado, insiste negli appuntamenti quotidiani con la stampa. Nel backstage della squadra scoppia la rivolta. Domenico Caputo, presidente del Circolo Tennis Eur di Roma presso il quale sono tesserati sia Zugarelli sia Barazzutti, litiga aspramente con Pietrangeli nel tentativo, fallito, di fargli cambiare idea. Il nodo viene sciolto da Mario Belardinelli, arrivato dall’Italia solo due giorni prima dell’inizio del match. «Belarda» porta in campo Panatta e Zugarelli per un’ora di riscaldamento. Tonino è arrabbiato, vince il set di allenamento e negli spogliatoi Belardinelli gli mette una mano sulla spalla: «Tienti pronto Toni, preparati a giocare. A Nicola lo dico io». Di fronte alle insistenze del direttore tecnico, Pietrangeli si arrende e modifica la formazione.

«Se siamo andati in Cile lo dobbiamo proprio a Nicola. Si è battuto da solo, con grande energia, si è assunto ogni rischio, ha fatto da scudo a noi giocatori, ha affrontato la strumentalizzazione politica e ha saputo ribaltarla contro gli stessi che la impugnavano. È un merito che gli riconosco ma che non cancella i nostri contrasti. Pietrangeli ha calpestato troppe volte la mia dignità. Non sono uno straccio da buttare in campo, gli dicevo. Non sono monnezza. Allora viaggiavo con una curiosità pari alla mia ignoranza. A Santiago parlai con molti italiani che vivevano là, avevano paura. Finimmo pure noi nella rete del regime, ci addormentò dentro una bomboniera: albergo di lusso, ristorante, piscina, tennis, gite al mare, ricevimenti, i carabinieri che scortavano ogni nostro spostamento. Credevamo di essere dei maragià, eravamo dei prigionieri. Vissi la situazione distrattamente, fu un errore, ma resto della convinzione che se non fossimo andati in Cile a prenderci la Coppa Davis avremmo fatto un regalo al generale Pinochet. Certo, avremmo potuto perdere ma la nostra squadra in quel momento era la migliore del mondo. Adriano aveva un rovescio vulnerabile e non si muoveva come un atleta vero perché le gambe non erano all’altezza del suo fisico possente, ma era un attaccante imprevedibile e possedeva la furbizia del campione, sapeva riconoscere all’istante i punti deboli dell’avversario. Corrado era il nostro Nadal: continuità di gioco, straordinaria tenuta mentale, il cuore di un ussaro. Era lui il perno della squadra, la cassaforte. È stato numero sette del mondo, sarebbe arrivato al numero uno se avesse avuto servizio e volée più incisivi. Paolo a mio giudizio rappresentava sul piano tecnico la perfezione tennistica: dritto e rovescio divini, la stessa gestualità di Roger Federer. Aveva lacune fisiche e di volontà, non amava la fatica, si accontentava troppo facilmente».

I ladri gli hanno rubato le medaglie, le coppe, i piatti d’argento, il tesoro di una carriera sportiva. Non è mai stato ricco, per la Davis gli diedero quattro milioni e un orologio, ha sbagliato investimenti e attraversato uragani ma continua a navigare nonostante le vele strappate. Sabbia sotto la suola delle scarpe. Un incanto che non si è ancora sciolto. Il sogno, forse l’ultimo, chissà, di un college per ragazzi tra i quattordici e i sedici anni, l’età in cui si avviano alla fase agonistica.

«Il posto è a Colle Diana, vicino a Sutri, dieci minuti in auto da casa mia, lo trasformo in centro tecnico assieme ai miei figli Micaela e Francesco e a Pierpaolo Pagano, un maestro che lavora con me da trentacinque anni. Scuola di ispirazione francese, più talento che rotazioni, quel che sopravvive dei gesti bianchi. È una bestemmia, la mia? No, non lo è. Voglio seguire il cuore».

Ogni tanto si sente al telefono con Barazzutti. Parlano di famiglie, acciacchi fisici, paesaggi quotidiani. Giocavano il doppio assieme, accomunati dalla semplicità, dal silenzio, dalle origini modeste. Forse sono stati davvero amici, l’amicizia dei vicini di banco. Corrado e Tonino contro Adriano e Paolo. Due pianeti di massa diversa in orbita attorno a un obiettivo comune.

Ascolta ancora i Beatles e Celentano, lo affascinano le sue prediche. Mentre lui batteva Taylor e Lloyd a Wimbledon, Celentano cantava Svalutation. Una enciclica.

Cambiano i governi niente cambia lassù / C’è un buco nello Stato dove i soldi van giù/Con il salario di un mese compri solo un caffè / Gli stadi son gremiti ma la grana dov’è?

Il brano entrerà nella top ten il 21 agosto e vi rimarrà tre mesi senza mai raggiungere il primo posto, dove si alterneranno Margherita di Riccardo Cocciante e Non si può morire dentro di Gianni Bella.

Prega, Zuga, e ascolta la parola di Dio. Bruna va a messa tutti i giorni, lui tutte le domeniche. Gli piace l’odore dell’incenso e della cera che cola dalle candele accese. «Il creatore sta nei parassiti e negli alberi,» dice «nei principi e nei contadini. Se sono al mondo è perché qualcuno mi ci ha messo». Segue con interesse e apprensione gli scienziati del Big Bang. Teme che da un momento all’altro gli tolgano Dio.