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Corrado Barazzutti è poco più di un bambino quando scopre la pesca nelle albuminose acque invernali del Tanaro alessandrino. Durante la regolare stagione della pesca è un’avventura quasi quotidiana. Non è lì soltanto per le carpe e i cavedani. Gli piacciono la solitudine e l’energia nascosta dentro le quali scorre il fiume, i rami degli alberi che si chinano sull’acqua come se desiderassero berla anche con le foglie, il volo bruno delle anatre e la compagnia, a volte rassicurante altre volte tormentosa, dei suoi pensieri. Sulla sponda del Tanaro, a differenza di quanto si potrebbe presumere dalla sua biografia, non impara la pazienza ma a dissimulare il suo contrario.
«Quand’ero ragazzo ero incazzato nero e credevo di avere un sacco di motivi per trovare una giustificazione alla mia rabbia. Non ho più voglia di ricordare le ragioni di quel mio stato d’animo. Forse la famiglia povera, gli studi che desideravo e non ho completato, l’università che avrebbe fatto felice mia madre. Invece sono diventato soltanto un disegnatore edile. Quaranta ore la settimana per tre anni, una sofferenza, così dopo il diploma mi sono detto ora per un po’ prova a giocare a tennis».
A Alessandria il circolo è davanti a casa, certe domeniche d’estate Corrado abbandona il pallone e vi si affaccia con un compagno di giochi. È un posto pulito, nessuno grida, i rumori dell’attività sportiva rimbalzano ovattati nell’aria, i frequentatori sono eleganti o si sforzano di apparire tali, dopo la partita si attardano al bar per un drink o una mano di scala quaranta.
«Un giorno alcuni soci ci chiedono se vogliamo provare a tirare qualche palla. Accettiamo. Non ho più smesso. Da allora ho lasciato che le cose succedessero, ho seguito il loro corso come il fiume. Non programmavo nulla, mi incuriosiva guardare come le situazioni si evolvevano, cercavo di capire giorno dopo giorno qual era la strada migliore da prendere».
Lo adotta il maestro Giuseppe Cornara. Lo plasma tecnicamente, non ha bisogno di insegnargli la tenacia. Appena diciassettenne vince l’Orange Bowl, competizione alla quale partecipano i giovani più promettenti del circuito tennistico mondiale. Soltanto cinque anni dopo toccherà a lui aprire la finale di Coppa Davis a Santiago con il numero uno cileno Jaime Fillol. Lo batte in quattro set. Realizza una grande impresa, posa la prima pietra di quello che sarà un successo storico per il tennis italiano.
«La paura mi paralizzava, non mi era mai accaduto prima, ho cominciato in maniera disastrosa, non riuscivo a respirare, mi sono liberato dall’angoscia solo all’inizio della quarta partita. Dopo, negli spogliatoi, mi sono buttato sulla panca accanto a Panatta che si stava cambiando per disputare il secondo incontro contro Cornejo. Adriano è nervoso, spaventato: Guarda, mi confessa, ho le gambe che tremano. Eravamo una squadra giovanissima, ragazzi che sono stati catapultati all’improvviso in una storia molto più grande di loro. Ricordo che furono due mesi molto brutti. Minacce, insulti, telefonate anonime, intimidazioni sui giornali. Nonostante ciò nessuno di noi ha pensato, nemmeno per un minuto, che stavamo sbagliando, che sarebbe stato meglio rinunciare a quella finale. I politici si comportarono come parassiti, si impossessarono di un grande evento sportivo con l’intenzione di piegarlo ai loro interessi di bottega. Fu una speculazione, la Coppa Davis venne usata come terreno di scontro, prima tra la sinistra e il governo democristiano di Andreotti, poi tra il Psi di Craxi e il Pci del compromesso storico teorizzato da Berlinguer. La questione cilena avrebbe dovuto essere risolta da chi stava a Palazzo Chigi e in Parlamento. Si preferì gettarla sulle nostre spalle. Avevamo poco più di vent’anni, fu una manovra ipocrita e disonesta. Ha ragione Pier Paolo Pasolini quando nei suoi Scritti corsari afferma che «il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia». Io ne discussi con la mia coscienza, lo stesso fecero i miei compagni. Volevamo andare a Santiago per battere Pinochet e la sua giunta e per scolpire il nome dell’Italia sull’insalatiera d’argento della Davis, impedendo al regime di un dittatore fascista di guadagnarsi a tavolino un’altra medaglia propagandistica. Eravamo consapevoli di essere più forti della squadra cilena, la possibilità che per loro non ci fosse partita era molto elevata. Alla fine Pinochet ha perso, con il tempo e la lotta democratica il Cile si è liberato di lui».
Due anni dopo quella finale, a venticinque anni, Barazzutti raggiunge la settima posizione nella classifica mondiale. In singolare vince cinque titoli e perde ben otto finali, tre delle quali contro Björn Borg, la sua bestia nera, l’unico che riesce a spezzare la spirale infinita del suo gioco. Si laurea campione italiano per sette anni di fila, dal 1976 al 1982. Nel 2001 viene nominato capitano della nazionale maschile, un anno dopo anche di quella femminile. Avrebbe dovuto accomodarsi sulla sedia della Davis già nel 1997, ma rifiuta per un gesto di lealtà nei confronti di Adriano Panatta, appena scaricato dai vertici della federazione. Conosce il gravame dell’irriconoscenza, avverte ancora il dolore di fine carriera, una maledetta epatite subito dopo il ritiro, la sensazione di essere stato abbandonato dal circo perché non più utile come un vecchio leone spelacchiato e facilmente irritabile, la ribellione giovanile che riaffiora brutale, ma quale pazienza, altro che fantaccino tutto disciplina e abnegazione, uno sfogo di cui più avanti si pentirà pubblicamente: Avrei potuto morire e non sarebbe importato a nessuno, dice. Ma è un uomo che sa chiedere scusa. Venuto al mondo a Udine, in una sera d’inverno, si sente friulano, un furlan del ceppo diffidente eppure capace di grandi improvvise allegrie.
«Sono sempre stato considerato un orso, non ho mai capito perché. Chi mi conosce bene sa che ho un carattere schivo ma non ombroso. In una società nella quale sembrano contare solo la furbizia, la presunzione e l’apparenza, ho semplicemente cercato di stare al mio posto e di avere rispetto per le opinioni altrui. Credo nella famiglia, ho educato i miei figli nel solco di ciò che mi hanno insegnato i miei genitori: mia madre la determinazione, farei meglio a dire la testardaggine, e un grande senso di responsabilità; mio padre, che era un agente della polizia stradale, l’onestà. Al giorno d’oggi sembrano valori obsoleti, caduti in prescrizione. E io, che sono un moderato di sinistra molto, molto deluso, in questo mondo mi sento ancora adesso un marziano».
Mandrogno, Barazza, Barracuda, Soldatino. Lo hanno chiamato in tanti modi. Era soprattutto un solitario impegnato in una eterna partita con sé stesso. Fu uomo squadra senza essere amato dalla squadra, così chiuso, riservato, spesso scontroso per naturale timidezza.
«Zugarelli è un amico, era il mio compagno di doppio preferito. Di noi quattro quello dotato di maggiore talento. Con Panatta, Bertolucci e Pietrangeli ho avuto molte incomprensioni. Eravamo troppo diversi, avevamo idee opposte praticamente su tutto. Non sopportavo i comportamenti di Nicola, quella sua aria con cui sembrava che ogni parola cadesse dall’alto, l’abitudine di rivolgersi a me con quel suo odioso “Ehi, a ragazzi’”. Ogni rancore è passato, oggi gli voglio bene. Siamo diventati entrambi vecchi e saggi».