Londra, 2017
Alla festa, penso a come sarebbe se Alicia morisse.
Mi rendo conto che questi pensieri non sono né normali né sani, ma sono gli unici che in questo momento occupano la mia mente e a essere sincera non mi dispiacciono affatto. Voglio bere qualcos’altro. Offrono drink ovunque, qua dentro, per cui almeno uno dei miei desideri posso soddisfarlo senza troppi problemi. Salgo la scala a spirale fino al secondo piano, il più lontano possibile da Jack e Alicia.
Non so perché mi sento così turbata o sorpresa. Non è una novità che gli uomini perdano la testa per donne come lei: la bellezza li acceca e non vedono il marcio che c’è dietro. Per quale motivo Jack dovrebbe essere diverso da tutti gli altri? Non è che poi pensassi che ci fosse davvero qualcosa tra noi; l’attrazione sessuale era solo qualcosa da mettere in scena sul set e l’amicizia che è nata tra noi è solo il risultato di tanti mesi passati assieme, la confidenza che si sviluppa tra due persone quando condividono qualcosa.
Per quanto riguarda il provino, penso che sia normale che i miei sentimenti siano feriti, visto che Tony l’aveva messa come se la parte fosse già mia. Il fatto è che a quanto pare gli agenti, come tutti, a volte dicono alle persone quello che vogliono sentirsi dire. Forse cercava solo di aumentare un po’ la mia fiducia in me stessa dopo l’uscita di quell’articolo sulla mia fantomatica relazione extraconiugale. Forse aveva capito che ero a pezzi e voleva metterci una toppa, salvaguardare il suo investimento.
I drink sono gentilmente offerti dalla casa di produzione, per cui ne prendo un altro. Sento di essermelo meritato. L’ansia influisce sul mio rapporto col cibo e con l’alcol: mi allontana dal primo e mi avvicina al secondo. So bene che dovrei smettere subito, ma a volte i consigli che diamo a noi stessi sono i più difficili da seguire. Il barman sembra sorpreso di rivedermi così presto. Gli dico che questo drink è per una mia amica e lui annuisce educato. È chiaro che le mie doti attoriali stasera non fregano nessuno.
Scendo al piano di sotto ed entro in un’altra stanza. Ci sono divani in pelle neri, luci soffuse e quadri contemporanei appesi alle pareti. Anche le tende sono nere e nascondono il mondo che c’è fuori, che a sua volta non vede noi. Il barman qui non mi ha ancora servito e quindi non può giudicarmi come io invece sto giudicando me stessa. Prendo ancora un’altra cosa da bere e poi basta.
Scendo un’altra rampa di scale e sono al punto di partenza, al piano terra. Non resterò molto, ma non posso ancora andarmene. Anche perché dove potrei rifugiarmi? Devo farmi vedere mentre saluto un altro po’ di gente per il bene della mia carriera. La gente comune non conosce i meccanismi che muovono questo mondo. E forse è meglio così. Quando un mago svela il trucco, è difficile continuare a credere alla magia.
Entro in un’altra stanza, che ancora non ho visto. È tutta viola e il bancone del bar è di metallo. Le luci sono così basse che non distinguo le facce. Sento una brezza e vedo qualcosa oltre le finestre della stanza viola: un giardino. Esco in quella gemma nascosta, appartata ma spaziosa. Una cosa molto inusuale da trovare nel centro di Londra. C’è un gazebo bianco decorato con stelle dorate al centro del giardino e in fondo un bar in cui servono champagne. Ecco dove si nascondevano tutti: all’aria aperta. Prendo un altro drink, ignorando la voce severa nella mia testa che mi consiglia di non farlo. Poi mi metto a guardare la gente in faccia e individuo il regista con la moglie. Parlano con delle persone che non ho mai visto, però mi unisco comunque a loro, perché mi sento un po’ più al sicuro a stare assieme a qualcuno che conosco. Mi sforzo di seguire la loro conversazione, sperando che riesca a zittire i pensieri che mi affollano la testa. Mi sembra di vedere il flash di una macchina fotografica, ma, quando mi giro, non c’è nessuno che punti un obiettivo nella mia direzione. Del resto stasera non ci dovrebbero essere giornalisti in giro, non è quel tipo di festa.
La moglie del regista tira fuori un pacchetto di sigarette dalla borsa. L’odore del fumo mi riporta sempre indietro nel tempo, e i ricordi che evoca non sono sempre piacevoli. La guardo mentre se ne porta una alle labbra coperte di rossetto. Sono sigarette diverse dal solito: lunghe, sottili e completamente bianche, come se non avessero filtro.
«Che sigarette eleganti.»
Se la toglie dalle labbra con le sue dita curate. «Ne vuoi una?»
Non fumo da quando avevo diciott’anni. «Sì, grazie», dice una voce che esce dalla mia bocca.
L’accende per me, proteggendo la fiamma dal vento, mentre racconta aneddoti di Hollywood e io l’ascolto senza capire davvero. Inspiro il fumo, godendomi lo sballo momentaneo della nicotina. Comincio a pensare che non c’è molto che non farei per diventare una versione accettabile di me stessa. La versione che potrei perdonare per tutte le cose terribili che ho fatto per arrivare dove sono oggi.
Mi distraggo facilmente dalla conversazione e sposto l’attenzione su un uomo dall’altra parte del giardino. L’altezza, la corporatura e i capelli mi sembrano un po’ troppo familiari.
È lui.
Non gli vedo il viso, ma ogni fibra del mio essere mi dice che quell’uomo è mio marito.
D’un tratto ho freddo e le dita con cui tengo la sigaretta cominciano a tremare. I miei occhi vorrebbero che si voltasse, per provare che mi sbaglio, però non si gira, anzi, se ne va. Lo seguo, cercando di non attirare l’attenzione. Non riesco a stargli dietro e lo perdo nella folla. Ripercorro i miei passi, cercandolo disperatamente in ognuna delle stanze in cui sono stata, ma alla fine torno in giardino senza averlo trovato. Devo essermelo immaginato.
Sono stanca, un po’ brilla. La mente mi sta giocando degli scherzi, tutto qua.
Ritorno al gruppetto di persone con cui stavo prima e mi perdo di nuovo nei miei pensieri, con l’alcol e il fumo che uniscono le forze nel tentativo di zittirli. Continuo a chiedermi se quello che ho visto era un fantasma, o un ricordo.
Ben non può essere morto.
Perché io non l’ho ucciso. Me ne ricorderei.
Come ricordo tutte le volte in cui ho ucciso qualcuno.