26
Trentuno dicembre 1976. È arduo trovare un motivo per festeggiare il 1977 che si sta affacciando minaccioso su un paese nel limbo, su una generazione che, nata alla fine della Seconda guerra mondiale, sta conoscendo un altro conflitto, una guerra civile vera e propria. Alle otto e mezzo di sera le gambe di Raffaella Carrà sembrano non finire mai sullo schermo del televisore, quando si esibisce per l’ultima volta in un balletto per la réclame dello Stock 84. È la puntata di addio a Carosello. La pubblicità volta pagina, serve più velocità e grinta, una massa di nuovi prodotti dalle grandi promesse vogliono invadere le case delle famiglie piccolo borghesi invitate al consumismo e a una finta allegria dalla logica mercantile. Andreotti deve vendere agli americani l’idea che l’economia riparta. Eppure la Raffa nazionale tradisce un filo di inquietudine quando fa agli italiani gli auguri di «buon anno e buon lavoro».
Il bianco e nero delle immagini è grave, cupo, non restituisce i desideri della vita reale ma forse si adegua allo stato d’animo del paese. Il lavoro è poco, la disoccupazione continua a crescere, molte imprese hanno chiuso, nelle grandi aziende del Nord si lotta, il terrorismo s’infiltra ovunque, la sua propaganda fa proseliti nelle fabbriche e nel proletariato giovanile. Di notte aumenta il numero dei senzatetto che dormono in strada.
Il 7 dicembre a Milano durissimi scontri di piazza ritardano la prima della Scala blindata da uno schieramento di cinquemila carabinieri in assetto antisommossa. La città borghese è dentro il teatro, Mirella Freni e Placido Domingo sono i mirabili interpreti dell’Otello di Verdi messo in scena da Franco Zeffirelli, l’orchestra è diretta da Carlos Kleiber, i biglietti sono costati fino a centomila lire l’uno e alla conclusione dell’opera, trasmessa per intero a colori dalla Rai, alla compagnia vengono tributati tredici minuti d’applausi.
Fuori, l’altra città incendia la piazza. Centinaia di giovani riuniti nei «circoli del Proletariato», l’avanguardia di quella che diventerà l’ala più radicale dei centri sociali, al grido di «vogliamo farvi paura» scendono in campo contro lo Stato e rivendicano una sorta di consumismo per tutti. Il «Corriere della Sera» si affretta a definire il movimento che si affermerà nel ’77 una «jacquerie urbana senza bandiere». Il primo dicembre, giorno in cui la Fiat annuncia che la Libia del colonnello Gheddafi entra nel capitale della società torinese con un investimento di 415 milioni di dollari, risultato di una trattativa segreta durata diciotto mesi, quegli stessi ragazzi avevano «dissotterrato l’ascia di guerra» occupando la Statale e impossessandosi con un esproprio proletario del bar e della mensa dell’università.
Nelle stesse ore, a Roma, il segretario del Psi Bettino Craxi spinge all’angolo il presidente del Consiglio Giulio Andreotti reclamando un’immediata decisione del governo su Cile-Italia e insistendo sull’ineluttabilità di un no. Il ministro degli Esteri Forlani è negli Stati Uniti. Andreotti finge un colpo di copertura – affida un sondaggio politico di disturbo al fedelissimo Franco Evangelisti – e ne sferra un altro, mandando avanti Flaminio Piccoli che si dichiara favorevole alla trasferta in Cile. Secondo il capogruppo Dc alla Camera bisogna andare fino in fondo per salvaguardare «la libertà del messaggio sportivo». È una dichiarazione che in buona sostanza anticipa il verdetto.
A volte la troppa prudenza si trasforma in un altro genere di imprudenza. La squadra è smembrata e confusa. Panatta si trova in America, sfiorato dall’idea di inventarsi un malanno diplomatico e rinunciare alla finale, Bertolucci è già a Santiago dove, nel torneo di casa che sarà appannaggio dello spagnolo Higueras, menomato da un attacco allergico, perde al primo turno con Álvaro Fillol, la riserva della nazionale cilena, Barazzutti e Zugarelli sono in attesa di sapere se partiranno oppure no per il Sudamerica. Pietrangeli sollecita una rapida conclusione della vicenda per evitare un’ulteriore pubblicità a Pinochet e racconta che sua madre, russa, ha «rotto» con Mosca e gli ha concesso il permesso di andare in Cile. I giornali non perdono occasione per criticarlo.
Eugenio Scalfari su «Repubblica», quotidiano che ha esordito in edicola il 14 gennaio di quello stesso anno, dedica alla questione due editoriali in pochi giorni. «Gli stadi dove gli atleti dovrebbero gareggiare» scrive nel primo «grondano ancora del sangue e delle sofferenze di migliaia e migliaia di studenti e operai cileni colpiti selvaggiamente dalla guardie della giunta di Pinochet. È una ipocrisia da sepolcri imbiancati quella di proclamare che lo sport non può subire interferenze politiche».
Se si vogliono condannare concretamente i delitti contro la libertà commessi dal regime di Santiago, sostiene il fondatore di «Repubblica», «l’occasione più preziosa d’esercitare questo diritto-dovere internazionale è proprio rifiutare la nostra presenza ai giochi della Coppa Davis». Nel secondo articolo Scalfari stigmatizza le tesi neutraliste, in particolare quella avanzata dal «Corriere della Sera» diretto da Piero Ottone: «A guardar bene gli charmes discrètes de la bourgeoisie altro non sono stati che la capacità borghese di tagliare la persona in tanti spicchi, in ciascuno dei quali di volta in volta fosse possibile ritirarsi per difendere il proprio “particulare”. Ora è proprio questa capacità che è entrata in crisi. È possibile difendere ancora la propria legittima voglia di giocare una partita di Coppa Davis anche in Cile, riparandosi dietro l’affermazione che lo sport non c’entra con la politica? Ma quell’uomo che andrà a giocare laggiù, che starà fermo sull’attenti e nel saluto della bandiera e degli inni di quel paese, che sarà premiato da “quella mano”, è un uomo intero o un muscolo che fa da sostegno a una racchetta? Via, caro Ottone, vale la pena che il tuo giornale celebri a giorni alterni il sodalizio con Pasolini se il suo messaggio è stato così poco capito da consentirvi di sostenere ancora un concetto tanto bolso qual è quello della neutralità dello sport?».
Quasi fossero impegnati in una missione segreta perfetta per un film di James Bond, a mezzanotte del 3 dicembre (il giorno dell’attentato a Bob Marley in Giamaica) Pietrangeli, Barazzutti e Zugarelli decollano per Santiago da Fiumicino su un aereo Alitalia che viene ispezionato a lungo dagli artificieri della polizia. I tre sono scortati fino al terminal. Ma all’aeroporto non c’è neppure un fotografo e l’èra dei telefonini è ancora lontana a venire. Gli sportivi italiani sono più interessati alle sorti della Valanga Azzurra, ormai in fase calante e impegnata a fronteggiare il fenomeno Ingemar Stenmark. Lo svedese, che dominerà per il secondo anno consecutivo la Coppa del mondo, nello slalom speciale tracciato sul Monte Palabione all’Aprica valido per le World Series si è ancora una volta lasciato alle spalle Thoeni e Gros. Quando gli si chiede che cosa si può fare per batterlo, il direttore tecnico della nazionale Mario Cotelli risponde sconsolato che l’unica soluzione sarebbe buttarlo fuori pista.
HA VINTO PINOCHET: SI GIOCA titola «la Repubblica» in prima pagina martedì 7 dicembre annunciando il via libera del governo ufficializzato la mattina precedente alla Camera dei deputati. Con il premier Andreotti alla Casa Bianca a caccia di un prestito di qualche miliardo di dollari dal Fondo monetario e dalla Federal Reserve, tocca a Dario Antoniozzi, sconosciuto ministro del Turismo e dello Spettacolo, giustificare la decisione mentre in piazza Montecitorio, sotto un grande striscione bianco con la scritta PINOCHET BOIA, il comitato per il boicottaggio scandisce slogan contro il regime cileno e il governo italiano.
In quelle stesse ore un’altra ondata di proteste sta montando contro la procura di Roma che ha ordinato il sequestro per oscenità su tutto il territorio nazionale di Porci con le ali, il diario sessuale e politico degli adolescenti Rocco e Antonia, di cui sono autori Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera. Il libro, uscito appena sei mesi prima è già diventato un bestseller, ha venduto mezzo milione di copie e presto sarà anche un film.
In un paese come il nostro, dice candidamente Antoniozzi alla Camera, è indispensabile che lo sport sia tenuto fuori dalla politica: «A questa linea si sono sempre ispirati i governi che si sono succeduti dal dopoguerra ad oggi. Nel 1953 furono respinte le pressioni di chi voleva impedire la venuta in Italia dei calciatori ungheresi per inaugurare lo stadio Olimpico di Roma perché si ravvisava in ciò un aspetto politico pre-elettorale, né diversa fu la risposta data in occasione delle Olimpiadi del 1960, quando alcuni paesi volevano che si imponesse il mantenimento dello schema del doppio villaggio per gli atleti, separandoli a seconda dei blocchi politici mondiali». La condanna del regime di Pinochet «resta fermissima» così come «la più completa solidarietà nei confronti del popolo cileno e la lotta che conduce per la riconquista della libertà», ma, conclude Antoniozzi dopo avere sottolineato che il consiglio dei ministri ritiene di essere stato «fedele interprete» del vasto moto popolare levatosi per isolare la dittatura cilena, non è ammissibile che disputare una gara internazionale in un paese «significhi manifestare un’opinione politica favorevole sul regime che vi è instaurato».
In aula – è il racconto che ne fa Paolo Guzzanti – i missini esultano, i democristiani si dichiarano soddisfatti, i comunisti indignati, i socialisti disgustati. Luciana Castellina, esponente di Democrazia proletaria, è furibonda: «Questo Parlamento è pieno di fascisti. La decisione del governo rappresenta una vittoria di Pinochet e segna un passo indietro rispetto alla rottura dei rapporti diplomatici con in Cile». Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Evangelisti replica sprezzante: «Le sinistre strillano? Si calmeranno presto». A Franco Recanatesi che lo intervista per «Repubblica» spiega le ragioni che hanno motivato il sì da parte del governo: «Prima di tutto abbiamo pensato alla colonia italiana in Cile, venticinquemila compatrioti che vanno difesi. Avevamo paura che un nostro rifiuto ufficiale inasprisse la situazione già tesa tra i due paesi e che quindi Pinochet ci impedisse di svolgere la nostra funzione. Noi invece affidiamo alla squadra azzurra un triplice messaggio: recare sollievo agli italiani di Santiago, solidarietà verso il popolo cileno e vicinanza a coloro che combattono per la libertà del Cile, con la Dc di Eduardo Frei in primo piano». Evangelisti ostenta tranquillità anche sulla possibile reazione politica di Berlinguer e Craxi, che escono sconfitti dalla vicenda: «Non succederà nulla, durante il dibattito alla Camera Pci e Psi erano già più morbidi. L’unico rammarico, per quanto ci riguarda, è che dovevamo annunciare molto prima che il caso montasse la volontà del governo di non impicciarsi in questa faccenda».
In realtà Bettino Craxi schiuma rabbia e accusa Andreotti e la Dc, ma anche il Pci, di ponziopilatismo vergognoso. Il ruolo del Partito comunista è stato sì ambiguo ma nello stesso tempo sottile. Ignazio Pirastu, detto Nuccio, nel Pci dal 1944, eletto in Parlamento nel 1953, vicepresidente della Commissione d’inchiesta sul banditismo sardo, non è stato scelto a caso da Berlinguer come responsabile dello sport per il partito. Nato a Tortolì il 31 marzo 1921, grande amico di Giorgio Napolitano, Pirastu è un sardo mite e colto, dolce e ironico, un passato giovanile di pugile, dotato di raffinatezze diplomatiche fuori dal comune. Tocca a lui gestire al cospetto dell’opinione pubblica «lo strappo sportivo» da Mosca. Enrico Berlinguer, infatti, dopo essersi inizialmente attestato sulle posizioni del no – «non mi sembra il caso di andare in Cile, è una bellissima occasione per sottolineare la nostra opposizione al regime», aveva detto al presidente del Coni Giulio Onesti sulle tribune dell’Olimpico nell’intervallo di una partita di calcio –, si sposta in un secondo tempo su una linea più possibilista, forse convinto in tal senso dagli emissari del leader comunista cileno Luis Corvalán, detenuto per ordine di Pinochet in un campo di concentramento e liberato proprio il 18 dicembre 1976, mentre sulla terra rossa di Santiago gli italiani strapazzano i tennisti cileni, in cambio del dissidente sovietico Vladimir Bukovskij. «Prima Aldo Tortorella» rivelerà Pirastu, che nel frattempo ha instaurato un reciproco rapporto di rispetto e simpatia con Nicola Pietrangeli, «e poi lo stesso Berlinguer mi fecero sapere che la direzione clandestina del Pc cileno suggeriva di non insistere nella campagna di boicottaggio della Davis perché aveva avuto segni pericolosi di una reazione popolare contraria e quindi di un possibile sfruttamento del no italiano alla manifestazione a favore di Pinochet, verso il quale si stava compattando un inatteso consenso nazionalistico».
Pirastu e Berlinguer decidono di incontrarsi e si ritrovano uno di fronte all’altro nell’ufficio del segretario alle Botteghe Oscure. Adesso come faccio a uscire da questa situazione?, domanda Pirastu. «Io sono il responsabile politico» risponde Berlinguer «e mi prendo la responsabilità di questa decisione. Tu sei il responsabile dello sport, trova il modo di comunicarla agli organi istituzionali e alle persone coinvolte nella vicenda». Un bel modo per dirmi arrangiati, racconterà Pirastu al giornalista della «Gazzetta dello Sport» Marco Pastonesi: «Tre giorni dopo il vertice con Berlinguer partecipai a un dibattito televisivo con Pietrangeli e Orlando Sirola. Li presi tutti in contropiede. Se fossi nei vostri panni, dissi, mi batterei per andare a Santiago. È vero, se giochiamo esiste il pericolo di tributare un omaggio involontario a Pinochet, ma se alla fine si deciderà di andare, grideremo tutti forza Italia».
L’8 dicembre, mentre a Roma il comitato Italia-Cile condanna la scelta dell’esecutivo definendola una prova di sconcertante insensibilità politica, il regime cileno segna un punto a suo favore. I giornali di Santiago esaltano «l’epilogo della sconfitta comunista», tutto è pronto per una finalissima che Pinochet vuole vincere, tanto da costringere il capitano della squadra Luis Ayala a sostenere un pronostico nel quale difficilmente può credere egli stesso: «Abbiamo superato l’Argentina che aveva un giocatore come Vilas e una formazione omogenea come il Sudafrica. Batteremo anche l’Italia». Nell’albergo Sheraton San Cristobal di Santiago, che è stato costruito su una collina della capitale, Pietrangeli è di tutt’altro avviso. Ci hanno tolto un gran peso dallo stomaco, dice: «Eravamo partiti quasi come se dovessimo vergognarci di quello che facevamo. Ora invece speriamo che gli italiani siano con noi. Il problema politico non va abbandonato, ma lo riprenderemo dopo la finale». Nicola non nutre alcun dubbio su una vittoria dei suoi ragazzi e lo spiega perfino al numero uno degli avversari, Jaime Fillol, alle prese con un problema muscolare che ne limita la potenza al servizio: «Stai meglio?» gli domanda dopo averlo seguito in allenamento. «Io non ne sono così sicuro. Devi sapere che sono un portafortuna per la mia squadra e un menagramo per gli avversari. Per i motivi più disparati contro di noi in Coppa Davis non hanno giocato Fibak per la Polonia, Borg con la Svezia, Cox e Mottram per l’Inghilterra».