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Essex, 1987

Sono sulla scala più lunga del mondo e piango, perché il mio papà è morto. Altrimenti non si spiega per quale motivo un signore sconosciuto in un posto sconosciuto mi direbbe di essere il mio nuovo papà. Continua a parlare, ma io non lo sento più: piango troppo forte. Non ha l’accento irlandese come me e Maggie, ha la voce strana e non mi piace per niente.

«Togliti dalle scatole, John, lasciala in pace», gli dice Maggie quando arriviamo in cima alle scale. Ci sono quattro porte di legno. Sono tutte chiuse e nessuna è dipinta. Maggie mi prende per mano e mi tira verso quella più lontana. Ho paura di vedere cosa ci sia dietro e per questo chiudo gli occhi, solo che così facendo incespico. Maggie mi stringe la mano così forte che devo per forza stare al passo.

Quando riapro gli occhi, mi trovo davanti la cameretta di una bambina. È diversissima dalla mia, che ha la moquette marrone tutta macchiata e delle tende grigie che una volta erano bianche. Questa sembra una di quelle che si vedono in televisione. Il letto, la scrivania e l’armadio sono tutti bianchi. La moquette è rosa e sulle tende, sulla carta da parati e sul copriletto ci sono piccoli arcobaleni. Ovunque ci sono fotografie di una bambina dai capelli rossi.

«Questa è la tua nuova cameretta. Ti piace?»

Mi piace, per cui non capisco perché me la sono fatta addosso.

Era da tantissimo tempo che non mi capitava. Forse è stato per via delle pareti coi pannelli di sughero, delle scale e dell’uomo col dente d’oro. Mi devo essere spaventata e me la sono fatta addosso. Sento un rigagnolo caldo che mi cola tra le gambe e non riesco a fermarlo. Spero che Maggie non se ne accorga, ma guardo per terra e sotto i miei piedi sulla moquette c’è una chiazza.

Lei la vede e cambia espressione. La faccia sorridente di prima diventa arrabbiata. «Solo i neonati si fanno la pipì addosso.» Mi dà un ceffone.

A volte l’ho visto fare al papà con mio fratello, però nessuno l’ha mai fatto con me. Mi fa male la guancia e ricomincio a piangere.

«Ma smettila, quante storie per uno schiaffo.» Maggie mi tira su, ma mi tiene più lontana che può, con le braccia tese. Torniamo sul pianerottolo e andiamo verso la porta più vicina alle scale. È una piccola cucina. Il pavimento è ricoperto di una strana cosa verde e ruvida su cui ci sono delle scritte. I pensili sono tutti diversi.

Dalla cucina entriamo in bagno. È tutto verde, lì: il water, il lavabo, la vasca, la moquette e le piastrelle sul muro. Dev’essere il colore preferito di Maggie. Mi mette nella vasca e se ne va, per poi tornare con un bustone nero in mano. Temo che voglia buttarmi via con la spazzatura.

«Togliti i vestiti.»

Non voglio.

«Togliti i vestiti, ho detto!»

Resto immobile.

«Subito.» È come se la parola le sia rimasta incastrata tra i denti. Sembra arrabbiatissima, per cui faccio come dice.

Quando tutti i miei vestiti, comprese le mutandine bagnate, sono nella busta, Maggie prende una specie di tubo di plastica attaccato al rubinetto della vasca. «Lo scaldabagno è rotto, per cui oggi va così.» Apre il rubinetto e mi bagna.

L’acqua è gelida e mi manca il respiro, come quella volta che sono caduta dalla barca del papà e il mare voleva inghiottirmi. Maggie mi versa dello shampoo in testa e mi strofina forte i capelli. Sulla bottiglia gialla c’è scritto BASTA LACRIME, ma io piango eccome. Quando sono tutta insaponata dalla testa ai piedi, mi bagna di nuovo con l’acqua gelata. Cerco di stare ferma come mi dice lei, però tremo tutta e mi battono i denti, come d’inverno.

Quando ha finito, mi strofina con un asciugamano verde ruvido e poi mi riporta nella cameretta. Mi mette a sedere sul letto che ha gli arcobaleni sulla coperta. Sono nuda e ho freddo. Lascia la stanza per un attimo e poi la sento parlare col signore che dice di essere mio padre, anche se io non lo conosco.

«È proprio uguale a lei», le dice.

Maggie torna con un bicchiere di latte. «Bevilo.»

Prendo il bicchiere con tutte e due le mani e bevo un paio di sorsi. Ha un sapore strano, come quello che mi ha fatto bere nella casa delle vacanze.

«Tutto.»

Quando il bicchiere è vuoto, le torna il sorriso e io sono contenta. Non mi piace quando la sua faccia è arrabbiata, mi fa paura. Maggie apre un cassetto e tira fuori un pigiamino rosa. Mi aiuta a metterlo e poi mi fa alzare e guardare allo specchio.

La prima cosa che noto sono i capelli. Molto più corti dell’ultima volta che mi sono vista. Arrivano al mento.

«Perché ho i capelli corti?» Comincio a piangere, ma Maggie alza la mano e mi fa smettere subito.

«Erano troppo lunghi e andavano tagliati. Ricresceranno.»

Guardo la bambina nello specchio. Sulla maglia del pigiama ci sono cinque lettere. AIMEE. Non so che vuol dire.

«Ti va una storia della buonanotte?»

Annuisco.

«Il gatto ti ha mangiato la lingua?»

Non ho visto nessun gatto e la mia lingua ce l’ho ancora in bocca. La muovo un po’ per esserne sicura.

Maggie si avvicina a una mensola su cui c’è un mucchio di giornalini colorati e prende il primo della pila. «Sai leggere?»

Sono quasi offesa, ma non so perché. «Certo. Mi ha insegnato mio fratello.»

«Be’, non ti ha fatto un grande favore. Leggitela da sola, allora, la storia della buonanotte. Ci sono un mucchio di numeri di Raccontastorie e anche tante audiocassette sulle mensole. Serviti pure. Gobbolino è la tua storia preferita.» Lancia il giornalino sul letto. Non dico niente, e lei aggiunge: «Il gatto della strega».

A me non piacciono nemmeno, i gatti, per cui non capisco perché continua a tirarli sempre fuori.

«Se è vero che sai leggere, allora dimmi che c’è scritto sulla maglia del pigiama.»

Mi guardo allo specchio, ma le lettere sono al contrario.

«C’è scritto ’Aimee’. È così che ti chiami, da oggi in poi. Significa ’amata’. E tu vuoi che le persone ti amino, no?»

«Ma io mi chiamo Ciara.»

«No, adesso non più. E, se ti azzardi a ripetere quel nome in questa casa, sarai nei guai.»