Londra, 2017
Se m’incontrate per strada vi sembra di riconoscermi, ma non ricordate dove mi avete già visto. Fingere è il mio mestiere. Sono bravissima a diventare qualcun altro. Gli occhi sono l’unica parte di me che riconosco quando mi guardo allo specchio e fisso un volto truccato che non è il mio. Un altro personaggio, un’altra storia, un’altra menzogna. Distolgo lo sguardo, pronta a smettere, per stasera. Mi fermo solo un attimo a leggere la targa sulla porta del camerino: AIMEE SINCLAIR.
Il mio cognome, non il suo. Non l’ho mai cambiato.
Forse perché, in fondo, ho sempre saputo che il nostro matrimonio sarebbe durato solo fin quando la vita non ci avrebbe separato. Cerco di ricordare a me stessa che un nome ci definisce solo se glielo permettiamo. È una mera serie di lettere che si susseguono in un certo ordine, poco più del desiderio di un genitore, un’etichetta, una menzogna. A volte vorrei tanto prendere quelle lettere e cambiarne l’ordine. Per diventare qualcun altro. Un nuovo nome per una nuova me. Quella che sono diventata mentre gli altri erano distratti.
Sapere il nome di una persona non vuol dire conoscerla.
Credo che ieri sera sia finita.
Le persone che ci amano di più hanno il potere di ferirci più a fondo.
Lui mi ha ferito.
Abbiamo preso la cattiva abitudine di farci del male. Perché qualcosa possa essere aggiustato bisogna che prima si rompa.
E io l’ho ferito a mia volta.
Mi assicuro di avere messo in borsa il libro che sto leggendo. Di solito la gente lo fa col portafoglio o con le chiavi. Il tempo è prezioso, non va sprecato, e io lo sfrutto leggendo tra una ripresa e l’altra. Sin da bambina, ho sempre preferito vivere le vite di personaggi immaginari, cercando rifugio in storie che avevano finali migliori della mia. Siamo ciò che leggiamo. Certa di avere preso tutto, me ne vado, ridivento la persona che ero, torno al posto da cui sono venuta.
È successa una cosa molto brutta, ieri sera.
Ho provato con tutta me stessa a negarlo, ho cercato di ingannare la memoria, ma sento ancora le sue parole piene di odio, le sue mani strette intorno al collo, vedo ancora quell’espressione che non gli avevo mai visto prima.
Posso ancora sistemare tutto. Posso ancora recuperare il nostro rapporto.
Le bugie che raccontiamo a noi stessi sono sempre le più pericolose.
È stata solo una lite, niente di più. Tutti quelli che si amano litigano.
Esco dal camerino e attraverso i corridoi dei Pinewood Studios. I pensieri e le paure, però, li porto con me. Cammino lenta, incerta, come se rimandassi deliberatamente il momento di tornare a casa, temendo quello che troverò.
Lo amavo davvero, lo amo ancora.
Credo sia importante ricordarmelo. Non siamo sempre stati ciò che siamo. La vita rimodella le relazioni come fa il mare con la sabbia. Erode dune d’amore, crea cumuli di odio. Ieri sera gli ho detto che è finita. Gli ho detto che voglio il divorzio e che stavolta faccio sul serio.
Ma non è vero, non è così.
Salgo sulla mia Range Rover e guido fino al cancello degli studios, diretta verso l’inevitabile. Tengo la schiena curva, come per nascondermi agli occhi degli altri e celare i miei spigoli vivi. Il guardiano nel gabbiotto mi saluta con un sorriso. Io mi sforzo di fare lo stesso e poi riparto.
Per me recitare non è mai stata una questione di mettermi in mostra o stare al centro dell’attenzione. Faccio questo lavoro perché non so fare altro e perché è l’unica cosa che mi rende felice. Un’attrice timida sembrerebbe un ossimoro a molti, ma è proprio ciò che sono. Non tutti vogliono essere qualcuno. Alcuni vogliono solo essere qualcun altro. Recitare è facile, essere me stessa è difficile. Mi viene mal di stomaco ogni volta che devo fare un’intervista o partecipare a un evento. Vado in ansia quando devo incontrare qualcuno nei panni di me stessa. Però, quando sono sul palco o di fronte a una telecamera nelle vesti di qualcun altro, mi sembra di volare.
Nessuno capisce chi sono davvero, a parte lui.
Mio marito si è innamorato della donna che ero prima. Il successo è arrivato relativamente da poco e l’avveramento dei miei sogni ha significato l’inizio dei suoi incubi. Anche se all’inizio ha cercato di incoraggiarmi, la verità è che non ha mai voluto dividermi con nessun altro. Detto questo, bisogna anche ammettere che, ogni volta che l’ansia mi disintegrava, lui cercava di rimettere assieme i pezzi. È un gesto gentile, ma anche egoistico. Per provare soddisfazione ad aggiustare qualcosa bisogna lasciarlo rotto per un po’, oppure romperlo di nuovo.
Guido piano lungo le strade di una Londra che va sempre di corsa e mi preparo a indossare di nuovo i miei panni. Scorgo la finta me nello specchietto retrovisore e faccio una smorfia. Ho trentasei anni e sono stufa di essere costretta a indossare una maschera. Non sono bella, però dicono che ho un volto interessante. Gli occhi sono troppo grandi – come se tutte le cose che hanno visto li avessero fatti crescere oltre misura –, i capelli lunghi e neri, stirati ad arte da mani esperte, non certo le mie. Sono molto magra in questo momento, perché lo richiede il personaggio che interpreto e perché spesso dimentico di mangiare. Dimentico di mangiare perché una giornalista una volta mi ha definito «in carne ma graziosa». Non ricordo nemmeno quale sia stato il suo giudizio della mia performance.
Era una recensione dell’anno scorso sul mio esordio cinematografico. Una parte che ha cambiato per sempre la mia vita e quella di mio marito. Di sicuro ha cambiato anche il nostro conto in banca, il nostro amore invece ha continuato a essere in rosso. Il mio successo lo ha reso infelice – perché mi ha allontanato da lui –, e per sentirsi grande lui ha cominciato a fare di tutto per farmi sentire piccola. Non sono la donna che ha sposato. Sono molto di più, adesso, e a lui questa cosa non va bene. È un giornalista, anche lui di successo, ma è diverso. Temeva di perdermi e allora mi si è aggrappato, stringendo troppo, fino a farmi male.
Credo che a una parte di me questa cosa piacesse.
Parcheggio sulla strada e risalgo il vialetto. Ho comprato questa casa a Notting Hill perché credevo potesse aiutarci a riparare il nostro rapporto. Ma la ricchezza è solo un cerotto, non una cura per promesse e cuori infranti. Non mi sono mai sentita così tanto in trappola. Come spesso accade, ho costruito con le mie mani questa prigione, che ha mura massicce fatte di senso di colpa e del dovere. Sembrava priva di vie d’uscita, anche se in realtà c’erano: ero io che non le vedevo.
Entro in casa, accendo le luci in ogni stanza. Sono tutte fredde, buie, vuote. Mi tolgo il cappotto. È una falsità chiamarla casa mia. Non l’ho mai sentita tale. Un uccello non sceglie la propria gabbia.
«Ben, sono a casa.» Persino pronunciare il suo nome mi fa strano: sembra una cosa finta, sbagliata, che non mi appartiene.
Visto che di sotto non lo trovo, salgo le scale per cercarlo in camera da letto. Ogni passo è appesantito dalla paura e dal dubbio. Il ricordo di quello che è successo ieri sera è un urlo che mi rimbomba nella testa, ora che mi ritrovo di nuovo sul set della mia vita vera.
Lo chiamo di nuovo, però non risponde. Dopo aver controllato in ogni stanza, torno in cucina e mi accorgo del bouquet di fiori sul tavolo. Sul bigliettino ci sono scritte solo due parole: Mi dispiace.
Facile a dirsi. Ancora più facile poi è scriverlo su un bigliettino.
Voglio cancellare quello che ci è successo e ricominciare daccapo. Voglio dimenticare quello che ha fatto e che mi ha costretto a fare. Voglio tornare indietro, ma di tempo ne avevamo poco da molto prima che cominciassimo ad allontanarci. Forse, se mi avesse permesso di avere i figli che tanto desideravo, le cose sarebbero potute andare in modo diverso.
Ritorno in salotto e vedo le sue cose sul tavolino: il portafoglio, le chiavi, il cellulare. Non esce mai senza il cellulare. Lo prendo con attenzione, come temendo che si disintegri o mi esploda in mano. Lo schermo si accende, c’è una chiamata persa da un numero che non conosco. Voglio scoprire di più, però quando premo di nuovo il tasto il telefono mi chiede il PIN. Faccio diversi, inutili tentativi di accedere.
Ricomincio a cercare Ben in giro per casa, ma non c’è. Non si sta nascondendo. Non è un gioco.
Tornata all’ingresso, vedo il suo cappotto appeso e le sue scarpe accanto alla porta. Lo chiamo un’ultima volta, urlando così forte che mi avrà sentito anche il vicino. Nessuna risposta. Magari è solo andato a fare un giro.
Senza il portafoglio, il cellulare, le chiavi, il cappotto e le scarpe?
La negazione è la forma più distruttiva di autolesionismo.
Una serie di parole mi ronza nelle orecchie, senza sosta: svanito, scappato, partito, scomparso, sparito.
Poi il carosello di parole si ferma, proprio sul termine che meglio descrive la situazione. Una parola semplice e breve, la soluzione di questo indovinello che non sapevo di dover risolvere.
Mio marito se n’è andato.