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Paolo Bertolucci e Adriano Panatta sono stati una coppia di fatto. Anzi, sono stati molto di più.

«Siamo stati marito e moglie» dice Bertolucci, nemmeno lontanamente sfiorato dal timore che la sua ironia venga fraintesa.

I due si annusano la prima volta a Cesenatico, nel 1961. Paolo ha undici anni, Panatta dodici. Si detestano subito amabilmente. Lo trovai insopportabile, confessa Bertolucci. Arrivano entrambi in finale, la vince Adriano. E si innamorano.

«A Formia ci misero nella stessa camera, da settembre a maggio. Facevamo discussioni lunghissime e lui aveva sempre torto. Allora nel doppio il compagno abituale di Panatta era Pietro Marzano, Belardinelli ci inventò in una sfida Under 23 con la Polonia. Ebbe il coraggio di schierarci nel match decisivo. Lo vincemmo e non ci lasciammo più».

Tra i due si instaura immediatamente un rapporto esclusivo, elitario, anche un po’ classista. Una condizione che esalta la sua rappresentazione plastica nei giorni della Coppa Davis. Panatta e Bertolucci vivono in un mondo a parte, inaccessibile agli altri. Troppo lontano per origini Zugarelli: «Grande giocatore assorbito da un eterno combattimento con il mondo intero». Troppo diverso nell’indole Barazzutti: «A me e Adriano piaceva divertirci, visitare un museo, spendere generosamente. Corrado era parco in tutte le cose, nelle confidenze come nei gesti. Credo non ci abbia mai offerto neppure un caffè, quando si entrava in un bar indugiava qualche istante sulla soglia fingendo di allacciarsi una scarpa mentre noi andavamo alla cassa». Troppo antagonista nell’orgoglio e nella presunzione capitan Pietrangeli.

«Non ho mai avuto un’ostilità personale e preconcetta nei confronti di Nicola, anzi, se abbiamo vinto in Cile gran parte dei meriti sono suoi, della sua cocciuta determinazione senza la quale non ci saremmo mai imbarcati per Santiago. Ma il problema era la sua ingordigia. Nei momenti in cui la squadra si guadagnava una torta che avrebbe dovuto essere suddivisa in cinque parti uguali, com’era nel caso della Davis, lui tentava di tenere per sé almeno tre fette. Questa sua voracità al tavolo del successo ci indispettiva, lo confidammo spesso a Belardinelli che era il nostro vero allenatore. Si venne a creare ben presto un clima di rivalità latente che salì in superficie nella stagione successiva alla vittoria in Cile, nonostante avessimo raggiunto un’altra finale poi persa in Australia. A Firenze, quando la rottura tra noi e Pietrangeli apparve definitiva e non più rimarginabile, anche a causa del suo cattivo rapporto con la Federazione, fui io a prendere la parola semplicemente perché mi accorsi che nessuno dei miei compagni avrebbe avuto la forza di farlo. Non c’era nessun accordo preventivo tra di noi. Ricordo che gli dissi più o meno così: Guarda Nicola, purtroppo si è creato un clima difficile, abbiamo perso la serenità di gruppo, la squadra è qui per dirti che dobbiamo cambiare il capitano. L’avventura assieme era finita e il rancore sarebbe destinato a durare a lungo».