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Sogno di volare.

Sono un uccello e ho le ali spiegate. Mi libro e volteggio sopra le onde di un mare turchese. Danzo in un cielo senza nuvole, guardo il mondo sotto di me e penso a quanto siamo piccoli.

Riprendo coscienza per un istante e sento lo sportello di un furgoncino che si chiude. Nel mio sogno, quel rumore manda in frantumi il cielo. Enormi schegge cominciano a piovere tutto intorno a me. Non volo abbastanza veloce e alcuni frammenti mi feriscono le ali. Ho le piume bianche tutte insanguinate. Comincio a sentirmi pesante e non riesco più a volare. Allora decido di tuffarmi in mare, cercando salvezza sotto le onde, che però sono minacciose e s’infrangono contro le rocce. Il mare tempestoso è diventato nero e, mentre scendo in picchiata, schizzi d’acqua mi bagnano la faccia, impedendomi di vedere. L’impatto è rovinoso e mi rompo le ossa della faccia. Sono tutta dolorante e mi raggomitolo. Mi sento ancora più piccola e insignificante di prima.

Apro un occhio e vedo che il mare è un tappeto verde e che ci sono arrotolata dentro. Resto sveglia abbastanza a lungo per rendermi conto che mi fa male tutto.

Quando mi risveglio di nuovo, sento qualcuno che si avvicina. Cerco di alzarmi, ma non riesco a muovermi. Non riesco neanche ad alzare la testa e non credo che riuscirò mai più a volare. Svengo prima di vedere o sentire altro.

Riprendo coscienza. Mi fa male la testa e ci metto un po’ a ricordare cosa è successo e a chiedermi dove mi trovo.

È buio pesto.

Ho le mani legate dietro la schiena e qualcosa infilato in bocca. Non riesco a chiuderla né a parlare.

Ho le gambe piegate e le caviglie legate. Quando provo a muovermi, mi rendo conto di essere in una specie di scatola. All’inizio penso che sia una bara, e il pensiero di essere stata sotterrata viva mi toglie il respiro. Comincio a piangere. Le lacrime e la saliva m’impiastricciano il volto. Cerco di calmarmi e ragionare: la scatola è troppo piccola per essere una bara, e per un breve momento mi sento un po’ meglio, poi la paura mi grida nelle orecchie: Potrebbe trattarsi di una bara da bambino.

Mi rendo conto che, se anche non posso parlare, posso almeno emettere dei suoni. Il grido soffocato che mi esce dalla bocca sembra il verso di un animale, tanto che penso provenga da qualcuno o qualcos’altro. Faccio più fatica di prima a respirare, e mi chiedo quanto ossigeno ci sia in uno spazio così piccolo. Scalcio contro le pareti della scatola e, quando provo a gridare di nuovo, il coperchio si apre.

La luce è accecante e ci metto un po’ a riconoscere la silhouette che mi guarda dall’alto.

«Stai buona, tesoro. Siamo quasi arrivati a casa.» La voce cambia a ogni parola: all’inizio è quella di Maggie, poi quella di mio fratello, poi di nuovo di Maggie. Poi mi copre il naso con un fazzoletto.

Cerco di tenere gli occhi aperti, ma le palpebre sono troppo pesanti. Penso a Maggie che mi tiene la mano mentre sento il coperchio richiudersi sopra di me.

Sono di nuovo un uccellino ferito.

Non posso aprire gli occhi, gridare, volare via.

Annego in un mare gelido e buio.