Essex, 1987
«Su, alzati. Oggi devi vestirti e venire di sotto. Non ho tempo di salire sempre a controllarti.» Maggie entra come un tornado nella mia stanza, ancora in camicia da notte. Apre le tende e fuori, oltre le sbarre, c’è un’altra giornata grigia. Tira via la coperta e io ho freddo.
Indosso ancora il pigiama con scritto AIMEE per ricordarmi il mio nuovo nome. Non l’ho mai tolto da quando sono arrivata qui, e credo che siano passati tre giorni. «Perché ci sono le sbarre alle finestre?»
«Per tenere lontani i cattivi. Ci sono persone malvagie che vogliono quello che non gli appartiene, e queste sbarre ci servono per stare al sicuro.»
La sua spiegazione non mi fa sentire al sicuro, mi fa paura. Poi penso che io non appartengo a Maggie e lei mi ha portato via.
Apre l’armadio bianco e vedo che dentro c’è un mucchio di vestiti. I vestiti di qualcun altro. Tira fuori una maglietta viola e un paio di pantaloni, poi li mette sul letto con delle mutandine e un paio di calzini. «Mettiteli.» Poi esce. Quando torna è vestita e ha il viso tutto colorato: arancione sulle guance, marrone sugli occhi e rosso sulle labbra. Indossa una gonna corta e stivali alti. Mi guarda, vede che i pantaloni mi calano, scuote la testa e fa una smorfia. Fa un sacco di smorfie. «Sei ancora troppo magra. Devi mangiare di più. Togliteli.»
Faccio come mi ha detto mentre lei riapre l’armadio e comincia a spostare nervosamente le stampelle, come se non trovasse niente di suo gusto.
«Prova questi.» Mi fa infilare una gamba alla volta in questi cosi blu che non ho mai visto prima.
«Cosa sono?»
«È una salopette.»
Ripeto quel nome strano a voce bassa, allenando la lingua a quei nuovi movimenti.
«Sbrighiamoci, adesso, devo lavorare. Andiamo di sotto.»
Da quando sono arrivata, non sono mai tornata di sotto.
Non mi era permesso.
C’è persino un cancelletto bianco sul pianerottolo, a prova del divieto.
Quando Maggie apre il cancelletto e mi spinge sul primo gradino, ho un po’ di paura. Avevo dimenticato quanto fosse alta questa scala e mi viene la nausea a guardare tutti quei gradini. A casa non avevamo le scale, era tutto al piano terra, e lo preferivo. «Cosa sono questi?» le chiedo, cercando di non mettere i piedi sulle punte argentate che fuoriescono dalle listarelle di legno a terra.
«Servono a fissare la moquette. Adesso però sbrigati.»
Mi appoggio ai pannelli di sughero. «E la moquette dov’è?»
«La moquette costa un sacco di soldi e i soldi non crescono sugli alberi. In camera tua hai una bella moquette, solo di questo ti devi preoccupare. Hai la camera più bella di tutta la casa, per cui sforzati di mostrare un po’ di gratitudine, tesoro.»
È così che le piace chiamarmi adesso: tesoro. Un altro nome nuovo, come Aimee.
Quando arriviamo in fondo alle scale penso che stiamo per uscire, e allora mi preoccupo un po’, perché non ho né il cappotto né le scarpe. Ma poi non usciamo.
Maggie prende il suo enorme mazzo di chiavi e ne infila una nella toppa della porta di metallo che ho visto la sera che siamo arrivati. Poi fa scorrere il chiavistello in alto, quello in mezzo e quello in basso. Quando apre la porta non si vede niente, è tutto buio. Poi però preme un interruttore e si accendono tutte le luci sul soffitto. Sembra di essere in una navicella spaziale. «Ecco, questo è il negozio.»
Non sembra affatto un negozio. Ci sono un sacco di schermi e mi chiedo come sia possibile che qualcuno riesca a guardare più televisioni allo stesso tempo. Pagine di giornale e locandine con numeri e foto di cavalli sono attaccate alle pareti. Ci sono sgabelli di pelle più alti di me e posacenere ovunque. In un angolo c’è un bancone che sembra un po’ quello di una banca. Ha un vetro davanti con dei forellini in cui bisogna parlare.
«Non devi mai venire in negozio quando ci sono i clienti. Devi restare nel retro.» Apre la porta che conduce dietro il bancone. Ci sono due registratori di cassa e dei foglietti di carta.
«Cosa si vende in questo negozio?»
«Siamo allibratori.»
Ci penso un po’. «E dove sono allora tutti i libri?»
Maggie scoppia a ridere. «Non vendiamo libri, tesoro.»
«E allora cosa?»
Ci riflette un istante e poi mi sorride. «Sogni.»
Non capisco.
Entriamo in un’altra stanza in cui ci sono un sacco di telefoni, una macchina enorme che mi mette un po’ di paura e un lavandino sporco. Da lì andiamo in un’altra stanzetta ancora che ha solo una piccola scrivania, un televisore e una porta che probabilmente dà sull’esterno. Mi fa sedere sulla sedia spingendomi con le mani e facendomi un po’ male.
«Mi riporti a casa mia per il mio compleanno? È la settimana prossima. Compio sei anni il 16 settembre.»
«È questa casa tua, adesso. E il tuo compleanno non è la settimana prossima, ma ad aprile. Compirai sette anni.»
Non so cosa risponderle. Si sbaglia. So quanti anni ho e quand’è il mio compleanno.
«Sai cos’è una scommessa?»
«Sì.»
«Dimmelo, allora.»
«È quando dici: ’Scommetto che oggi piove’.»
Maggie scoppia a ridere e mi ricordo di quanto è carina quando sorride. «Bravissima, esatto. Il negozio è un posto in cui la gente viene a fare scommesse, non sul meteo, però. Scommettono sui cavalli e a volte sui cani.»
«Cavalli e cani? Come si fa a scommettere su un cavallo?»
«Be’, i cavalli partecipano a delle gare e la gente scommette su quale di loro vincerà. E lo fanno per i soldi.»
Cerco di capire il senso di questa cosa. «E se poi perdono?»
«Ottima domanda. Se perdono, i loro soldi ce li teniamo noi e compriamo la moquette. Capito?»
Scuoto la testa e lei comincia ad arrabbiarsi. «Ma i negozi vendono cose, di solito.»
«Sì, e noi lo facciamo. Te l’ho detto prima, vendiamo sogni, tesoro. Sogni che non si avvereranno mai.»