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A Santiago approda finalmente anche Adriano Panatta. È stanco, ha il morale sotto i piedi e soffre di gastrite. Sono esausto, confessa. Vuole soltanto riposare. Nei cinque incontri di Davis ha rimediato otto vittorie e una sconfitta e incassato dieci milioni in gettoni di presenza. Parlando come professionista, dice, la Coppa Davis non vale assolutamente niente, nemmeno la decima parte di un successo nei tornei di Roma o Parigi: «Eppure voglio vincerla per una questione di orgoglio. Borg lo scorso anno vi ha dedicato gran parte della sua stagione ed è riuscito a conquistarla. Mi ha raccontato che nei giorni della finale a Stoccolma era felice come un bambino». Adriano ha voglia di provare l’identica sensazione dell’amico Björn, anche se dollari di premio a Santiago ce ne saranno pochi e se la festa sarà lontana da casa e un po’ colpevole. Le mogli degli azzurri scattano fotografie e girano filmini in Super 8. Panatta riavvolge il suo stato di grazia.

«Non so spiegare perché il ’76 è stato magico, non era cominciato molto bene. Forse è Dio che si diverte, forse, più semplicemente, è la bizzarria dello sport a cui piace scompaginare le carte e i destini. La vittoria della Coppa Davis ha rappresentato per l’Italia un successo storico e con ogni probabilità irripetibile, ma se affermassi che nella mia personale classifica la metto prima di Roma e Parigi sarei un ipocrita. Il tennis è una disciplina individuale, il concetto di squadra è estemporaneo. In Cile fui felice soprattutto per Mario Belardinelli che era stato per noi molto più di un maestro, ci aveva preso ragazzi, ci aveva cresciuti e plasmati come giocatori. Non era l’amicizia a cementare quel gruppo, proprio non si può dire che fossimo amici, ma l’equilibrio tecnico e caratteriale che lo rese straordinario. Barazzutti era il numero due più forte del mondo, Bertolucci possedeva, da fermo, colpi non inferiori a quelli di McEnroe, Zugarelli era uno specialista delle superfici veloci che non aveva nulla da invidiare agli australiani e infatti sull’erba di Wimbledon contro l’Inghilterra compì il capolavoro della sua carriera. Giocammo quattro finali di Davis, avremmo dovuto vincerne tre. E ci fece un torto chi sostenne che il Cile di Fillol, Cornejo e Prajoux fosse un avversario inconsistente».

Sull’esempio della nazionale olandese ai mondiali di calcio che si sono svolti due anni prima in Germania, a Santiago con i giocatori ci sono mogli e fidanzate, una prima volta assoluta per l’Italia. Nonostante Belardinelli imponga tavoli e camere separate, la notte i corridoi dell’hotel Sheraton si animano. Adriano sbarca nella capitale cilena proveniente da Las Vegas dove ha partecipato a una ricca esibizione assieme a Borg, Connors e Rosewall. È a pezzi, pallido come un lenzuolo, la nausea del tennis nella testa, le labbra piene di febbre. Irriconoscibile, fuori forma, quattro giorni prima dell’inizio della finale viene battuto in allenamento da Barazzutti con il punteggio di 6-2 6-4 6-0. Dopo la doccia va da Pietrangeli per comunicargli che non se la sente di giocare: dai il mio posto a Zuga, gli dice. Il capitano della formazione cilena Luis Ayala getta veleno sui timori azzurri cercando di incrinare anche l’autostima di Barazzutti: «È un mediocre, potrebbe giocare cinquanta volte con Fillol senza vincerne una». Tocca come al solito al vecchio Belardinelli affrontare Panatta e obbligarlo ad assumersi le sue responsabilità di numero uno. Adriano, alla fine, si convince.

Dei tre giorni della finale esiste un solo filmato. La Rai ha rinunciato alla trasferta. Le riprese della tv cilena sono state distrutte da un incendio. È realizzato dalla romana Luma Film di Gigi Oliviero, con il montaggio di Milko Duiella, la voce narrante di Pino Locchi e la consulenza tecnica del maestro federale Antonio Rasicci. Dura 26 minuti e 42 secondi. Gli addobbi argentati degli alberi di Natale splendono sotto il sole tra le sdraio della piscina, gli italiani viaggiano su un pulmino bianco scortato dalle motociclette dei carabineros. Il documentario, che non fa alcun cenno alla situazione politica cilena né alle polemiche che hanno accompagnato la spedizione italiana, comincia con la raccomandazione del giudice di sedia al pubblico, «silencio, por favor». La schiena di Panatta si inarca per completare l’esecuzione della battuta. Siamo agli inizi del doppio. Panatta e Bertolucci indossano a sorpresa una maglietta di un rosso sgargiante, per qualche secondo la scena si immobilizza e una vibrazione di stupore, se non di paura, sembra attraversare le gradinate sulle quali si assiepa il pubblico. Pochi attimi di smarrimento che si disperdono rapidamente nell’aria. Durante gli inni nazionali nessuno aveva notato che dalla giacca blu scuro di Adriano e Paolo – a differenza dei colletti bianchi esibiti da Pietrangeli, Barazzutti e Zugarelli – spuntava la stoffa di una sfida.

«Il rosso era il colore dell’opposizione a Pinochet, il colore che le donne portavano nelle piazze, il colore della protesta, del coraggio e del sangue. Donne i cui figli, fratelli, padri o mariti erano stati torturati, uccisi, cancellati. Era semplicemente un segnale, volevo testimoniare in qualche modo la mia vicinanza e la mia solidarietà al popolo cileno. Ne discussi con mia moglie, ma non ne feci cenno a nessun altro, a cominciare da Pietrangeli. Io e Paolo decidemmo di farlo e basta. Nessuno ne parlò. Se la stampa italiana se ne accorse e non lo scrisse è molto grave, se non lo capì è stato anche peggio».

Se il colore è la musica degli occhi, come sosteneva l’antropologo e filosofo Adolf Portmann, il rosso, dice lo scrittore americano Alexander Theroux, si può considerare alla stregua di uno squillo di trombe. Rosso era il colore prediletto da Ingmar Bergman, che lo collocava nel più profondo dell’anima. Il rosso rappresenta simbolicamente il colore della vita, con un significato direttamente connesso alla nostra esperienza del sangue e del fuoco.

«Due magliette rosse nello Stadio della Morte, due magliette rosse come sangue nelle fosse per le donne di Santiago e la loro libertà» cantano non a caso i Modena City Ramblers nell’album, uscito nel 2013, Niente di nuovo sul fronte occidentale: «Gridavan nei cortei, nelle piazze e nelle strade, chiedevano a gran voce: Non giocate la partita, non colpite quella palla, non dategliela vinta. Ma Enrico Berlinguer disse: Voi dovete andare, giocate per le madri e il mondo vi starà a guardare, non avete da temere, entrate a testa alta, giocate la partita, non dategliela vinta!».

«Delle polemiche romane m’interessai da lontano, ero spesso all’estero e quando tornavo in famiglia abitavo a Firenze. Mi schierai senza esitazioni contro il boicottaggio della Davis. Era troppo facile ridurre la tragedia cilena a una partita di tennis. E poi c’era l’aspetto puramente egoistico della vicenda: volevo andare in Cile e prendermi la coppa anche se c’era chi urlava lo slogan “Panatta milionario, Pinochet sanguinario”. Qualche settimana prima della finale ricevetti decine di minacce. Lettere anonime, telefonate. Te l’abbiamo promesso: ti meniamo. Avevo allora un amico carissimo, purtroppo scomparso, che era stato nella guardia del corpo di Berlinguer. Grande e grosso, si chiamava Raul Bellucci, ma per tutti era soltanto Bambino. Una mattina mi chiama e mi dice: “Adrià, guarda, per qualche giorno non uscire di casa. È meglio, credimi, tira una brutt’aria”. Richiamò tre giorni dopo: “Tranquillo, ho sistemato tutto”. Non gli ho chiesto altro, non ho mai saputo come li avesse convinti a lasciarmi in pace. Allo stesso modo finì la polemica sulla nostra trasferta. Qualcuno aggiustò le cose. Finì all’italiana, in perfetto stile democristiano. Se ne lavarono le mani sia il governo sia il Coni. Se potessi tornare indietro di quarant’anni forse vincerei Wimbledon, forse studierei Confucio, forse spiegherei a un paio di giornalisti famosi i motivi reali dell’odio che nutrivano nei miei confronti: l’invidia per il mio talento, l’impossibilità di perdonare al figlio di un custode di avere avuto successo e la sorpresa nello scoprire che non sbagliavo i congiuntivi nelle conferenze stampa. Certamente andrei di nuovo a Santiago».

Adriano Panatta parte per il Cile con otto racchette, le corde in budello tirate a ventotto chili, sei giri di nastro isolante all’estremità inferiore del manico per creare un tappo che garantisca alla mano una presa più salda. Prima della partita, si siede sulla panca in un angolo dello spogliatoio, le estrae dal fodero e le allinea una dopo l’altra di fronte a sé, le studia a lungo e ne sceglie una e una soltanto. È la preferita. Quella che userà.

Scaramanzie. Racconta la moglie Rosaria: «Quando entrava in campo cercava di non calpestare le righe del campo, se una partita complicata gli era andata bene, la notte mi costringeva a lavare la maglietta che aveva indossato durante l’incontro, per rimetterla ancora umida l’indomani, nel turno successivo».

Spesso le toccavano anche altre incombenze, non tutte piacevoli.

«A Parigi mi ritrovai per due settimane a cenare ogni sera alla Brasserie La Lorraine di place des Ternes. Dieta monotematica: bisque di crostacei, soufflé e fragole alla crème fraîche». Rosaria Panatta si separa di rado dalla sua Toscana. Pietrasanta, il mare che, mi dice, è blu e malinconico come la sua anima, certi profumi che le ricordano l’infanzia, i nipoti Adriano e Leonardo che hanno bisogno della nonna, la figlia Rubina che fruga tra gli album delle fotografie e trova anche quelle di Santiago e lei che le sfoglia con un po’ di ritrosia.

«Il terrore e la repressione del regime si toccavano con mano ma noi eravamo davvero piccoli allora. Avevo appena ventidue anni, ero timida, come si poteva pretendere che fossimo dei testimoni? A Firenze andavamo spesso in una pizzeria vicina alla facoltà di Architettura, gli studenti arrivavano fino al nostro tavolo per insultarci».

Si erano sposati l’anno prima perché erano belli tutti e due e luccicavano e allora poteva bastare sentirsi ammantati da quella luce per un matrimonio. «Adriano è un uomo buono e difficile come tutti quelli che hanno carattere. Siamo stati assieme anche quando abbiamo creduto di esserci smarriti definitivamente. Resterà sempre il mio campione preferito, colui che mi ha fatto sussultare il cuore. Poteva fare di più ma va bene così. Non si può combattere anche contro sé stessi».