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Incontro Barazzutti al Tennis Club Garden delle Capannelle, qualche centinaio di metri dopo Cinecittà. Fa lezione a Ginevra, un’adolescente alta e secca di tredici anni arrivata da Perugia con i genitori. Ha smontato completamente il suo gioco, dice la madre. Vuole ricostruirla prima di consentirle di riprendere l’attività agonistica. Stop ai tornei dunque fino al termine della ristrutturazione tecnica. Corrado si muove in campo con l’identica leggerezza astuta di quarant’anni or sono. La preparazione del dritto è ampia, il rovescio preferibilmente in back, dall’alto in basso. Le unghie affilate del tempo sembrano non avere scarnificato muscoli e tendini. Figuriamoci la testa. Nel 1997 ha scritto un libro in collaborazione con lo psicoterapeuta Vincent Kenny, si intitola La forza interiore nel tennis e nella vita. L’intento era quello di misurare l’interferenza dello stato emotivo nella prestazione fisico-atletica del tennista. L’obiettivo segreto quello di verificare la possibile realizzazione della macchina perfetta, l’empatia tra il corpo e la psiche, l’inseguimento del proprio io. Facile immaginare il campione che rincorre il suo doppio. Era già accaduto molto tempo prima, ma allora dall’altra parte della rete il nemico era sì una sua copia conforme però con un altro nome e un’altra faccia. Era il suo io ombra.
È lo spagnolo José Higueras. Pepe Higueras è di soli dodici giorni più giovane di Corrado. È stato numero sei del mondo, ha vinto sedici tornei Atp e, terminata la carriera da giocatore, ha allenato gente del calibro di Jim Courier, Michael Chang, Todd Martin, Pete Sampras, Carlos Moyá e Sergi Bruguera. Lui e Barazzutti si sono combattuti passando attraverso uno specchio per un decennio, consumandosi in una estenuante sfida intimistica fatta di palleggi monotoni e sfiancanti anche per il pubblico, spinti ben oltre il limite della disperazione. Ogni volta era come se qualcuno li aizzasse uno contro l’altro come due cani. In diciassette testa a testa, con un bilancio nettamente a favore di Higueras, sono rimasti in campo quasi ottanta ore. In media ogni loro incontro è durato quattro ore. Dritto, rovescio, dritto, rovescio, dritto, rovescio. Il ritmo sempre uguale scandito da un metronomo, rarissimi attacchi vincenti, due Edmond Dantès prigionieri nel castello d’If di un tennis che rifletteva il carattere accidentato dei suoi autori e che rappresentava la dimensione plastica di uno sport dove il risultato può tendere all’infinito. Nessuno dei due è diventato il Conte di Montecristo.
«I miei colpi mancavano di potenza, un problema al quale dovevo sopperire in qualche modo riducendo i margini di errore e costringendo il mio avversario a sbagliare per primo. Sono stato un giocatore lucido, severo, perfezionista e presuntuoso. Fai la cosa giusta al momento giusto era il mio mantra e la mia ossessione. Sono rimasto un appassionato di tecnica, il tennis è uno sport di dettagli, se sai guardarlo in un certo modo e sei capace di apprezzarne i particolari, non ti annoierà mai, non importa se davanti agli occhi hai una discesa a rete di Federer o uno scambio di cinquanta colpi da fondocampo tra Nadal e Ferrer».
Il potenziamento muscolare, l’alimentazione e la preparazione atletica hanno ridisegnato, salvo rare eccezioni, il fisico dei tennisti. La tecnologia a sua volta ha rivoluzionato corde e racchette consentendo ai giocatori di colpire sempre più forte, di difendersi meglio, di recuperare palle che un tempo sarebbe stato impossibile raggiungere anche solo con il pensiero e di imprimere rotazioni esasperate sia al servizio sia agli scambi coast to coast. I pallettari non esistono più, basta pensare alle incredibili doti di contrattaccante sfoggiate da un tiramolla del calibro di Nole Djoković, e che la palla di Rafael Nadal compie fino a cinquemila giri al minuto, più del doppio della velocità che facevano registrare pochi anni or sono due numeri uno come Pete Sampras e Andre Agassi. O, ancora, che il rovescio a una mano dello svizzero Stan Wawrinka, il migliore del circuito assieme a quello del francese Richard Gasquet, sfiora i centocinquanta chilometri orari.
«Eppure il cuore di questo sport per me resta l’immaginazione. L’invenzione – una smorzata, una demi-volée, una veronica, un passante incrociato stretto tirato dall’angolo più lontano della propria metà campo – è ciò che lo rende diabolico e crudele. Ho sempre pensato che in realtà un incontro di tennis sia paragonabile a un corpo a corpo tra due gladiatori nel Colosseo o al combattimento senza esclusione di colpi tra pugili su un ring».
La boxe è l’arte virile dell’autodifesa, colpisci senza farti colpire è una regola che vale anche per il tennis. Ogni incontro, come ogni combattimento, è una lotta per la sopravvivenza. E, come nel pugilato, la magia del fuoriclasse che fa impazzire il pubblico sta nell’essere elegante e spietato. I tennisti, come i pugili, cercano di colpire il cervello dell’avversario e il loro obiettivo finale resta il ko. Un ace, una volée definitiva, il game perfetto con il nemico lasciato sui blocchi di un umiliante zero punti. Si spiega solo così il fascino esercitato dalla cattiveria stilistica, appunto, di un Roger Federer. Il suo genio del corpo.
«Ecco perché mi piace ancora l’odore di questo mondo e perché ricordo solo le partite che ho sofferto e le sconfitte che mi hanno visto uscire dal campo a testa bassa eppure applaudito con la stessa empatia che suscita un pugile coraggioso finito al tappeto».
In quel favoloso 1976 Barazzutti perde in Davis una sola partita, al Foro Italico opposto all’australiano John Alexander. In svantaggio di due set riesce a issarsi fino alla parità, ma gli è fatale un annebbiamento mentale nei primi tre giochi della quinta frazione. Trattiene a fatica la rabbia. Non frantuma l’ennesima racchetta perché in quel pomeriggio non gliene rimangono più.
«Mi è mancata una grande vittoria ma non ho rimpianti. Mi sforzo di stare lontano dalla nostalgia, anche se a volte la presenza della nostalgia può essere piacevole. Sono cresciuto ascoltando i dischi di Lucio Battisti e Alan Sorrenti, risentirli oggi mi mette tristezza. Ho smesso di farlo e ho smesso anche di scavare più in generale nel passato. Mi fa sentire più vecchio di quello che sono, amplifica nella mia testa il tic tac del tempo che scivola via».