Londra, 2017
Oggi sarà un giorno di ultime volte.
L’ultima volta che varcherò il cancello dei Pinewood.
L’ultima volta che interpreterò questo personaggio.
La mia ultima occasione.
Sono davanti allo specchio del mio camerino mentre altre persone mi acconciano i capelli e nascondono le imperfezioni sul mio viso. Non mi sento me stessa, oggi, anche se non sono sicura di ricordare chi sono. Quando finiscono le riprese di un film, provo sempre un senso di lutto: passo tanti mesi a lavorare duro e poi tutto finisce. L’angoscia che provo ora però è più schiacciante del normale. Evidentemente comincia a farsi sentire la fatica di dovermi tenere tutto dentro, ma devo resistere solo un altro giorno. Ogni giorno scegliamo quali segreti rivelare e quali invece è meglio tenere ancora, aspettando il giorno in cui parlarne avrà un sapore meno amaro.
Quando resto da sola in camerino, sempre seduta davanti allo specchio e ancora incerta su chi sia la persona che ci vedo riflessa, trovo una cosa che non è mia. Nina, la donna fantastica che riesce a fare magie coi miei capelli, ha lasciato una rivista. Mi metto a sfogliarla, più per noia che per curiosità, poi mi fermo perché c’è uno speciale di due pagine su Alicia White.
La donna che sorride raggiante nell’enorme foto ritoccata frequentava la mia stessa scuola superiore e faceva teatro con me. Era un anno avanti, per cui non so come sia possibile che adesso sembri dieci anni più giovane di me. Anche Alicia White è un’attrice. Però non sa recitare. Abbiamo lo stesso agente e lei non perde occasione di ricordarmi che stava con Tony prima di me. Lo ripete in continuazione, come si trattasse di una specie di competizione. Sente il bisogno di screditarmi ogni volta che mi incontra, come se volesse ricordarmi il mio posto qual è. Non ce n’è bisogno, perché lo so benissimo, vista la bassa opinione che ho di me stessa.
Vedere la sua faccia mi ricorda che devo sentire Tony. Mi ha chiesto di chiamarlo, ma non sono ancora riuscita a farlo. Cerco il cellulare nella borsa e riprovo. Niente, sempre la segreteria. Allora lo chiamo in ufficio, anche se è una cosa che detesto.
La sua assistente risponde al secondo squillo. «Certo, glielo passo. Adesso è libero.»
Parte una musichetta classica che mi rende ancora più nervosa e tiro un sospiro di sollievo quando finalmente s’interrompe. Però non è Tony a rispondermi.
«Scusi, mi sono confusa. Tony è in riunione, ma la richiama subito.» L’assistente riaggancia prima che abbia il tempo di chiederle tra quanto.
Mi rimetto a sfogliare la rivista per distrarmi da tutte le ansie che mi affollano la testa. Sono messa maluccio, se per distrarmi non mi resta che leggere un articolo su Alicia White.
Non ho sempre avuto un agente. Fino a diciotto mesi fa, nessuno voleva rappresentarmi. Ero in un’agenzia che mandava le mie foto in giro per procurarmi lavori e che si prendeva il quindici per cento se ottenevo la parte. Il lavoro non è mai mancato, però non era quello che desideravo. Quando io e Ben ci siamo sposati facevo la riserva in uno spettacolo su Shaftesbury Avenue. Una sera l’attrice titolare si è ammalata e ho recitato al posto suo. La moglie di Tony era nel pubblico e gli ha parlato di me. Non troverò mai il modo di sdebitarmi con lei. Alcune settimane dopo che Tony era diventato il mio agente, mi hanno offerto il primo ruolo in un film.
A volte basta che una sola persona creda in te per cambiarti la vita. Così come a volte per rovinarti la vita basta una persona che non crede in te. L’essere umano è una specie molto sensibile.
Riposo gli occhi stanchi giusto un istante, poi mi rimetto a guardare la foto di Alicia. Lascio cadere la rivista sulle gambe quando la sua faccia prende vita e comincia a parlarmi.
Dalla sua bocca rossa esce una sfilza di commenti al vetriolo che ha già fatto in passato. «Quando Tony ha deciso di voler diventare il mio agente, mi ha portato a pranzo in un ristorante sofisticato; ma sai una cosa, all’epoca io ero sulla cresta dell’onda e mi volevano tutti, a differenza di te.» Scuote i capelli biondi e le ciocche con le mèches si agitano davanti ai miei occhi come stelle filanti. «Come tutti, sono rimasta di sasso quando Tony ha deciso di voler prendere anche te! È stato carino da parte sua volerti dare una chance, però lo sanno tutti che Tony è un bonaccione.» Sfila una banconota da cinquanta sterline dal portafoglio, la arrotola e poi la accende. Se la infila in bocca come fosse una sigaretta e mi soffia il fumo in faccia.
Mi bruciano gli occhi. Forse è per questo che cominciano a lacrimare.
«Tu non sei proprio all’altezza degli altri suoi clienti. Non sei all’altezza in generale.»
Ha ragione, non sono all’altezza di niente. Non lo sono mai stata.
«Tanto lo sai che un giorno ti scaricherà, vero? Un giorno non tanto lontano, direi. E allora non ti vorrà più nessuno!» Getta la testa all’indietro e scoppia in una risata meschina, mentre altre paroline di carta continuano a uscirle dalla bocca e il foglio di giornale le s’increspa intorno agli occhi, raggrinzendosi.
Una risata fuori dal camerino mi sveglia. Devo essermi addormentata. Era solo un sogno. Sono tre notti che non chiudo quasi occhio e sono così stanca che mi sembra di impazzire. Strappo la pagina con la foto di Alicia, accartoccio la sua faccia e la getto nel cestino. Il solo fatto di non averla più davanti agli occhi mi fa sentire più tranquilla.
Alicia White mi odia, eppure è ossessionata da me. Negli ultimi mesi mi ha copiato il taglio di capelli – anche se devo ammettere che sta meglio a lei, come tutto il resto –, i vestiti e persino alcune risposte che uso di solito durante le interviste. Le ha imparate per filo e per segno, parola per parola. Fatta eccezione per il colore dei capelli, che è diverso perché i suoi sono ossigenati, sembra proprio che voglia essere me. Si dice che l’imitazione sia la forma più sincera di ammirazione, però io non mi sento affatto lusingata, anzi, questa cosa mi manda fuori di testa.
Facciamo lo stesso lavoro e abbiamo lo stesso agente, ma a parte questo non abbiamo nulla in comune. Tanto per cominciare, lei è bellissima, se non altro dal punto di vista estetico. La personalità è tutta un’altra storia, nel suo caso, e farebbe bene a nasconderla meglio. Essere stronzi può funzionare in alcuni settori, però non nel nostro. Ci sono troppi pettegolezzi e le cose che dicono su di lei non sono certo belle. Io non potrei mai fare l’agente: vorrei rappresentare solo brave persone.
Ho come un tarlo in testa in questo momento e sento il bisogno di tornare sui miei passi, non solo metaforicamente. Allora infilo la mano nel cestino, riprendo la pagina di giornale accartocciata e la stiro. Osservo la faccia di Alicia, i suoi occhi, le labbra rosso acceso. Poi leggo la risposta che ha dato all’ultima domanda del giornalista e nel farlo mi si contorcono le budella.
«A quali trucchi non potresti mai rinunciare?»
«Facilissimo! Il mascara, l’eyeliner e il mio rossetto preferito, lo Chanel Rouge Allure.»
Il nome di quel rossetto non mi è nuovo. È scritto con l’inchiostro indelebile nella mia mente, perché è il rossetto che ho trovato sotto il letto l’anno scorso.
Alicia White è andata a letto con mio marito?
L’aiutoregista bussa alla porta del mio camerino per accompagnarmi sul set. Riaccartoccio la faccia di Alicia, la getto di nuovo nel cestino e poi lo seguo. Chiacchieriamo del più e del meno a bordo del golf cart che attraversa gli studios. È ancora giovane e si preoccupa di cose che non lo assilleranno più quando sarà più grande, un po’ com’è successo a tutti prima che ci rendessimo conto di cosa aveva davvero in serbo la vita per noi. Ascolto il racconto delle sue sofferenze e ogni tanto gli dico qualche parola di conforto, mentre procediamo a neanche trenta chilometri all’ora. Mi godo la brezza leggera sul viso e l’odore di vernice e segatura tipico di tutti i set. Mi fa sentire a casa.
Gli scenografi passano mesi e mesi a costruire mondi interi che poi, quando le riprese finiscono, vengono buttati giù come se non fossero mai esistiti. È un po’ come quando finisce una relazione, solo che buttare giù una scenografia causa meno danni. A volte è difficile dire addio ai personaggi che interpreto. Ci passo così tanto tempo assieme che diventano di famiglia, ma forse mi succede perché io non ce l’ho, una famiglia.
Più ci avviciniamo al set, più la mia ansia cresce. Non ho provato come faccio di solito. Non ho avuto tempo. Ho così tanti pensieri che mi affollano la testa in questi giorni che mi sento impantanata in un posto che non mi piace per niente.
Il golf cart arriva a destinazione: un enorme capannone che contiene la maggior parte degli interni utilizzati per A volte uccido. Esito un istante prima di entrare. Ho la testa piena di tutte le cose che stanno succedendo nella mia vita privata e non ricordo neanche quale scena dobbiamo girare.
«Bene, eccoti. Oggi mi servi in forma, Aimee. Devi davvero farci credere che il tuo personaggio sia capace di uccidere il marito», si raccomanda il regista non appena mi vede.
Solo a sentire queste parole mi sento male. Mi sembra di essere in una specie di incubo.
Per questa scena mi trovo in cucina e aspetto che torni colui che è mio marito solo sul set. Jack mi sorride prima del ciak iniziale.
Ma, quando ci avviciniamo al ventesimo, non sorride più nessuno.
Continuo a dimenticare le battute, cosa che non mi succede mai. Mi odiano tutti, ne sono certa. Anche perché io dopo quest’ultima scena potrò tornarmene a casa, loro no. Riprendono il ciak, il regista grida: «Azione!» E stavolta cerco di mettercela tutta.
Mi verso un drink che non berrò mai e fingo stupore quando Jack mi arriva alle spalle e mi abbraccia stringendomi la vita. «Tutto fatto.»
La sua espressione cambia, proprio come ha già fatto altre diciannove volte. «Cosa significa?»
«Lo sai, cosa significa. Tutto fatto. Faccenda sistemata.» Avvicino il bicchiere alle labbra.
Lui fa un passo indietro. «Non credevo che l’avresti fatto davvero.»
«Non era in grado di darmi quello che volevo, mentre tu sì. Ti amo. Voglio stare con te. Nessuno potrà mettersi tra noi.»
«Stop!»
Dall’espressione del regista capisco che stavolta è andata bene. Adesso devo solo aspettare che riguardi e approvi la scena e poi me ne posso andare.
Sono fuori al sole a chiacchierare con Jack, quando vedo il golf cart in lontananza. All’inizio non ci bado e continuo a parlare dei tempi che ci vorranno per la postproduzione. Poi però riconosco la donna seduta sul golf cart che viene verso di noi. Non è possibile.
L’ispettrice Alex Croft sorride da un orecchio all’altro. Il golf cart si ferma proprio davanti a noi e lei scende, raggiante. Il suo collega, che non sorride, scende con un balzo e si passa una mano sui pantaloni, come a stirare le pieghe.
«Grazie! E grazie anche a lei», aggiunge l’ispettrice, rivolta prima al conducente e poi a me.
«Di cosa?»
«Ho sempre sognato di visitare degli studi cinematografici a bordo di un golf cart, e adesso l’ho fatto! Tutto grazie a lei! C’è un posto in cui possiamo parlare?»
Proprio quando penso che le cose non potrebbero peggiorare, arriva il regista. «Questa è un’area riservata. Non so chi sia, ma non può stare qui.»
L’ispettrice Croft sorride. «Questo è il mio distintivo, per cui posso eccome. Scusate, ero così presa dall’euforia che ho dimenticato di presentarmi. Sono l’ispettrice capo Croft...»
L’espressione di Jack parla forte e chiaro, non c’è bisogno che dica nulla.
«Scusatemi, questi due poliziotti sono qui per via di alcune mie questioni personali. Ci penso io.» Interrompo la conversazione e aspetto che gli altri si allontanino fino a essere fuori portata d’orecchio.
Jack continua a girarsi e a guardarmi, e io gli sorrido per rassicurarlo, poi mi rivolgo ai poliziotti. «Dovevate proprio venire sul set?»
«Qual è il problema?»
«Avreste potuto telefonarmi.»
«Sì, però se lo avessimo fatto adesso non saremmo qui. Lei ci sarà anche abituata, ma per me è un po’ come Disneyland. Anche se non sono mai stata nemmeno lì.»
«Cosa volete?»
«Chiunque altro avrebbe chiesto: ’Avete trovato mio marito?’»
«Avete trovato mio marito?»
«Purtroppo no, ma ho bisogno del suo aiuto. Non c’è un posto un po’ più appartato in cui possiamo parlare?»
La sua faccia s’illumina come un albero di Natale quando entriamo nel mio camerino. «Ci sono anche le lucine intorno allo specchio!»
«Sì. Diceva che le serve il mio aiuto?»
«Esatto. Dopo la sua deposizione, temo che siamo finiti in un vicolo cieco. Le faccio le mie scuse. Sa, lavoriamo come pazzi e a volte sbagliamo anche noi.» Tira fuori l’iPad dalla tasca interna della giacca. «Stando a quello che ha dichiarato, dopo essersene andata dal ristorante è tornata subito a casa, si è messa a letto e il giorno dopo è andata al lavoro, credendo che suo marito dormisse nella stanza degli ospiti.»
«Esatto.»
«Però non ci ha detto di aver fatto anche un giro con la macchina di suo marito.»
«Non ve l’ho detto perché non l’ho fatto.»
«Ah, no? Strano, perché questa sembra proprio lei...» Gira lo schermo verso di me e poi, col ditino sottile dall’unghia corta, comincia a far scorrere le fotografie. «È vero che l’immagine è un po’ sfocata in confronto a quella del ristorante, ma questa donna che paga alla cassa della stazione di servizio sembra proprio lei. Abbiamo trovato lo scontrino della stazione di servizio e, come avrebbe fatto chiunque altro, abbiamo dato per scontato che quello riportato fosse il costo del carburante. Io almeno l’ho pensato. Ed è qui che ho bisogno del suo aiuto, perché, stando ai registratori di cassa, questa donna – la stessa che ha usato la macchina e la carta di credito di suo marito e che assomiglia a lei – non stava pagando per il carburante. Questa donna ha comprato diversi flaconi di gel infiammabile, che è una cosa che le persone impazienti usano per il barbecue. E quindi le chiedo... è proprio sicura di non essere lei? Questa donna, dico. Non mi interessa sapere se è impaziente.»
Guardo la donna nell’immagine. Indossa un cappotto identico al mio, ha i capelli scuri, lunghi e ricci e un paio di occhiali da sole giganti che le coprono il viso. «No, non sono io.»
«Le assomiglia, però. Tu non pensi che assomigli a Mrs Sinclair, Wakely?»
«Direi proprio di sì.»
«Avete indagato sulla stalker che mi tormentava anni fa? Quella di cui vi ho parlato?»
«Perché? Le assomiglia anche lei?»
«Sì. Non l’ho mai vista da vicino, ma si vestiva come me e si appostava fuori casa mia.»
«Sa qual era il suo nome?»
«Gliel’ho già detto: no. Non il suo vero nome, almeno.»
«Perché, come si faceva chiamare?»
Non rispondo subito, perché non ho voglia di dirlo ad alta voce, ma mi rendo conto che devo farlo. «Si faceva chiamare Maggie. Maggie O’Neil, però non era il suo vero nome.»
«Come fa a saperlo?»
«Perché Maggie O’Neil è morta.»