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Si ritrovano a muso duro anche a Santiago del Cile, alla vigilia del doppio che avrebbe consegnato all’Italia il terzo e decisivo punto della finale.
Nella valigia hai una maglietta rossa?, gli domanda Adriano.
Lui risponde che, certo, l’ha portata, una Fila interamente rossa tranne quella sottile elle rovesciata blu del logo cucito appena sopra il cuore.
Allora domani te la metti, gli intima Panatta mentre stende sul letto la sua polo rossa, stirandola con il palmo delle mani.
Bertolucci in politica era – ed è – un moderato, un elettore di centro. Ma in quegli anni è soltanto un ragazzo i cui pensieri sono assorbiti da un’attività sportiva priva di soste. A Santiago, qualche ora dopo il suo arrivo, rilascia una dichiarazione improvvida e ingenua con la quale elogia l’accoglienza ricevuta dall’organizzazione, gestita naturalmente dagli apparati del regime, e sottolinea la serenità del clima politico che si respira nella capitale cilena. Le parole rimbalzano nel catino delle polemiche italiane e Bertolucci viene liquidato con un giudizio feroce e tombale: uno stupido. In realtà la sua conoscenza di quelle terre non è per nulla superficiale. Paolone è infatti un affezionato frequentatore del circuito sudamericano. Si può dire, tra l’altro, che la sua seconda vita professionale di opinionista televisivo, ora per Sky, muove i primi passi proprio a quelle latitudini nella prima metà degli anni Settanta.
«Ogni novembre passavo due settimane in Argentina, poi altre due in Cile. Finito di giocare mi trasformavo in corrispondente per il Gr2, dalla radio mi chiamavano ogni sera, raccontavo un dettaglio della mia giornata, non solo sportiva. Sono sempre stato curioso, una caratteristica coltivata fin da piccolo. Acquistavo tre o quattro quotidiani, mi piaceva tenermi informato, confrontare gli orientamenti politici, sottolineare le differenze tra un giornale e l’altro. Ho cominciato a fare l’opinionista televisivo nel 1998, mi chiamò per primo Darwin Pastorin. Gli dissi: Si fa una prova, se non funziono mollo subito. Ci ho preso gusto, eccomi qui: non mi preparo, non entro in relazione con i giocatori, nemmeno un caffè al bar, la loro vita non mi interessa, mi limito a giudicare ciò che vedo sul campo. Quelle prime piccole esperienze giornalistiche mi divertivano, credo che di noi quattro io fossi il più bravo a guardare. In Argentina dopo il colpo di stato del 1976 c’erano militari ovunque, a Buenos Aires la repressione si percepiva nell’aria. Dall’albergo ai campi di allenamento mi capitava di superare anche più di dieci posti di blocco, un giorno mi sono messo a contare i soldati incontrati lungo il tragitto: sono arrivato a 250. A differenza di Videla, in Cile il tempo aveva giocato a favore di Pinochet, gli aveva consentito di dissimulare in parte il terrore. In Argentina ci sono state occasioni nelle quali ho avuto paura, a Santiago no. Apparentemente le condizioni per giocare erano garantite. Noi volevamo disputare quella finale a tutti i costi e se tornassi indietro di quarant’anni mi schiererei sullo stesso fronte di allora, senza il minimo dubbio».
Nella capitale cilena ritorna nel 1998, appena entrato in città risente gli stessi odori, si riempie gli occhi degli stessi colori, ma non ha il coraggio di ripercorrere le strade che dall’albergo che li ospitava conducono allo stadio del tennis. Men che meno desidera rivedere il campo centrale in cui andò in scena il loro trionfo. Ci sono luoghi che restano intatti solo nella memoria, con le loro emozioni, e poco importa se né gli uni né le altre si rivelano fedeli alla realtà del passato.
«Sapevo bene che cosa significava il colore rosso per il popolo cileno. Subito, l’idea di Adriano mi spaventò. Pur di vincere avrei giocato anche nudo, ma quella provocazione mi sembrava pericolosa. Ma tu sei diventato completamente scemo, gli dissi: questi ci sparano, ci gambizzano o, nella migliore delle ipotesi, ci sbattono in galera. Ma lui non mollò, voleva trasmettere un modesto ma significativo messaggio politico e non voleva farlo da solo, così alla fine cedetti. Il giorno dopo non giocai una grande partita, la tensione era troppo forte. Al riposo, con il risultato che ci vedeva in vantaggio di due set a uno, gli dissi: Lo spettacolo è finito, rimettiamoci la maglietta blu. Al nostro rientro in Italia fummo ignorati, il Cavalierato ci venne consegnato quasi di nascosto, come se la nostra vittoria fosse stata una vergogna, come se fossimo tornati stringendo una coppa rubata. Nessuno ebbe l’onestà di riconoscere l’impegno profuso e i sacrifici fatti dalla squadra per guadagnarsi la finale, venimmo liquidati come ragazzi ricchi e viziati che con quel successo avevano lucrato un aumento sui contratti con gli sponsor. Un giudizio che ancora adesso mi amareggia».
Paolo Bertolucci si ritira nel 1983. Ha trentadue anni. La prima ambizione che vuole soddisfare è quella del cibo. Lo bracca da troppo tempo.
«Avevo un disperato bisogno di mangiare».
Parte in solitaria da Aosta e approda in Sicilia, a Aci Trezza. Un mese intero trascorso a tavola. Ingrassa di undici chili e due etti, finalmente liberato dalle catene di uno sport che lo ha costretto a forzare i suoi limiti fisici e a addomesticare per oltre quindici anni le sue voglie. Finalmente felice. A tennis non ha più giocato.