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Londra, 2017

Jack mi prende la mano. Siamo al ristorante, lui è seduto davanti a me e mi guarda. Mi sembra di avere addosso gli occhi di tutti. È impossibile che non si formi un legame tra due persone, quando lavorano assieme per così tanti mesi. So che è felice di essere qui con me. Mi stringe la mano in un modo che è più intimo di quanto dovrebbe. Ho paura di quello che sta per succedere, ma ormai è troppo tardi. È troppo tardi anche per fingere che non sappiamo entrambi cosa sta per accadere. La gente ci fissa, ci hanno riconosciuto. Evidentemente Jack si è accorto della mia apprensione e mi stringe la mano, come per tranquillizzarmi. Non ce n’è bisogno. Quando decido una cosa, è difficile che mi facciano cambiare idea. Persino io non ci riesco.

Jack paga il conto e si alza, lasciando il tavolo senza dire niente. Io mi pulisco la bocca col tovagliolo che ho sulle gambe, anche se non ho quasi toccato cibo. Per un brevissimo istante penso a Ben e me ne pento subito, perché so che poi è difficile togliermelo dalla testa. Non ricordo nemmeno quand’è stata l’ultima volta che mi ha portato fuori per una cenetta romantica o mi ha fatto sentire desiderata. Tuttavia il presente vince sempre, guarda dall’alto in basso il passato e volta le spalle alle tentazioni del futuro. Cerco d’ignorare la paura che mi paralizza e seguo Jack. Ora ho qualche esitazione, però ho sempre saputo che prima o poi sarebbe successo.

Jack entra in ascensore. Le porte iniziano a chiudersi e io non accelero. Non ce n’è bisogno. Le fauci metalliche si riaprono e mi inghiottiscono. Non parliamo, stiamo zitti, l’uno accanto all’altra. L’evoluzione ha portato il genere umano a nascondere il desiderio, come se fosse un segreto volgare, anche se siamo programmati per essere attratti da altri esseri umani. In ogni caso, non ho mai fatto niente del genere.

Sento che le altre persone nell’ascensore ci stanno guardando. A ogni piano, la mia ansia aumenta. Ho sempre saputo che sarebbe successo, fin dal primissimo giorno. Il cuore batte sempre più forte nelle orecchie, il respiro accelera e temo che Jack percepisca quanto ho paura di quello che stiamo per fare. Le nostre dita si sfiorano per caso. Forse mi prenderà per mano? No, non lo fa. Il romanticismo qui non c’entra niente. Lo sappiamo entrambi.

Inserisce la carta magnetica nella serratura della porta e per un istante penso che potrebbe non aprirsi. Un secondo dopo addirittura mi auguro che non lo faccia, perché così avrei più tempo. Non voglio farlo. Allora perché sono qui? A volte mi sembra di avere passato la vita a fare cose che non volevo fare.

Una volta in camera, si sfila la giacca e la butta sul letto, come se fosse arrabbiato con me, come se avessi fatto qualcosa di male. Poi si gira a guardarmi. Sul suo viso bellissimo adesso sembra che ci sia odio, disgusto, come se la sua espressione rispecchiasse ciò che penso di me stessa in questo momento, in questa stanza. Le sue parole hanno il sapore di un’accusa. «Credo dovremmo parlare, non pensi? Sono un uomo sposato.»

«Lo so», dico con un filo di voce.

Si avvicina. «E amo mia moglie.»

«Lo so.» Non è il suo amore che voglio, quello può tenerselo lei. Abbasso lo sguardo, ma lui mi prende il viso tra le mani e mi bacia. Resto immobile, come se non sapessi cosa fare, e per un momento ho paura davvero di non ricordare più come si faccia.

All’inizio è delicato, prudente, sembra quasi che tema di farmi male. Chiudo gli occhi, perché è più facile con gli occhi chiusi, e inizio a baciarlo anche io. Cambia marcia prima di quanto mi aspettassi, le sue mani passano dalle guance al collo e infine al seno. Traccia i contorni del reggiseno sotto il vestito leggero. Poi si ferma e si scosta. «Maledizione. Ma cosa sto facendo?»

Provo a ricordare come si respira. «Lo so, mi dispiace.» Come se fosse colpa mia.

«Sei diventata un’ossessione.»

«Mi dispiace. Ti penso in continuazione. So che non dovrei, e ti giuro che ci ho provato, ma non ci riesco...» I miei occhi si riempiono di lacrime. Ha almeno dieci anni più di me, e mi sento come una ragazzina inesperta.

«Stai tranquilla. Non è colpa tua. Anche io ti penso in continuazione.»

Allora smetto di piangere, come se quest’ultima frase cambiasse tutto.

Mi prende il mento e fa in modo che lo guardi. Cerco di capire se pensa davvero quello che ha detto. Poi mi avvicino per baciarlo e i miei occhi lo invitano a rispondere senza bisogno di parlare. E questa volta non ci sono esitazioni, questa volta dimentichiamo tutto quello che esiste al di fuori del qui e ora.

Le sue mani esperte sbottonano la scollatura che ora rivela il reggiseno di pizzo nero. Mi prende e mi mette sul tavolo, gettando a terra il menu del servizio in camera e il telefono. Prima che abbia il tempo di rendermene conto, è già sopra di me. Mi blocca i polsi sopra la testa e mi apre le gambe.

«E stop», dice il regista. «Grazie, ragazzi, anche questa scena è andata.»