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In uno sport individuale e quasi claustrofobico come il tennis la specialità del doppio rappresenta un antidoto contro il solipsismo, ma non solo quello. Il doppio è il dimezzamento dello spazio, quindi della corsa e della fatica. Paolo Bertolucci ha la pigrizia del panda, animale che se costretto a muoversi non supera i venti metri l’ora, e Panatta è l’albero al quale si àncora e del quale si nutre.
Il doppio è il «topos» dell’amicizia, un perimetro fisico delimitato da misure prestabilite entro cui si può esercitare un sentimento omerico. Ma anche il suo contrario. Ci sono state grandi coppie, prima fra tutte quella formata dai sudafricani Bob Hewitt e Frew McMillan, che in campo non si rivolgevano la parola e fuori si evitavano accuratamente ma che in partita sublimavano l’odio reciproco in una perfetta sinfonia di gesti, spostamenti, controllo del territorio, dominio psicologico sugli avversari.
Il filosofo Carlo Magnani nel suo saggio Filosofia del tennis cita Cervantes: «Dal proprio letto si può immaginare un mondo intero in cui ogni cosa ha almeno due profili, uno diritto e uno a rovescio, come dimostrano i celebri mulini trasformati in mostri tra realtà e inventiva. Che formidabile tennista sarebbe stato Don Chisciotte della Mancha! Il suo legame con Sancho non richiama forse un fenomenale doppio? I due si sarebbero integrati a vicenda, sia nel fisico che nella indole morale. Uno alto e magro e l’altro più in carne; uno creativo e l’altro concreto; uno propenso all’attacco e l’altro alla difesa; uno per l’utopia e l’altro per il disincanto della realtà. A questo punto il gioco è fatto. Non è certo difficile ritagliare e sovrapporre ai celebri personaggi del romanzo una qualunque delle foto che mostrano Adriano Panatta e Paolo Bertolucci sorridenti prima di una sfida di doppio in Coppa Davis: la narrazione non cambierebbe di molto».
In realtà nelle fotografie giovanili, quando i due sono spesso immortalati assieme ad altri ragazzi del centro di Formia, Panatta sceglie di preferenza una posizione defilata, l’espressione fintamente corrucciata che oscilla tra la timidezza e l’insofferenza. Bertolucci, che è già il più piccolo e rotondo della compagnia, è invece sempre in primo piano ed esibisce un sorriso spensierato e uno sguardo acceso che sembra puntato verso l’altrove, un paesaggio ricco di piaceri alternativi. Il suo spirito di bon vivant si va precocemente formando. Per uno alto un metro e settantacinque centimetri costretto a far correre (per modo di dire) un peso di ottantadue chili il regime di convivenza sportiva rappresenta lo stato di famiglia ideale: divisione delle responsabilità, libertà per ciascuno di coltivare i propri interessi e lealtà coniugale non asfissiante.
Un matrimonio, il loro, che si può definire felice, confortato dal bilancio finale. In carriera Bertolucci si è aggiudicato sei titoli di singolare e ben dodici di doppio, specialità nella quale conta 718 vittorie, un palmarès straordinario, e solo 120 sconfitte. In Davis, sempre in doppio, ha disputato trenta incontri con la maglia della nazionale italiana, perdendone appena otto. Mario Belardinelli, che era solito coniare un epitaffio per ognuna delle sue creature, a Paolo disse che in sala parto «Barbetta» con lui aveva esagerato nel dosare il talento, così pensò di riequilibrare il genio affibbiandogli un fisico da schiappa. Bertolucci non ha mai forzato la sua natura patendo non poco i sacrifici ai quali era costretto a sottoporsi nel tentativo, il più delle volte scostante e infruttuoso, di disciplinarla.
«Io giocavo meglio i colpi di rimbalzo, Panatta era un mago della volée; io preparavo il punto da fondo campo, lui entrava a rete, faceva il numero del “puffo” e si prendeva gli applausi del pubblico. Il bastone del comando era nelle sue mani, a me bastava funzionare da ammorbidente per le sue ansie, per il suo vizio di rompere continuamente i coglioni. Ero persino troppo tranquillo, sfioravo l’atarassia. Adriano mi chiamava “il Muto”. A lui spettavano le luci della ribalta, io mi accomodavo nel cono d’ombra, ma non è mai stato un problema. Ricordo che in un torneo indoor che si disputava all’Albert Hall di Londra, il pubblico cenava durante le partite e noi in campo sentivamo il tintinnio dei calici di champagne, lo speaker ci presentò così: “Adriano Panatta, uno dei ragazzi più belli d’Europa, e Paolo Bertolucci, The Shorter”. Ci siamo schiantati a terra dal ridere. Quanto ci siamo divertiti, facevamo parte di un club esclusivo assieme a Fleming-McEnroe, Newcombe-Roche, Hewitt-McMillan, Năstase-Ţiriac e Gottfried-Ramírez».
«Abbiamo anche litigato molto, come succede nelle unioni migliori e più durature. Una volta, in America, per quattro giorni non ci siamo rivolti la parola. Nemmeno ricordo il motivo del contrasto. Il quinto giorno lo affrontai: Se non la smetti, gli dissi, ti spacco la faccia».