Mi sveglio ed è autunno, triste come sempre. È buio pesto fuori dalla finestra, ma il mio telefono insiste a dire che sia mattina. È come se la notte volesse trattenersi e la sua oscurità filtrasse e si espandesse dentro di me, come un contagio. Mi sembra di aver dimenticato come si accendono le luci e che d’ora in poi la mia vita non sarà altro che ombra.
Alicia White.
Jennifer Jones.
John Sinclair.
Maggie O’Neil.
Questi nomi continuano a girarmi in testa, perché sono certa che mio marito non ha agito da solo. A volte vorrei tornare al giorno in cui sono scappata da casa mia, in Irlanda. Chissà dove sarei, chi sarei se non fossi corsa via. Non avrei conosciuto nessuna di queste persone e forse la mia vita sarebbe più semplice, più serena, più tranquilla. E magari sarei felice.
Penso all’ispettrice Croft. Ha ragione, non le ho detto tutta la verità, ma non avevo scelta.
Mi giro a guardare Jack, che dorme accanto a me nel letto enorme. Russa un po’. Osservo le sue spalle, la schiena, la peluria bionda sul collo. Ha gli occhi chiusi e stringe i pugni, come se stesse lottando coi suoi sogni.
Forse lo facciamo tutti.
Ricordo tutto ciò che abbiamo fatto ieri sera: sarebbe difficile dimenticarlo. È stato così bello che vorrei non aver aspettato tanto. Non so cosa succederà, adesso. Forse, ora che mi ha avuto, il suo interesse svanirà. Non so se voglia di più. E non so cosa voglio io. Non posso non pensare che sarebbe bello se le cose rimanessero così, se potessimo godere dell’intimità senza legarci in una relazione vera e propria. Vogliamo sempre qualcosa dagli altri, siamo fatti così. La maggior parte delle relazioni, di qualunque natura sia, si basa su uno scambio, un compromesso. Non sono ingenua.
Mi alzo facendo il più piano possibile. Voglio stare sola per un po’, assicurarmi che i pensieri che ho in testa siano ancora i miei. Voglio tornare alla normalità e fare quello che facevo prima che questo incubo iniziasse. Lo devo fare, per me stessa.
Mi giro a guardare Jack prima di uscire dalla stanza e mi chiedo se sarà l’ultima volta che lo vedo così.
Esco e corro fino a casa mia. È ancora presto e, quando sono certa che non ci siano giornalisti o poliziotti in giro, entro. Prendo un vecchio borsone e lo riempio dell’essenziale: trucchi, biancheria intima pulita e il caricabatterie del cellulare. Poi vado all’armadio e m’inginocchio per sollevare un pannello di legno. La casa e il giardino li ha arredati Ben, ma ha lasciato a me il reparto guardaroba, e io ho fatto fare un mobile su misura. Quando si hanno tutti i segreti che ho io, serve un posto in cui nasconderli. Trovo il luogo in cui ho nascosto la pistola da mio marito. L’ho infilata qui sotto una sera che ero troppo ubriaca per ricordarmene. Avevo paura di lui e di cosa ci avrebbe fatto se l’avesse trovata. Me la infilo in borsa e rimetto a posto il pannello di legno.
Faccio la solita strada: oltrepasso il pub all’angolo e il fish and chips, taglio dentro il cimitero per poi arrivare su Portobello Road. Mentre corro penso a un paio di cose che potrebbero succedere adesso e me le porto dietro per un po’. Decido che non mi piacciono, per cui a un certo punto le abbandono e continuo a correre, senza voltarmi a guardarle, sperando che restino lì dove le ho lasciate. Quando arrivo all’inizio di una lunga serie di negozi di antiquariato, rallento un po’ e mi concedo di guardare le vetrine. Ben sapeva che preferivo i mobili antichi a quelli moderni, che non hanno nessuna personalità, ma non è mai stato interessato e io gli ho dato il permesso di non ascoltarmi, standomene zitta e muta. C’è stato un tempo in cui avrei fatto qualsiasi cosa perché fosse felice e per convincerlo a fare un figlio con me, però adesso non permetterei più a nessuno di controllarmi e manipolarmi come ha fatto lui.
Mi fermo di colpo. Ci metto un po’ a capire ciò che ho appena visto. Torno indietro e guardo la vetrina davanti alla quale sono appena passata. Non ho più dubbi.
È Ben. O almeno è la sua foto da bambino.
Quella in bianco e nero che ho sempre detestato.
L’unica che ho trovato dopo la sua sparizione.
Non ha senso. Cosa ci fa in questa vetrina? Non ho ancora toccato le sue cose, le ho lasciate tutte dov’erano, nella casa che abbiamo condiviso mentre fingevamo di essere marito e moglie. Il pensiero mi ferisce. Sicuramente il nostro non era l’unico matrimonio in cui marito e moglie continuano a stare assieme per abitudine o convenienza. Tutti noi tessiamo la nostra ragnatela di bugie, in cui a volte restiamo intrappolati.
Busso alla porta del negozio, ma non risponde nessuno.
Senza preavviso, comincia a piovere forte. Ben presto grossi goccioloni m’inzuppano e formano rigagnoli di acqua sporca sul marciapiede. Torno a guardare la foto. Ho la vista appannata, però sono certa di quello che vedo.
Corro via, scappo, come se il bambino di quella foto in bianco e nero potesse prendere vita, spaccare la vetrina e farmi del male. Non faccio molta strada. Nella vetrina del negozio successivo c’è una cornice diversa, ma la foto è la stessa. Comincio a tremare. Proseguo fino al negozio dopo e anche qui trovo quegli occhi inquietanti che mi fissano.
Mi guardo intorno, per vedere se sono seguita. Non c’è nessuno, solo un sacchetto di carta a strisce bianche e rosa – come quello in cui mettevo i dolciumi quand’ero bambina – che rotola sul marciapiede, sospinto dal vento. Nell’ultimo negozio in fondo alla strada ci sono le luci accese, però quando provo ad abbassare la maniglia mi accorgo che la porta è chiusa. Busso sul vetro e dopo un po’ un signore anziano viene ad aprirmi.
«Mi perdoni se la disturbo, ma dovrei farle una domanda sulla foto che ha in vetrina.» Mi rendo conto che gli sembrerò pazza e mi stupisco quando mi invita a entrare, coi vestiti zuppi che gocciolano e bagnano il pavimento.
Nel negozio fa caldo e c’è odore di pane tostato. Il proprietario avrà almeno ottant’anni, se non di più. Ha le spalle un po’ curve e i vestiti troppo grandi, come se gli anni lo avessero fatto rimpicciolire. Gli eleganti pantaloni in tartan gli cadrebbero, se non fosse per le bretelle rosse. Ha un farfallino al collo, annodato da mani esperte. I capelli bianchi sono ancora folti e ha gli occhi sorridenti, forse perché è felice di avere un po’ di compagnia. «Deve parlare un po’ più forte, cara.»
Vado alla vetrina e prendo la cornice, cercando di non far cadere niente. «Questa foto. Potrebbe dirmi dove l’ha presa?»
Si gratta la testa. Sembra confuso quanto me. «Non credo di averla mai vista prima.»
«C’è qualcun altro in negozio che potrebbe saperlo?»
«No, qui ci sono solo io. Ieri però ho avuto una consegna da una fornitrice. La signora mi ha aiutato a portare dentro gli articoli che mi interessavano. Non mi ricordo questa foto, ma può avermela portata solo lei.»
«Chi è? Da chi l’ha comprata?»
«Non è roba rubata.»
«No, non intendevo questo. Ho bisogno di sapere da dove viene.»
«Be’, da dove viene la maggior parte delle cose che ci sono qui dentro... dalle case di persone morte.»
La temperatura scende all’improvviso. «Cosa?»
«Dallo sgombero delle case dei defunti. Le cose che non vuole più nessuno si portano via. Può prenderla, se vuole.»
Ci penso un momento. «E la donna di cui mi parlava si occupa di questo tipo di sgomberi?»
«Esatto. È tutto in regola. Non c’è niente di illegale. Mi porta pure della roba buona, begli articoli.»
«Capisco. Chi è? Come si chiama?»
«Coi nomi non sono molto bravo. Però dovrei avere il suo bigliettino da visita da qualche parte.» Va dietro il bancone strascicando i piedi. Sebbene sia vestito di tutto punto, indossa le ciabatte. «Eccolo qui. Gliela consiglio, è molto brava.»
Tengo il cartoncino con mano tremante mentre leggo il nome stampato sopra. Maggie O’Neil. Non può essere. «Posso comprare la foto?»
«Certo.»
Gli do la carta di credito senza nemmeno chiedere quanto me la farà pagare. Poi prendo la cornice e sfilo la foto prima ancora di uscire dal negozio. La giro e mi paralizzo quando leggo quello che c’è scritto dietro, a penna, con calligrafia infantile: John Sinclair, 5 anni.