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Pensavo che l’indirizzo sul biglietto da visita dell’antiquario sarebbe bastato.

E invece no.

Non so il nome della strada. Il viaggio da East London all’Essex mi ha dato parecchio tempo per pensare, ma finché non mi sono trovata qui davanti ho fatto di tutto per convincermi che mi sbagliavo, che si trattava solo di un’altra coincidenza.

E invece no.

Sono passati trent’anni, però questo posto me lo ricordo bene. Lo vedo spesso nei miei sogni.

Dei negozi di allora è rimasta aperta solo la lavanderia a gettoni. Il videonoleggio, l’ortolano e il negozietto all’angolo sono chiusi: hanno le finestre sbarrate con tavole di legno e i muri coperti di graffiti. Sembra una città fantasma.

Anche il negozio di scommesse è sbarrato e c’è un cartello scritto a mano che dice Pezzi di antiquariato. Sul vetro smerigliato della porta c’è anche un altro cartello attaccato con lo scotch su cui c’è scritto CHIUSO. Mi avvicino al vetro e cerco di sbirciare dentro facendomi schermo con le mani. È tutto buio.

Busso. Due volte.

Non risponde nessuno, per cui vado all’altra porta, quella di casa. La vernice è scrostata e qualcuno ha scritto Bugiarda con una bomboletta rossa. Quand’ero piccola mi sembrava enorme, adesso invece mi accorgo che è una porta di dimensioni normali. Busso di nuovo, e di nuovo non risponde nessuno.

Mi abbasso e apro lo sportelletto della posta. «C’è nessuno?» Sbircio nella fessura, ma vedo solo una pila di volantini e buste mai aperte. Sugli ultimi gradini della scala, la moquette rossa è macchiata. «C’è nessuno?»

Niente.

Poi parte una musica dal piano di sopra.

Prendo il telefono.

Dovrei chiamare la polizia.

Dovrei chiamare qualcuno.

Ma non lo faccio. Rimetto il cellulare nella borsa, controllo che ci sia ancora la pistola e proseguo, risalendo il vialetto che porta all’entrata sul retro.

Il cancello non c’è più e gran parte della recinzione è crollata. Anche qui tutto mi sembra molto più piccolo di come lo ricordavo. Un camioncino bianco vecchio e malridotto è parcheggiato sul vialetto, ma attraverso i finestrini sporchi non mi sembra di vedere niente di rilevante nell’abitacolo. La porta sul retro è accostata, però ho troppa paura per entrare.

Busso. La vernice è scrostata e il legno scheggiato. Le possibilità che qualcuno mi senta sono abbastanza scarse, considerato il volume della musica che viene da sopra. Riconosco la canzone, è Fairytale of New York. È strano che qualcuno la ascolti, visto che non è Natale. Faccio un passo avanti, mentre mi rimbombano nella testa le parole che parlano di sogni infranti.

La stanzetta in cui passavo ore e ore a leggere i miei giornalini e ad ascoltare audiocassette c’è ancora, ma è totalmente diversa. Non c’è più neanche la scrivania, solo confusione. Il negozio è diventato una specie di magazzino polveroso. Premo l’interruttore appiccicoso e vedo che ci sono ancora i neon sul soffitto. Solo alcuni si accendono, proiettando una luce spettrale su mobili accatastati. La polvere è ovunque. Passo tra gli armadi, i cassettoni e le sedie e arrivo alla porta da cui si entra nell’appartamento. È aperta, però l’interruttore non funziona.

«C’è nessuno in casa?»

La musica è più alta di prima. Vedo una luce al piano di sopra. Comincio a salire al buio, a tentoni, e vedo con sorpresa che ci sono ancora i pannelli di sughero alle pareti. I gradini scricchiolano e, sebbene una voce nella mia testa mi gridi di andarmene, non le do ascolto.

Devo sapere la verità.

Quando arrivo a metà della scala, la musica si ferma.

Sento una porta che si apre e dei passi.

Vengo inghiottita di nuovo dal silenzio più totale, ma mi costringo lo stesso a salire.

Una porta sbatte.

Quando arrivo sul pianerottolo, vedo che a terra ci sono delle candele accese. Sono l’unica fonte di luce. Provo a premere l’interruttore, però non succede niente. Poi alzo la testa e vedo che nel lampadario sul soffitto manca la lampadina. Le porte sono chiuse, ma è rimasto tutto uguale. Seguo le candele e arrivo davanti alla porta di quello che una volta era il salotto. Poso la mano sulla maniglia e ci metto un po’ a trovare il coraggio di abbassarla.

La stanza è del tutto cambiata. Il vecchio caminetto elettrico è stato sostituito con un camino vero anche se non proprio ben messo. Il fuoco acceso e il profumo della legna che arde mi danno uno strano senso di conforto. Tutto è un po’ vecchio e sporco, però per il resto è una stanza normalissima, un semplice salotto con delle sedie e un tavolo. Per ora niente scheletri e niente armadi. Le candele proseguono all’interno e arrivano fino a un tavolino proprio davanti al fuoco. Ci sono candele sopra il tavolino, disposte tutto intorno a un grosso libro rosso. È un album di fotografie.

Lo prendo. È più pesante di quanto sembri, e quando lo apro la mia faccia mi fissa da un vecchio articolo di giornale. Giro pagina e trovo un’altra mia foto, un altro articolo. Continuo a sfogliare l’album e capisco che qualcuno vi ha raccolto tutte le interviste, tutti gli articoli e le recensioni che sono stati scritti su di me. So bene che dovrei andarmene, che tutto questo non è normale, che non va bene, ma continuo a girare le pagine come se fossi caduta in trance e non riuscissi a fermarmi.

A un certo punto ci riesco.

Mi fermo.

La musica riparte. È la stessa canzone di prima. So che devo andarmene, però sull’ultima pagina dell’album non c’è un articolo. C’è una lettera.

Una lettera che ho scritto io quasi vent’anni fa.

 

Caro Eamonn,

forse non ti ricordi di me, ma io mi ricordo di te.

Tanto tempo fa ero tua sorella, poi sono scappata e una donna di nome Maggie mi ha rapito e portato in Inghilterra. All’epoca non l’ho capito, l’ho capito solo molti anni dopo.

Ho vissuto con Maggie e con un uomo che si chiamava John nel loro appartamento sopra un negozio di scommesse nell’Essex, molto vicino a Londra.

Loro mi hanno detto che nostro padre non mi voleva più e che qualche anno dopo era morto, però io non sapevo che non era vero.

Voglio che tu sappia che non sono stata male con loro, ma ora sono morti.

La polizia ha pensato che fossi figlia loro.

In casa c’era un passaporto appartenuto a una bambina che si chiamava Aimee Sinclair. I poliziotti hanno trovato anche il suo certificato di nascita, su cui c’era scritto che era figlia di Maggie O’Neil e John Sinclair.

Allora hanno pensato che quella bambina fossi io. Tutti l’hanno pensato, e io gliel’ho lasciato credere.

Sono stata con un sacco di famiglie affidatarie. Con alcune mi sono trovata bene, con altre meno. Adesso sono contenta. Ho vinto una borsa di studio per un posto che si chiama Royal Academy of Dramatic Art e diventerò un’attrice.

Sarei molto felice se un giorno ti andasse di sentirci o di vederci. Ti sei preso cura di me quando il papà non poteva e non me lo dimenticherò mai. Ricordo chi eri allora e vorrei sapere chi sei adesso.

Mi dispiace se ho aspettato tanto per farmi sentire, ma avevo paura di raccontare la verità finché non avessi compiuto diciotto anni, perché non volevo finire nei guai. Tu sei l’unico che lo sa, adesso. Mi ricordo di te e so che posso fidarmi. Sono felice di essere Aimee. Nessuno sa del mio passato e vorrei che le cose restassero così. Spero che tu capisca.

La bambina che si chiamava Ciara non esiste più, però io resto sempre tua sorella. I nomi non hanno importanza.

Con tanto affetto,

 

AIMEE XX

 

Il fuoco continua a scoppiettare, con le fiamme che danzano a ritmo di musica. Quando alzo gli occhi, mi accorgo che la porta adesso è chiusa e non sono più sola.

«Ciao, Ciara», dice una donna dai lunghi capelli neri e dal rossetto rosso.