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Guido racconta che in casa, quand’era un bambino, tutto ciò che la polvere ricopriva era semplice, ma si sforzava di non sembrare povero. Senza esserne razionalmente consapevole, confidava nell’idea che il privilegio è spesso un lasciapassare per l’autodistruzione. Dai genitori gli venne impartita un’educazione che contemplava la realizzazione di ogni desiderio attraverso il sacrificio. Oggi gli capita a volte di guardare con un moto d’orgoglio la targa color azzurro cielo appesa alla rete che delimita il campo con scritti sopra un numero, il 2064, e il suo nome. Sa che tramandare i gesti è prima di ogni altra cosa praticare con sé stesso la disciplina che quei medesimi gesti impongono. Non c’è da fare altro che assoggettarsi alla reiterazione delle pratiche quotidiane. Ripiegare ogni mattina in una sacca maglietta, calzoncini e calze tolti dal cestello della lavatrice e messi ad asciugare; infilarsi i pantaloni e il giubbino della tuta, poi le scarpe spazzolate la sera precedente per liberarle dalla terra rossa; controllare l’usura e la tensione delle corde; cambiare il grip al manico. Ripartire dai propri difetti per correggere quelli di chi si affida alle sue cure. Bambini, ragazzi, studenti, funzionari di ambasciata, impiegati di banca, ufficiali dell’esercito, medici.
«Ho imparato la tecnica guardando gli altri giocare, ma pur possedendo questa dote, assimilare e riprodurre, che mi ha reso tutto più facile, il colpo che mi ha creato i maggiori problemi è sempre stato il dritto, con il quale cerco la giocata di potenza nonostante un’impugnatura non corretta. Ne esce un colpo imprevedibile per l’avversario e, purtroppo, per me». Osservatemi bene, raccomanda perciò ai suoi allievi, scoprirete ciò che non dovete fare. La stessa cosa che ho sentito dire a Tonino Zugarelli. Accanto al campo c’è una casetta di legno chiaro chiusa con un lucchetto, dentro racchette, cesti di palle più o meno consumate, birilli e triangoli di plastica, una minacciosa macchina spara palle, una fotografia di Orlando Sirola e una seconda proprio di Zugarelli nell’atto di preparare il servizio. Forse qualcosa di sconosciuto li accomuna nelle origini. «Ho cominciato ad avvicinarmi al tennis all’inizio degli anni Settanta, quando mio padre, insieme con un amico, realizzò con pochissimi soldi e tantissimo lavoro un centro sportivo su un terreno brullo di via Casilina a Roma, in prossimità di Tor Pignattara. Avevo dodici anni, il tennis mi affascinava, trascorrevo ore e ore a seguire le partite tra i frequentatori del circolo, ipnotizzato dagli scambi. Una sera uno di loro abbandonò negli spogliatoi una vecchia Castle, una racchetta prodotta da un’azienda italiana di fisarmoniche che aveva la sede a Castelfidardo. Mio padre mi vietò anche solo di sfiorarla. Passarono parecchi giorni, nessuno la reclamò, la presi, diventò la mia prima racchetta. Mi allenavo contro il muro della clubhouse tutti i pomeriggi dopo la scuola. Papà fu costretto a ridipingerla, per scongiurare ulteriori danni mi iscrisse al corso per i bambini».
Quattro anni più tardi il maestro lo chiama al suo fianco nel ruolo di palleggiatore.
Mauro ha scoperto che non tutte le immagini della vita scompaiono. Ha provato a metterne in fila qualcuna. Una vacanza estiva al mare di Terracina, aveva più o meno dieci anni, una fotografia lo ritrae in pantaloni corti e lunghe calze bianche che gli arrivano fino ai ginocchi. Due uomini non più giovani, e che a lui dovevano sembrare vecchissimi, si accalorano in un gioco che ha qualcosa a che vedere con il volano ma che è, oltre che più maschio, un confronto intellettuale e filosofico nel quale destinato a prevalere è il più rapido nel carpire i pregi e i difetti tecnici, fisici e tattici dell’avversario; la prima racchetta Maxima Torneo donatagli dal padre un Natale e ancora custodita in un armadio con il tensore per il telaio avvitato stretto stretto; gli ultimi lampi di splendore di Nicola Pietrangeli che pareva avere dentro il tennis dal giorno del battesimo tanto era leggero, sornione e spietato e l’ammirazione, molto più tardi, per il suo opposto, quell’Ivan Lendl costruito in una scuola militare dell’Est, sudato, meccanico, la tensione nervosa nascosta dalla freddezza ossimorica dei suoi tic. Una fotografia con dedica di Umberto II di Savoia, il Re di maggio, che gli portò sua cognata di ritorno da un viaggio organizzato nell’esilio portoghese di Cascais. Un allenamento delle sorelle Williams al Foro Italico con papà Richard che gira loro attorno in ciabatte digrignando i denti. I racconti fantastici del nonno che abitava al Quirinale, speziale della Casa Reale, e la bottega del padre, tra le più vecchie di Roma, esiste dal 1552, con le grandi scatole disegnate a fiori che contengono il balsamo del Perù e altri misteri alchemici. La pesante urna di porfido francese che, se non si fosse alfine deciso di seppellirlo sull’isola di Caprera contro le sue volontà di anticlericale, avrebbe dovuto ospitare le ceneri di Giuseppe Garibaldi. I ricordi, pensa, sono fatti della stessa materia dei sogni. Il futuro e il passato che si toccano per qualche istante.
Nell’estate del ’76 erano soltanto due ragazzi che non sapevano nulla. Sono stati i miei testimoni. Guido è diventato maestro di tennis nel 1982. Ogni giorno sta nove ore in campo, insegna il topspin. Dà ancora il voto alla sinistra. Mauro è diventato padre giovanissimo, poi farmacista come il papà e il nonno. Gioca a tennis almeno sei ore la settimana ed è ancora caparbiamente monarchico. In quella lunga stagione di quarant’anni fa, quando Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli cominciarono la rincorsa alla Davis, si affrontavano ogni pomeriggio in un cortile, sfinendosi per ore su un campo d’asfalto bombardato di buche e gobbe che spesso si scioglievano sotto il sole, le righe che lo delimitavano tracciate con un gesso bianco. Avrebbero voluto non smettere mai, sentivano che stringevano nelle mani una gioia fragile. La sola cosa che anche a loro interessava era vincere. Perché vincere è una breve felicità.