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Londra, 2017

Attraverso di corsa il parcheggio per raggiungere l’edificio principale dei Pinewood. Non sono mai in ritardo, ma la visita inaspettata della polizia questa mattina mi ha destabilizzato.

Mio marito è scomparso, e con lui le diecimila sterline che erano sul nostro conto.

È un puzzle che non riesco a risolvere per quanto sposti i vari pezzi: ce ne sono troppi che mancano per completare la figura. Mi ripeto che devo mantenere la calma ancora per un po’. Il film è quasi finito, mancano solo tre scene da girare. Mentre attraverso di corsa i corridoi degli studios diretta al mio camerino, cerco di mettere da parte e dimenticare i miei problemi personali.

Sto per svoltare l’ultimo angolo prima del camerino, ancora con la testa fra le nuvole, quando m’imbatto in Jack, il coprotagonista del film.

«Dov’eri finita? Ti cercano tutti.»

Mi stringe la manica della giacca. Gli fisso la mano e lui la ritrae subito. I suoi occhi scuri sembrano leggermi come un libro aperto e vorrei che non fosse così, perché mi rende quasi impossibile mentirgli. Non posso sempre dire la verità, la mia incapacità di fidarmi delle persone non me lo permette. A volte, quando si lavora con qualcuno molto a lungo, si crea un’intimità che rende difficile celare del tutto a quella persona chi si è davvero.

Jack Anderson è affascinante e sa di esserlo. La sua bella faccia gli ha fatto guadagnare una fortuna ed è probabilmente la principale causa del suo successo, molto più delle sue doti attoriali. Porta sempre pantaloni e camicie che mettono in risalto il bel fisico, indossa il suo sorriso come un trofeo e la barbetta come una maschera. È poco più grande di me, ma ha già i capelli un po’ grigi, cosa che aumenta il suo fascino.

È evidente che tra me e lui c’è una certa chimica. Ed è chiaro pure che lui lo sa.

«Scusa.»

«Devi scusarti con gli altri, non con me. Non è che il mondo debba sempre starti ad aspettare solo perché sei bella.»

Mi giro a guardare se c’è qualcuno. «Non dire queste cose.»

«Cosa? Che sei bella? È vero. Solo tu non te ne rendi conto, e questa cosa ti rende ancora più affascinante.» Si avvicina, un po’ troppo.

Faccio un passo indietro. «Mio marito non è tornato a casa.»

«E allora?»

Aggrotto la fronte e lui cambia espressione, mostrando la preoccupazione che ci si aspetterebbe da chiunque in circostanze simili.

«Ha scoperto di noi due?» È diventato serissimo. Poi gli si formano delle rughe intorno agli occhi da monello e scoppia a ridere. «Comunque c’è qualcuno che ti aspetta in camerino per un’intervista.»

Resto di stucco, come se mi avesse appena dato dell’assassina. «Cosa?»

«Pare che sia stato il tuo agente a organizzare tutto. E vogliono parlare solo con te, io non gli interesso. Non che sia geloso...»

«Non ne sapevo niente...»

«Sì, sì, tranquilla. Il mio ego ferito guarirà come sempre. Ma, visto che sono venti minuti che ti aspettano e non vorrei che scrivessero male del film solo perché ti sei dimenticata di mettere la sveglia, va. Datti una mossa.» Mette sempre qualche parola francese nelle frasi. Non ho mai capito perché, visto che è inglese. Se ne va senza aggiungere altro, né in inglese né in francese, e mi lascia sola, a chiedermi cosa sarà mai che lo rende così attraente ai miei occhi. A volte mi sembra che mi piacciano le cose solo perché non le posso avere.

Non sapevo nulla di questa intervista. Sicuramente non ne avrei mai fissata una proprio oggi. Le detesto. Detesto i giornalisti, tutti uguali, sempre a cercare di scoprire segreti che non dovrebbero essere affar loro. Compresi i fatti che riguardano mio marito. Ben è autore di servizi per il telegionare della TBN. Prima che ci conoscessimo faceva l’inviato in zone di guerra. Alcuni corrispondenti che hanno lavorato con lui a volte ancora lo citano nei loro articoli. Di quello che fa adesso so poco e niente, non vuole mai parlare di lavoro.

Quando l’ho conosciuto, mi piaceva perché lo trovavo romantico e affascinante. Il suo accento irlandese mi ricordava la mia infanzia e mi ispirava un senso di familiarità in cui mi volevo rifugiare. Ogni volta che credo che sia finita, ripenso agli inizi della nostra storia. Abbiamo deciso di sposarci troppo in fretta e ci siamo amati per troppo poco tempo, ma per un po’ siamo stati felici. Credevo che avessimo gli stessi obiettivi. A volte mi chiedo se non siano state le cose orribili che ha visto per lavoro a cambiarlo. Ben è diverso dai giornalisti con cui ho a che fare io.

Ne conosco parecchi, di quelli che lavorano per lo showbiz e i tabloid. Sono sempre gli stessi che si presentano agli eventi, alle première e alle feste. Chissà chi troverò nel camerino: magari uno di quelli che ha scritto recensioni positive, uno che già conosco. Se fosse così, non ci sarebbero problemi. Ma, se c’è qualcuno che non conosco, mi tremeranno le mani e le gambe e, quando il mio interlocutore si renderà conto del terrore nei miei occhi, comincerò a sudare freddo e non riuscirò più a formulare frasi di senso compiuto. Se il mio agente capisse cosa significa per me trovarmi in queste situazioni, la smetterebbe d’impormele. È come quando un bambino ha paura di entrare in piscina e il genitore lo butta nell’acqua alta, pensando che imparerà a nuotare per magia e non affogherà. Un giorno o l’altro mi faranno affogare, ne sono sicura.

Mando un messaggio al mio agente. Non è da Tony organizzare qualcosa senza avvisarmi. Ci sono attrici che danno di matto quando le cose non vanno secondo i piani, le ho viste coi miei occhi. Io non sono così e spero di non diventarlo. So di essere fortunata. Ci sono almeno un migliaio di persone che vorrebbero essere al posto mio e se lo meriterebbero di più. Tutto questo successo è ancora una novità per me e ho troppo da perdere. Non posso tornare al via, non ora. Mi sono impegnata tanto per arrivare dove sono.

Guardo il telefono. Tony non risponde, ma non posso più far aspettare la persona in camerino. Indosso il sorriso che ho perfezionato per queste occasioni e apro la porta su cui c’è scritto il mio nome.

La persona che trovo dentro si atteggia come se fosse casa sua. Non lo è.

«Scusami se ti ho fatto aspettare. Che bello vederti», mento, porgendole la mano e sforzandomi di non tremare.

Jennifer Jones mi sorride come se fossimo amiche di lunga data. Non lo siamo. La detesto, ha scritto cose orribili su di me in passato per ragioni che mai comprenderò. È la stronza che mi ha descritto come «in carne ma graziosa», quand’è uscito il mio primo film l’anno scorso. La chiamo Faccia da Sparviero per vendicarmi, però solo tra me, mai davanti agli altri. È minuta in tutto, in special modo nel cervello. Si alza e mi si fionda addosso come un rapace in picchiata, mi prende la mano e me la stringe entusiasta fra quelle sue ditine fredde e secche che sembrano artigli. L’ultima volta che ci siamo incontrate mi ha fatto domande su un mio film di cui dubito avesse visto anche solo una scena. È una di quei giornalisti che per il solo fatto di intervistare celebrità pensano di esserlo loro stessi. Ma lei non lo è affatto.

Faccia da Sparviero ha una cinquantina d’anni e si veste come farebbe sua figlia, se avesse messo da parte la carriera quanto bastava ad averne una. I capelli castani sono tagliati e acconciati come andavano di moda forse dieci anni fa, ha le guance troppo rosa e i denti troppo bianchi. La sua storia è già stata scritta e, per quanto lei si sforzi, non riuscirà mai a cambiarne il finale. Da quello che ho letto su Internet, sarebbe voluta diventare un’attrice, quand’era giovane. Forse è per questo che mi odia tanto.

Guardo quel suo beccuccio da sparviero che si apre e si chiude mentre starnazza falsi complimenti, ma la mia mente è già oltre, cerca di anticipare le bombe che sta per sganciarmi addosso. «Il mio agente non mi ha detto nulla di questa intervista...»

«Ah, be’, se preferisci me ne vado. Comunque è per il sito della TBN, niente telecamere, solo io e te. Per cui non ti devi preoccupare se hai i capelli o il trucco in disordine... Torno un’altra volta, se...»

Che stronza. Per tutta risposta sorrido e mi siedo di fronte a lei, con le mani conserte, per farle smettere di tremare. Il mio agente non accetterebbe mai di farmi fare un’intervista se non la considerasse una buona idea. «Spara.» E mi sento davvero come davanti a un plotone di esecuzione.

Faccia da Sparviero prende un taccuino da quella che sembra la cartella di scuola. La cosa mi sorprende un po’, considerato che ormai tutti i giornalisti registrano le interviste coi cellulari. Evidentemente i suoi metodi sono datati come la sua acconciatura.

«Hai cominciato a recitare a diciotto anni, quando hai vinto una borsa di studio alla Royal Academy of Dramatic Art, giusto?»

No, in realtà ho cominciato quando ero parecchio più piccola. «Sì.» Mi ricordo di sorridere, perché a volte me ne dimentico.

«I tuoi genitori saranno stati molto orgogliosi di te.»

Non rispondo mai a domande che riguardano la mia famiglia, per cui mi limito ad annuire.

«Hai sempre desiderato recitare?»

Questa è una domanda facile, me la fanno tutte le volte e la risposta che do pare soddisfare l’intervistatore. «Credo di sì, ma da ragazzina ero molto timida...» Lo sono ancora. «A quindici anni, ho partecipato a un’audizione per uno spettacolo organizzato dalla scuola. Era Il mago di Oz. Non pensavo che mi avrebbero preso. L’insegnante di recitazione ha affisso in bacheca la lista di chi aveva ottenuto una parte e non sono nemmeno andata a controllare. Me lo ha detto qualcun altro, che avevo ottenuto il ruolo di Dorothy. Credevo che mi stesse prendendo in giro, però poi sono andata a vedere coi miei occhi ed era vero, c’era scritto: DOROTHY – AIMEE SINCLAIR. Ho pensato che fosse un errore, poi l’insegnante mi ha spiegato che non era un errore, che credeva in me perché sapeva che io invece non avevo fiducia in me stessa. Nessuno aveva mai creduto in me prima. E allora ho imparato le battute a memoria, ho provato le canzoni e mi sono impegnata tantissimo. Per lui, non per me, perché non volevo deluderlo. Scoprire poi che ero brava e che stare sul palco mi piaceva è stata una sorpresa. Da quel momento in poi, recitare è diventato il mio più grande desiderio.»

Faccia da Sparviero sorride e smette di scribacchiare. «Hai recitato ruoli molto diversi negli ultimi due anni.»

Resto in attesa della domanda, poi capisco che non ne arriverà nessuna. «Sì, esatto.»

«Com’è stato?»

«Be’, per un attore è sempre una bella sfida interpretare personaggi diversi e misurarsi con più ruoli. È divertente e la varietà è gustosa.» Perché mai ho usato questa espressione? Non stiamo mica parlando di condimenti.

«E dunque ti piace fingere di essere qualcun altro?»

Esito, anche se non vorrei. È solo che sto ancora pensando alla risposta precedente. «Sì, immagino che si possa metterla in questi termini. Comunque credo che in realtà un po’ a tutti piaccia, ogni tanto.»

«Non fai mai fatica a ricordare chi sei quando le telecamere sono spente?»

Metto le mani sotto le gambe, perché tremano. «No, in realtà. È solo un lavoro. Un lavoro che adoro e per il quale sono molto grata.»

«Non ho dubbi a riguardo. Con questo ultimo film, sei diventata una vera celebrità. Come ti sei sentita quando hai ottenuto la parte in A volte uccido

«Entusiasta.» Ma mi rendo conto che dal tono non lo sembro affatto.

«In questo film interpreti il ruolo di una donna sposata che finge di essere una brava persona. Alla fine però viene fuori che si è macchiata di crimini orribili. È stato difficile calarsi nei panni di un personaggio così... riprovevole? Hai mai temuto che il pubblico non lo amerà quando scoprirà quello che ha fatto?»

«Non credo sia il caso di rivelare certe cose prima dell’uscita del film.»

«Oh, sì, certo, scusami. Prima accennavi a tuo marito...»

Sono abbastanza certa di non averlo fatto.

«Che ne pensa lui di questo ruolo? Ha cominciato ad andare a dormire nella stanza degli ospiti per paura che una di queste sere tu torni a casa e ti comporti come il personaggio che stai interpretando?»

Scoppio in una risata, sperando che sembri sincera. Comincio ad avere il dubbio che Ben e Jennifer Jones si conoscano. Lavorano entrambi alla TBN, anche se in settori molto diversi. È una delle più grandi aziende che lavorano nell’ambito dei media e della comunicazione, per cui non mi è mai venuto in mente che le loro strade potessero incrociarsi. E poi Ben sa bene quanto detesti questa donna: me lo avrebbe detto, se gli fosse capitato di conoscerla.

«Di solito non rispondo a domande che riguardano la mia sfera privata, ma non credo che a mio marito dispiacerebbe se dicessi che anche lui non vede l’ora che esca il film.»

«Sembra proprio il partner perfetto.»

Ho paura che la mia espressione tradisca qualcosa, per cui mi sforzo con tutta me stessa di sorridere. E se lo conoscesse davvero? Se Ben le avesse detto che ho chiesto il divorzio? Se è proprio questo il motivo per cui Jennifer si trova qui adesso? Se si fossero messi d’accordo per rovinarmi? No, sono solo paranoie. Qualche minuto e l’intervista sarà finita. Devo solo continuare a sorridere e annuire. Sorridere e annuire.

«Quindi non sei come lei, la protagonista di A volte uccido

«Io? Oh, no. Io non uccido neanche i ragni.»

Sorride. Sembra che le si stia per disintegrare la faccia. «Il tuo personaggio in questo film ha la tendenza a fuggire dalla realtà. È un aspetto che ti è stato facile interpretare?»

Sì. È una vita che fuggo.

Qualcuno bussa alla porta e mi salva. Mi vogliono sul set.

«Mi dispiace, ma dobbiamo chiudere qui. È stato un piacere vederti», mento.

Mentre lei mette via le sue cose e lascia il camerino, mi vibra il cellulare, è arrivato un messaggio. Non appena resto sola, lo leggo. È di Tony.

 

Dobbiamo parlare, chiamami appena puoi. E, no, non ho organizzato nessuna intervista, per cui che si tolgano dalle scatole. Non rispondere alle domande di nessun giornalista fino a che non avremo parlato.

 

Mi metto a piangere.