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La serata romana di venerdì 24 settembre è dolce. Ma il dolore che è diventato più acuto con il trascorrere delle ore gli impedisce di godere del tepore e di quella Roma bellissima e romantica che ha da tempo imparato ad amare. Non riesce infatti a sollevare oltre l’altezza della spalla il braccio destro, una menomazione che aleggia sulla vigilia come un cattivo presagio. Domani deve giocare la partita che con ogni probabilità sarà la più importante della sua vita. Dall’altra parte della rete lo attendono due mostri sacri della specialità, anche se non più giovanissimi. Gli australiani John Newcombe e Tony Roche hanno vinto fianco a fianco dodici titoli del Grande Slam: cinque a Wimbledon, quattro in Australia, due a Parigi e una a New York. Certo, la terra rossa del Foro Italico sulla quale si sente a casa, lo aiuterà, ma il pronostico non è per nulla favorevole alla squadra azzurra che ha chiuso la prima giornata della semifinale interzone sull’1-1.
Paolo Bertolucci quella notte non riesce a dormire, continua a misurare la stanza a piccoli passi nel vano tentativo di cercare una stanchezza che lentamente si impadronisca delle sue membra e dei suoi pensieri di sventura. Ogni esercizio di autopersuasione risulta inutile. L’oscurità sembra non dover finire mai e sul colore dell’alba si stende il velo dell’angoscia. Non resta che provare con la novocaina, sentenzia il medico nella riunione della mattina. L’iniezione farà scomparire la sofferenza per qualche ora, due, forse tre al massimo, ma sarà soltanto una tregua.
Dobbiamo fare in fretta, pensa Paolone, mentre Pietrangeli, la cui voce giunge ottusa e da molto lontano a lui e agli altri, cerca di spronarli: «Ragazzi, toglietevi dagli occhi quell’espressione da condannati al patibolo: questo doppio lo possiamo vincere».
Non ci sarebbero state più di due ore per strappare un passaggio verso il cielo o per sprofondare nell’abisso. Dobbiamo fare in fretta, continua a ripetere a sé stesso senza trovare la forza di spiegarlo a Adriano, già stremato dalla sconfitta del primo giorno e dalla tensione di una nuova attesa. Poi, precipita in un’estasi divina. La memoria va in anestesia come il braccio dolente, gioca una partita pazza e geniale di cui rimarrà traccia solo nei resoconti dei giornali e nei complimenti di compagni, amici e familiari. Una partita meravigliosa e incredibile, vinta quasi da solo, con Panatta per una volta retrocesso al ruolo di comprimario.
Newcombe e Roche, trentadue anni il primo e trentuno il secondo, si arrendono dopo un’ora e mezzo di gioco scipito, il loro mito si sbriciola. Orlando Sirola dirà: «Poveretti, mi sembravano John Wayne e Gary Cooper a fine carriera». Il primo set dura appena ventitré minuti, quasi un record di brevità per un incontro di Davis. Davanti a ottomila spettatori tocca a Bertolucci la palla del match point, e la risolve con uno smash. Proprio quando finisce il movimento del colpo avverte che il dolore al braccio si sta risvegliando. L’effetto della novocaina è svanito. Ma adesso non ha più importanza.