24

Essex, 1988

«Non so se è pronta», dice Maggie.

«È pronta. Deve solo camminare e tenermi la mano, non è difficile.»

Credo che stiano litigando. Litigano un sacco, chissà se lo facevano anche mio padre e mia madre prima che la mamma morisse. Forse è tipico dei grandi: strillano cose che non hanno niente a che fare col motivo del litigio.

«Preferiresti che succedesse qualcosa a me? Comincio a domandarmi a chi tieni di più. A me o a una ragazzina che non è neanche la nostra vera figlia?» chiede John.

Sento il rumore del ceffone di Maggie sulla sua guancia. Lo conosco bene, perché a volte li dà a me. Poi sento i passi pesanti di John che vengono verso la mia cameretta e un secondo dopo la porta si spalanca. Mi prende per il polso e mi trascina in corridoio. Quando passiamo davanti alla loro camera da letto, intravedo Maggie. Non l’ho mai vista piangere.

Inciampo sui gradini un paio di volte mentre scendiamo, ma John mi strattona per un braccio finché i miei piedi non ritrovano il suolo. Quando arriviamo di sotto penso che aprirà la porta metallica che conduce in negozio, invece no. Si china fino a mettere la faccia proprio davanti alla mia. Il suo alito ha un odore cattivo e mentre mi parla dalla sua bocca schizzano goccioline di saliva che mi finiscono sulle guance e sul naso. «Resta attaccata a me tutto il tempo. Tienimi la mano. Non fare e non dire niente a nessuno, o ti sculaccio così forte che non potrai sederti per una settimana. Se qualcuno ti dice qualcosa, sorridi e basta. Io sono tuo padre e stiamo andando a fare una passeggiata. Capito?»

Non ho capito quasi niente, ma mi dimentico di rispondere perché lo guardo masticare. Da qualche giorno invece di fumare mastica gomme, e io penso che forse sarebbe meglio se fumasse, perché le gomme da masticare lo rendono nervoso.

John bussa sulla mia fronte come se fosse una porta, facendomi male. «Ehi, c’è nessuno in casa? Metti le scarpe.»

Non le metto da quando sono arrivata in questa casa e mi ci vuole un po’ per ricordare come si fa. Credo che mi siano cresciuti i piedi, perché le scarpe adesso mi stanno strettissime. John scuote la testa come se avessi fatto qualcos’altro di sbagliato, poi apre la porta da cui sono entrata la prima volta e allora capisco che stiamo uscendo.

Ci sono case e alberi, prati, sole e tantissime altre cose da guardare, ma camminiamo così di fretta che tutto scorre troppo veloce. John va così veloce che per stare al passo devo correre. Con una mano stringe la mia e nell’altra porta un borsone rosso sportivo.

Mi lascia la mano solo quando entriamo in banca. So che si tratta di una banca perché ne ha l’aspetto e perché c’era scritto fuori. Negli ultimi tempi ho letto talmente tanto che penso di essere diventata bravissima. Il bancone è identico a quello che c’è in negozio, con tanto di pannello di vetro fra noi e la donna che ci lavora. Non sono abbastanza alta per vederla, però sento la sua voce che esce dai forellini sul vetro. Dalla voce me la immagino carina. Chissà se lo è per davvero.

John apre il borsone e comincia a tirar fuori mazzette di soldi che posa sul bancone. La signora che non vedo glieli fa mettere in un vassoio, poi lo tira verso di sé per svuotarlo e lo spinge di nuovo verso di lui. Ci sono un sacco di soldi, per cui ci mettono un po’. John tira fuori prima mazzette di banconote tenute assieme da grossi elastici e poi delle bustine colorate in cui ci sono le monete. In quelle verdi ci sono le monete da dieci e venti centesimi, in quelle gialle le monete da cinquanta e in quelle rosa le monete da una sterlina. Ci sono un sacco di bustine rosa. Quando il borsone sportivo è vuoto, John ringrazia la signora e le chiede se può offrirle da bere. Deve aver pensato che ha sete.

Mi stringe la mano un po’ meno forte, sulla strada del ritorno. Io cammino più piano che posso, perché mi piace stare all’aperto. Mi piace vedere di nuovo il cielo e gli alberi e sentire il sole sulle guance. Mi piace la voce del signore davanti al negozio di frutta e verdura, che dice: «Dieci susine una sterlina». Mi piace anche l’omino verde nella scatola nera che ti dice quand’è il momento di attraversare.

John dice che non abbiamo tempo di aspettarlo e allora attraversiamo anche se adesso c’è l’omino rosso. «Sei stata brava e ti meriti un premio.»

Non rispondo, perché temo che i suoi premi siano come le sorprese di Maggie e non sono sicura che si tratti di una bella cosa.

John chiama «sfilata» la serie di negozi davanti alla quale viviamo. Non capisco bene perché. A casa mia una sfilata è qualcosa di colorato con tante persone in costume che camminano e ballano, invece qui è tutto deserto. Ci sono cinque negozi l’uno accanto all’altro: un ortolano – cioè un negozio che vende frutta e verdura, anche se non ha un orto davanti –, un videonoleggio, il nostro negozio di scommesse, un posto in cui la gente porta a lavare i vestiti e poi un negozietto all’angolo che a giudicare dalla vetrina vende un po’ di tutto.

Quando apriamo la porta suona un campanellino. C’è una donna con la pelle scura seduta dietro la cassa. Finora le avevo viste solo in televisione, le persone con la pelle scura. Ha un puntino rosso in mezzo alla fronte e per me è la donna più bella del mondo.

«Chiudi la bocca, Aimee, non sei un merluzzo», dice John.

Mi metto a ridere perché lo dice anche Mary Poppins ed è una battuta che mi fa sempre ridere. Mary Poppins è un film che John mi ha registrato a Natale su una cosa che si chiama «videocassetta». Lo guardo sempre.

«Sbrigati, scegli qualcosa prima che cambi idea.»

Mi ritrovo in mezzo a file e file di dolciumi e patatine. Non ne ho mai viste così tante. Non le conosco, per cui non so quali scegliere.

John nota la mia indecisione. «Che ne dici se prendessimo un pacchetto di Monster Munch? Magari anche una bustina di Hula Hoop per Maggie e una bella tavoletta di Dairy Milk da dividerci?»

Andiamo alla cassa e John tira fuori dei soldi dalla tasca per darli alla bellissima signora. Lei glieli cambia e John mi consegna dieci centesimi. «Prendiamo una bustina mista da dieci.» Mi solleva in modo che io possa guardare quello che c’è dietro il bancone. Ci sono tantissimi barattoli pieni di dolciumi di tutti i colori e le forme. «Tu le indichi il barattolo e la signora mette i dolcetti nel sacchetto. Ne puoi scegliere dieci.»

Faccio come mi ha detto e indico i barattoli che mi piacciono di più. Poi, quando il sacchetto con le righine rosa e bianche è pieno, la signora me lo dà. Voglio toccare la sua pelle e vedere se è come la mia, ma lei pensa che le voglia stringere la mano e allora facciamo così.

La sua mano è morbida e calda e la sua voce sembra una cantilena. «Piacere di conoscerti. Come ti chiami?»

«Mi chiamo Aimee.»

«Brava», dice John, contento perché ho detto il nome giusto.

Siamo tutti allegri quando usciamo dal negozio. John mi sorride e io gli sorrido di rimando, nonostante il suo dente d’oro.

Siamo quasi arrivati a casa e io non voglio rientrare. «John?»

«Papà.»

«Papà, cos’è successo alla bambina nella foto sul camino?» Non so cosa mi abbia fatto pensare a lei. Forse mi sono chiesta se anche a lei John comprava i dolciumi.

«È scomparsa.» Accelera il passo e devo ricominciare a correre per stargli dietro.

«Scomparsa?»

«Esatto, mezzacalzetta. Ma adesso è tornata ed è te.»

Non so bene cosa intenda. Solo io posso essere io.

Il corso principale era pieno di persone e rumori, qui invece è tutto tranquillo, come se ci fossimo solo io e John per strada. Siamo a qualche passo dal negozio di scommesse quando si sente una macchina che sgomma e poi delle urla. Succede tutto troppo in fretta, come quando si pigia il tasto sul videoregistratore per mandare avanti la cassetta.

Sono tre uomini, tutti vestiti di nero, con maschere di lana che gli coprono tutto il viso, come dei calzini enormi con dei buchi per gli occhi.

«Dammela», dice quello più alto.

Io penso che si riferisca alla mia bustina di dolciumi e la lascio cadere a terra. Ma non è con me che parla, ce l’ha con John e gli punta qualcosa addosso. Sembra il fucile del cacciatore di Bugs Bunny, però più corto, come se qualcuno lo avesse tagliato.

«Non ci sono soldi. Sono appena tornato dalla banca, idioti.»

Uno degli uomini gli dà un pugno nello stomaco e John si piega in avanti e tossisce.

«Ti do un’ultima possibilità, coglione», dice l’uomo con l’arma.

Io scappo. Voglio Maggie.

Il terzo uomo mi prende per i capelli e mi strattona. «Stai ferma dove sei, piccoletta.»

«Non fate male alla bambina! La borsa è vuota, guardate coi vostri occhi.»

L’uomo con l’arma la sbatte contro la faccia di John e lui cade a terra.

Poi sento uno sparo fortissimo.

Quando riapro gli occhi, capisco che non è stato l’uomo con l’arma a sparare, è stata Maggie. È davanti al negozio con una pistola in mano e la faccia arrabbiata. Non l’ho mai vista così furiosa. «Lasciate andare la bambina, tornate in macchina e andatevene, se non volete che spari a tutti.»

L’uomo che mi tiene ferma fa un sorrisetto e lei spara un colpo nella nostra direzione. Io cado a terra e mi sento strana. Maggie è proprio davanti a me, vedo le sue labbra che si muovono ma non riesco a sentire quello che dice. È come se qualcuno mi suonasse un campanello dentro la testa. Maggie guarda qualcosa dietro di me e io mi giro per vedere cos’è. I tre uomini cattivi sono risaliti in macchina e ora se ne vanno. Non credo che abbia sparato a quello che mi teneva. Penso che lo abbia mancato di proposito.

Mi accarezza i capelli e il mio orecchio sinistro decide di ricominciare a funzionare. «È tutto a posto, adesso, tesoro. Sei al sicuro.» Mi abbraccia e anch’io l’abbraccio, per la prima volta, perché anche se mi fa male so che non permetterebbe mai a qualcun altro di farmene. Mi prende in braccio e io le metto le braccia intorno al collo e le gambe intorno alla vita. Comincio a piangere solo quando vedo che i miei dolciumi sono tutti sparsi per terra.