40

Londra, 2017

La festa è in una location privata nel cuore di Londra. Anche da bambina detestavo andare alle feste. Non sapevo mai con chi parlare e non mi sentivo a mio agio. Non so mai come comportarmi, quando devo interpretare me stessa. Non ci voglio andare, stasera, ma il mio agente dice che invece dovrei. Considerato tutto quello che sta succedendo, mi pare saggio seguire il suo consiglio. Tony non capisce che questi eventi, dove la gente mi fissa tutta la sera, mi riempiono di una paura terribile e irrazionale.

Forse ho solo paura di ciò che potrebbero vedere.

Penso alla versione di me che devo interpretare stasera, premo un interruttore e la accendo, sperando che resti con me per tutto il tempo che mi serve. A volte non va così.

Passo davanti a un McDonald’s e mi ricordo che non ho mangiato. Torno indietro e ordino un Happy Meal, sperando che faccia il suo dovere, in un senso o nell’altro. Ordino le stesse cose che prendevo da bambina: crocchette di pollo e patatine fritte d’asporto. Non arrivo lontano, però. Non apro nemmeno la scatola. Vedo una senzatetto sdraiata su un pezzo di cartone e mi fermo. Penso che potrei esserci io al posto suo. Sembra infreddolita e affamata e allora le do il mio cappotto e l’Happy Meal, poi proseguo verso la metro.

Fisso il pavimento del vagone, evitando d’incrociare lo sguardo degli altri viaggiatori. Se io non vedo loro, loro non vedono me. Da bambina mi terrorizzava il pensiero di scomparire da un momento all’altro, come la bambina che abitava nell’appartamento sopra il negozio prima di me. Non ho ancora figli, anche se li vorrei tantissimo, e il tempo per realizzare questo sogno è agli sgoccioli. Ormai posso lasciare qualcosa di me anche dopo la morte solo attraverso il lavoro. Se riuscissi a recitare in un film importante, interpretare un ruolo memorabile, allora forse una piccola parte di me continuerebbe a esistere anche dopo. Una volta una persona mi ha detto che la gente come me nasce nel fango e muore nel fango, ma io non voglio che sia vero. Il provino con Fincher potrebbe salvarmi, e se ottengo la parte... be’, forse potrei smettere di preoccuparmi di scomparire nel nulla.

Scendo dalla metro e sgomito per risalire in superficie. Percorro la scala mobile, supero i tornelli e salgo l’ultima rampa di scale che mi riporta all’aria aperta. Ho freddo, senza il cappotto che ho dato a quella ragazza, ma mi sento meglio in superficie e mi ricordo di respirare.

È solo una festa.

Abbandono la versione di me che devo interpretare stasera e la perdo nella folla. Le mie paure alzano il volume al massimo. Mi guardo le scarpe rosse: è come se si fossero incollate al marciapiede. Chissà se battendo tre volte i tacchi riuscirei a sparire per magia. Ma non ho una casa cui tornare, non ce l’ho mai avuta. Non sono mai stata davvero Dorothy, la interpretavo solo in quella recita scolastica. E non sono mai stata neanche Aimee Sinclair.

Più mi avvicino alla festa, peggio mi sento. Non dormo da giorni, ormai, e mi sembra di perdere la presa sulla realtà. Appoggio una mano tremante a un muro e cerco di ritrovare l’equilibrio in mezzo al traffico feroce dell’ora di punta. Un taxi nero mi sfreccia accanto, un bus a due piani mi viene incontro e i suoi finestrini sono occhi malefici. So che è solo frutto della mia immaginazione, però mi giro e cerco di scappare, facendomi largo tra la folla di pedoni nella direzione opposta. Sembra che serrino le file e lo facciano apposta a non lasciarmi passare. Mi metto le mani davanti alla faccia e chiudo gli occhi. Quando sbircio tra le dita, mi pare che il mondo intero mi fissi. Tutte quelle facce di colori diversi cominciano a mescolarsi e confondersi con le luci dei lampioni e i fari delle auto, come se qualcuno avesse preso un pennello e avesse cancellato e ridipinto la scena.

Abbasso le mani e vedo che sono dello stesso colore del bus a due piani. Gocciolano qualcosa che sembra vernice rossa. O forse sangue. Chiudo gli occhi di nuovo e, quando li riapro, il mondo è tornato normale. Premo di nuovo l’interruttore della persona che devo interpretare stasera e ordino ai miei piedi di proseguire verso la festa.

Posso farcela.

Siamo tutti capaci di fingere, quando c’è in ballo la sopravvivenza. Uno scudo di bugie ci protegge dalle verità più terribili.

La location della festa è in una piazzetta elegante a pochi passi da Soho, fra tre villette a schiera in stile georgiano. Mi armo di finta sicurezza e suono il campanello. La grande porta nera si apre per rivelare interni ancora più georgiani e lussuosi. L’atmosfera è raffinatissima. Un cameriere attende con un vassoio coperto di bicchieri di champagne davanti a un elaborato scalone di granito. Prendo una flûte e bevo un sorso, sperando che l’alcol possa placare almeno un po’ la mia ansia. Mi ricordo che sono la protagonista del film di cui festeggiamo la fine delle riprese e che ho tutto il diritto di essere tra gli invitati, anche se in realtà queste cose nella mia testa sembrano solo menzogne.

La casa di produzione ha affittato l’intera villetta, tutti e tre i piani. Prima sono andata sul sito per studiarne l’interno. Sapere com’è fatto un posto mi aiuta, quando l’idea di partecipare a un evento mi agita. Giro per le varie stanze, ognuna con uno stile ben preciso. Mi sento come un’ospite di un club esclusivo di cui non potrò mai essere membro.

Annuisco e sorrido quando qualcuno mi saluta con la mano e prendo un’altra flûte di champagne al bar prima di cambiare stanza. Le pareti sono azzurre, qui. Mi piacciono, trovo rilassante questo colore. Poi la vedo venire verso di me con l’andatura di una top model esperta e quel poco di tranquillità che avevo conquistato si dissolve.

Alicia White non dovrebbe essere qui.

«Aimee, cara. Come stai?» Mi bacia le guance senza nemmeno sfiorarle. Indossa un vestito rosso così vaporoso che potrebbe spiccare il volo da un momento all’altro, e un paio di tacchi altissimi su cui io non riuscirei mai a camminare. È abbronzatissima e magrissima. Vicino a lei mi sento ancora più pallida e paffuta. Ora che ha i capelli identici ai miei, sembriamo due versioni della stessa persona, prima e dopo la cura dimagrante. Ovviamente io sarei il prima.

Rispondo al suo sorriso falso con un altro sorriso falso. «Benone, grazie. Sono contenta di vederti. Anche qui.» Non sono contenta di vederla, non lo sono mai. Non dovrebbe essere qui, non ha lavorato al film. Non ha senso e mi viene il dubbio che si sia imbucata per infastidirmi.

«È strano pensare che avrei potuto esserci io, in questo film, se non avessi rifiutato la parte.»

Si dà così tante arie che rischia di spiccare il volo. «Sì, me lo accennavi l’altra volta.» Quanto vorrei darle un pugno in faccia. Se lo meriterebbe. Non ho mai dato un pugno a nessuno e ho paura di farmi male.

Le sue labbra rosse si muovono e tremo al pensiero di quello che potrebbe uscire da quella bocca velenosa. «So bene quanto ci si senta spaventati quando non si ha molta esperienza, ma Tony sa quello che fa. Sono certa che non ti avrebbe proposto questo ruolo se avesse pensato di farti ottenere qualcosa di meglio. A volte bisogna accontentarsi di quello che capita.»

Ma vaffanculo, tu e il tuo egoismo travestito da empatia. «A proposito di Tony, l’ho visto proprio oggi.»

«Che bello. Come sta?»

«Sta bene. Mi accennava che non è più il tuo agente.»

Il suo sorriso cede per un istante così breve che rischio di perdermelo. «Sì, è vero. È arrivato il momento di voltare pagina.»

Dev’essere bello amarsi tanto quanto lei ama se stessa. Io non ho questa fortuna. Ma c’è qualcosa di triste e patetico, in lei. Le luci della ribalta l’hanno lasciata al buio e lei non se n’è neanche accorta. Immagino che nessuno le abbia mai detto che anche il sole muore, quando non è più il suo momento di brillare. Morire è il destino di tutte le stelle.

«Oh, guarda che belle scarpette rosse. Che dolce, sembri proprio la Dorothy di quello spettacolo di tanti anni fa. Mi ci è voluto un po’, però alla fine ti ho perdonata per avermi rubato la parte in quella recita a scuola.»

Le sue parole mi arrivano un po’ confuse. Non sapevo che avesse partecipato anche lei alle audizioni per il ruolo di Dorothy. Mi avrà odiato, considerato poi che ero un anno più piccola di lei. Alicia è sempre stata l’ape regina e ha sempre ottenuto quello che voleva. «Io non... non sapevo che tu...»

«Come no.»

«No, davvero. Se lo avessi saputo... be’, saresti stata perfetta nella parte.» L’acqua non uccide le streghe nella vita reale; meglio farle fuori con la gentilezza.

Scoppia a ridere. «Lo so, ma cosa vuoi che importi, adesso. Sono passati più di vent’anni! Ti starai chiedendo cosa ci faccio qui stasera.»

Ti sarai imbucata, come al solito.

«Lo abbiamo tenuto nascosto, finora, però lui non ce la fa a continuare a fingere, e per me è lo stesso. È qui in giro da qualche parte. Sono difficili, le relazioni, quando si sta spesso lontani per lavoro, ma tu lo sai bene. Come sta tuo marito?» Si guarda intorno.

Non ho proprio nessuna voglia di incontrare il suo nuovo fidanzatino. Sto per inventarmi una scusa e allontanarmi quando la sento dire: «Jack, tesoro, vieni a salutare la tua coprotagonista».

Mi si stringe lo stomaco.

Jack si stacca da un gruppetto di uomini che chiacchieravano in un angolo e viene verso di noi. Lei gli mette il suo braccetto rachitico intorno alla vita non appena può, però lui guarda solo me, come se sapesse che al suo fianco c’è Medusa. Lei gli dà un bacio sulla guancia, lasciandogli il segno del rossetto, e mi guarda, come se volesse vedere la mia reazione. Il mio sorriso rischia di crollare e mantenerlo mi costa una fatica immane.

«So bene che le foto di quell’articolo non erano vere, ma stasera non posso trattenermi a controllarvi, per cui non fatevi venire strane idee. Ho bisogno di riposare per essere in forma, domani: ho un provino per il prossimo film di Fincher.»

La mia espressione cambia per un istante brevissimo, però lei se ne accorge.

«Oh, ce l’hai anche tu? Non pensavi mica che avrebbe visto solo te, eh? Che tesoro che sei, così dolce e ingenua.»

Sfodero il sorriso più sincero che posso. «Ho appena visto una persona che devo salutare, volete scusarmi?» Me ne vado senza aspettare risposta. Mi ritrovo in una stanza rossa, stavolta: ha le pareti rosse, i mobili rossi, la moquette rossa come le mie scarpe. Non riesco a smettere di pensare a una cosa che non dovrei pensare. Non è mio, questo pensiero, prima o poi dovrò lasciarlo andare. Non mi ci devo affezionare. Ma per ora, per un altro po’, mi permetto il lusso di tenermelo stretto. Prendo un altro bicchiere di champagne mentre nella mia testa sento e risento la stessa frase, forte e chiara.

Vorrei che Alicia White morisse.