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Ventisette novembre 1976. Ragazze. Madri, figlie, sorelle sfilano nella notte per le strade di Roma. Alla sola luce delle fiaccole che ardono nel cielo scuro. Si tengono mano nella mano, si abbracciano, cantano, accennano a qualche passo di danza, sollevano bandiere di rabbia e poesia. Sono parole che fanno male, contengono anni di dolore. «Di giorno siamo disoccupate, di notte violentate». Si sono messe in cammino da piazza Esedra e da piazza Indipendenza, invadono festosamente la gradinata di Trinità dei Monti, raggiungono alla fine piazza del Popolo. Sono quasi ventimila. Protestano contro ogni tipo di maschilismo, di sopruso, di sfregio fisico e morale da parte degli «uomini padroni», chiedono di poter riconquistare il diritto di girare senza paura nelle città. Bengala verdi solcano il buio, musica e tarantelle.
Il massacro del Circeo risale a un anno prima. Il 29 luglio per i torturatori di Rosaria Lopez, uccisa a diciassette anni, e Donatella Colasanti, diciannove anni, segnata per il resto della sua esistenza, occhi grandi bellissimi che non potranno dimenticare, arriva la sentenza di primo grado. I neofascisti Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira (scappato in Spagna) vengono condannati all’ergastolo. Le cronache continuano a registrare un numero crescente di stupri e violenze, anche domestiche, nei confronti delle donne. Le ragazze hanno deciso di ribellarsi, è un’altra puntata di una lunga battaglia per la parità dei diritti che si trascinerà per decenni e che non si è ancora conclusa.
Il giorno dopo è una domenica. Nella sala del cinema Maestoso, al quartiere Appio, più di duemila persone partecipano a un incontro pubblico per il boicottaggio del viaggio della formazione italiana di Davis in Cile.
Nella settimana entrante si attende un pronunciamento del governo. La manifestazione, alla quale hanno aderito anche le principali sigle sindacali, intende fare pressione sull’esecutivo.
Nicola Pietrangeli sembra non avere dubbi e alla vigilia rende pubblico il suo pensiero: «Credo che il governo dirà che è meglio non andare, ma la questione vera è un’altra: Come possono proibirci di partire? Il governo può chiedere al Coni di bloccarci, il Coni a sua volta può tentare un’opera di convincimento sulla Federtennis, ma il Consiglio della Federazione si è già espresso all’unanimità, otto voti favorevoli su otto, sull’opportunità della trasferta».
Al cinema Maestoso si avvicendano al tavolo degli oratori il dirigente comunista Giancarlo Pajetta, il sindaco di Roma Carlo Giulio Argan, il presidente della regione Lazio Maurizio Ferrara, l’esponente del Psi Gabriele Moretti, Guillermo Torres, giornalista cileno in esilio e il cantante Domenico Modugno che di Pietrangeli è quasi coetaneo. Argan ricorda gli attentati compiuti su commissione della polizia segreta di Pinochet contro i dissidenti rifugiati all’estero, uno dei quali avvenuto proprio a Roma. «Vogliamo forse» dice «ricambiare queste vigliacche missioni politiche con un gesto di riconoscenza come quello di mandare i nostri tennisti a Santiago?». Lo sport oggi è cultura, aggiunge il sindaco, «ebbene nessun uomo di cultura, nessun artista, accetterebbe di partecipare a concorsi di qualsiasi natura nel Cile di Pinochet». È la ragione principale per la quale Argan invita il governo a «preservare gli italiani da contatti profondamente offensivi per la dignità del nostro paese, rapporti che ci contaminerebbero nella stessa misura in cui sarebbe riabilitata una dittatura».
Quando tocca a lui prendere la parola, Pajetta ribadisce che la vicenda più che etica è di natura squisitamente politica: «Se dopo una nostra eventuale decisione di partecipare alla finale il Cile potesse tornare a essere considerato nel consesso dei paesi liberi, la lotta che da anni i movimenti di liberazione dell’America latina e i profughi cileni stanno affrontando sarebbe di colpo vanificata».
Gli applausi riempiono il cinema. Per la prima volta in Italia una partita di tennis diventa infuocato terreno di scontro politico sullo sfondo di una tragedia internazionale. A ben vedere, nulla di sorprendente. Intorno alla metà degli anni Settanta, infatti, sotto l’occhio dei giornali e soprattutto delle tv che amplificano ed enfatizzano le gesta dei suoi campioni, il ruolo e la rilevanza sociale dello sport – di quasi tutte le discipline sportive – entrano di prepotenza nella sfera dell’interesse, e del desiderio, di una parte sempre più estesa della popolazione, premessa di quella che diverrà una pratica di massa. Se in America ci sono intellettuali che sostengono come gli sport siano arrivati a essere «la nostra religione principale», in Italia Pier Paolo Pasolini scrive che, mentre persino la messa è in declino, il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo: «È lo spettacolo che ha sostituito il teatro».
Il 7 novembre l’Itf esclude per un anno l’Unione Sovietica dalla Coppa Davis. La punizione viene comminata a seguito del rifiuto di affrontare il Cile nella semifinale interzone. I capi del tennis mondiale applicano alla lettera il regolamento della competizione: Chi si iscrive accetta implicitamente all’atto dell’adesione di incontrare tutti i paesi che sono stati ammessi alla gara. I russi vengono squalificati anche dalla Federation Cup, l’equivalente femminile della Davis, per essersi ritirati dalla fase finale di Philadelphia in segno di protesta contro la presenza di Rhodesia e Sudafrica. La stessa sorte tocca a Cecoslovacchia, Ungheria e Filippine. Il Comitato direttivo dell’Itf, riunitosi a Parigi, manda anche un minaccioso avviso all’Italia: non fate scherzi, a Santiago la squadra azzurra deve giocare.
Qualche giorno dopo la Federtennis rompe gli indugi e convoca Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli per il 5 dicembre. Il segretario della Fit, Gianfranco Cameli, illustra i dettagli della spedizione sudamericana come se ogni ostacolo fosse stato rimosso: «Dall’8 al 13 dicembre i ragazzi disputeranno un mini torneo a Mendoza organizzato da alcuni amici argentini. Un allenamento che ci servirà a sciogliere la tensione della vigilia. Credo che Mendoza sia la sede perfetta, si trova a mezz’ora di volo da Santiago, ha la stessa altitudine, cinquecento metri sul livello del mare, e il medesimo clima che a dicembre equivale alla nostra primavera inoltrata».
Mentre il Cile festeggia – «Lo sport ha finalmente battuto la politica» titolano i giornali – in Italia il Coni e la Fit finiscono nel mirino dei partiti della sinistra e di un numero crescente di associazioni civili che condannano la scelta di legittimare con la presenza a Santiago un regime fascista che ha utilizzato gli impianti sportivi come luogo di tortura e perseguitato atleti famosi nel calcio e nel ciclismo. Il Pci di Berlinguer e il Psi di Craxi, che non cambierà atteggiamento sino alla fine nel tentativo di mettere in difficoltà proprio il segretario comunista, chiedono al governo di impedire il viaggio della nazionale.
La Rai annuncia che non manderà inviati e telecamere a Santiago. «Non è un obbligo trasmettere Cile-Italia» dice Andrea Barbato, direttore del Tg2, la testata alla quale per la regola dell’alternanza (la Rete 1 ha seguito la semifinale con l’Australia) toccherebbe la diretta della finalissima. «L’idea che dal Cile, per tre giorni, ci arrivino immagini scelte dal regime di Pinochet ci ha fatto sorgere molte e decisive perplessità. Potremmo vedere bandiere che garriscono e gente plaudente, scene che darebbero una falsa idea del Cile, quella cioè di un paese felice e in festa. Non bisogna poi sottovalutare che la platea del tennis, sport che apprezzo e di cui sono praticante, non è vastissima e il suo pubblico televisivo si può definire discretamente numeroso ma non eccezionale. Andare in Cile ci espone al rischio di una manipolazione politica esterna, scenario che voglio evitare».
Quando il Pci si schiera formalmente per il boicottaggio al termine di una riunione convocata da Berlinguer e alla quale prendono parte Sergio Segre, Gianni Cervetti, Antonio Tatò e il responsabile per lo sport della Direzione Ignazio Pirastu, e il ministro degli Esteri Arnaldo Forlani traccheggia in bello stile democristiano – «se il governo dovesse propendere collegialmente per il no si troverebbe ad assumere in futuro lo stesso atteggiamento nei confronti del settanta per cento dei paesi che non offrono garanzie di libertà e di rispetto delle persone» –, per due volte un gruppo di dimostranti, tra i quali una quarantina di militanti dell’estrema sinistra, guidato dal parlamentare di Democrazia proletaria Eliseo Milani, occupa gli uffici della Federtennis in viale Tiziano.
I manifestanti hanno con sé bandiere cilene che vengono esposte alle finestre della Federazione e agitano striscioni e cartelli sui quali sono state disegnate racchette con il filo spinato al posto delle corde. Gli slogan accomunano il «Panatta milionario» al «Pinochet sanguinario» e suggeriscono strategie tecniche alternative: «Un nuovo modo di fare il primo set: sparare a Pinochet». Qualcuno testimonia di scontri fisici sfiorati e di macchine da scrivere che vengono gettate in strada.
Il criminale nazista Herbert Kappler, responsabile dell’eccidio alle Fosse Ardeatine, è appena stato scarcerato per presunti motivi di salute (e il 5 agosto 1977 riuscirà a fuggire dall’ospedale militare del Celio e a rifugiarsi con la moglie in Germania), una decisione scandalosa che fa lievitare ancor più la tensione attorno alla squadra di Davis e inasprisce le critiche contro un governo che si rivela pallido e titubante. Il giornale «Lotta Continua» titola addirittura così un suo editoriale: «Trattano con i boia perché in realtà sono loro colleghi. Contro Kappler e Pinochet si misura il nuovo antifascismo». Craxi pressa Andreotti da vicino e anche Berlinguer sulla questione cilena pare deciso a non mollare. «Sul caso Kappler» confessa in una riunione ristretta alle Botteghe Oscure «non abbiamo sparato a zero, sbagliando. Ma se ora mostriamo di non essere capaci di evitare un altro atto fascista rischiamo di perdere credibilità anche per i nostri impegni più importanti».
L’ultimo atto della Coppa Davis è entrato a pieno titolo nei giochi dei partiti, tra inimicizie personali e alleanze di schieramento. Andreotti e il Coni di Onesti e Pescante sperano ancora, ma tiepidamente, nella soluzione del campo neutro, si potrebbe giocare in Argentina o in Brasile. Si tratta, tuttavia, di infilarsi in un vicolo cieco perché le autorità cilene, fiutata l’aria che tira, si affrettano a confermare la loro indisponibilità, mettendo sul tavolo ragioni di «prestigio olimpico». Una posizione di estrema fermezza che viene confortata dalla presidenza del comitato organizzatore della Coppa Davis con uno stringatissimo e intransigente telegramma inviato alle federazioni dei due paesi: «Riteniamo che non esistano i presupposti per tale soluzione».
Adriano Panatta è appena tornato da Copenaghen, dove è stato sconfitto sia da Borg sia dal polacco Fibak e sta preparando la valigia per l’America. È indispettito, annoiato. «Parto per Las Vegas» dice «senza sapere se affronteremo il Cile o se saremo costretti a rinunciare a una finale storica. Un no del governo andrebbe accettato, anche se significherebbe una grossa limitazione alla nostra libertà personale e intellettuale». Racconta di avere ricevuto molte lettere di tifosi che lo incoraggiano a «onorare la patria giocando» e di ragazzi che lo fermano in strada pregandolo di non andare a Santiago in omaggio alla democrazia. Lui, vicino al Psi, dice: «Sono giovani che hanno convinzioni politiche simili alle mie, ma credo che alla fine di questa bufera il governo Andreotti, pur tenendo conto del sentimento popolare prevalente, non potrà impedirci di disputare l’incontro con la squadra cilena. Una cosa però è certa fin da ora: tutti, dico tutti gli italiani, hanno contribuito a creare le condizioni psicologiche per farci giocare male, rischiamo di perdere un match che sulla carta dovremmo vincere con facilità».
Non c’è giorno che Nicola Pietrangeli, personaggio che sa scegliere con cura i propri nemici, non sia sui giornali o in tv a difendere i suoi ragazzi, «democratici insospettabili» che non vivono affatto con gli occhi chiusi dentro il mondo ricco e dorato del tennis: «Avremmo preferito un avversario meno discusso e scomodo ma non è stato così e non possiamo comportarci in modo diverso da quello impostoci dai regolamenti. Come sportivi sappiamo di essere a un passo dalla Davis e siamo convinti che una nostra vittoria avrebbe una grande influenza sulla diffusione a livello popolare del tennis in Italia. L’unico a doversi ancora esprimere è il governo a cui spetta la responsabilità politica dell’ultima decisione. Non può più tacere. Abbia il coraggio di pronunciarsi, non esponendo solo noi della squadra al rischio dell’impopolarità e di una aggressione morale che non meritiamo».
Sul «Corriere della Sera» Enzo Biagi scrive: «Se gli italiani, per disprezzare una dittatura, hanno bisogno di ricorrere a Panatta, significa che hanno sprecato trent’anni». Anche da Oltretevere giunge soccorso al papalino Giulio Andreotti. Radio Vaticana liquida così il movimento anti-Davis: «Uno stato d’animo forzato ad arte. Il problema non sarebbe stato neppure sollevato se al posto del Cile ci fosse stata una nazione più potente e di un’altra colorazione politica. È necessario, adesso, difendere lo sport dalle ingerenze dei partiti, altrimenti ci ritroveremo a giocare nel nostro cortile di casa».
A fine novembre la Banca Mondiale concede alla giunta militare cilena un prestito di sessanta milioni di dollari con il voto favorevole degli Stati Uniti (il democratico Jimmy Carter ha appena vinto le elezioni scalzando Gerald Ford ma non si è ancora insediato alla Casa Bianca) e della Germania Federale. Si astengono Francia, Gran Bretagna, Belgio, Jugoslavia e Italia. Augusto Pinochet in una intervista alla tv colombiana esclude il ritorno nel suo paese di ogni forma di democrazia rappresentativa e propone lo scambio di tutti i prigionieri politici con Cuba e Unione Sovietica.
Nelle fabbriche italiane sette milioni di lavoratori sono in sciopero per una dura vertenza con Confindustria su scala mobile, investimenti e ripresa produttiva. Il film Pasqualino Settebellezze, con Giancarlo Giannini, ottiene quattro candidature all’Oscar. Lina Wertmüller è la prima regista donna a concorrere al premio.