Gli bacio la testa.
Sono baci dolci, teneri, delicati.
Lui si sveglia e mi guarda.
«Baciami, ti prego.»
Ancora mezzo addormentato, mi bacia sulle labbra. Tiene gli occhi aperti tutto il tempo e mi guarda, confuso.
Il suo sapore mi fa venire voglia di vomitare, però non mi tiro indietro. «Ho sempre saputo che eri tu.»
Lui mi fissa a lungo, con la fronte aggrottata. «Lo sapevi?»
«Fingevo di no, ma in realtà lo sapevo. Sai che ricordo sempre tutto: come avrei potuto dimenticare mio fratello?»
Si vede che vorrebbe credermi, però non si fida.
Devo fare di meglio. «Mi sei mancato tanto. Ora che ci siamo ritrovati, non ci dobbiamo lasciare mai più.»
«Vuoi che stiamo assieme?»
«Sì.»
«In che senso?»
«In tutti i sensi. Adesso che siamo tornati a casa nostra, a nessuno importerà chi siamo e cosa facciamo. Possiamo ricominciare. Possiamo avere entrambi quello che abbiamo sempre voluto.»
Aggrotta la fronte. «Vuoi ancora fare un figlio con me, anche adesso che sai chi sono?»
«Sì. Ho sempre desiderato un figlio. Sarebbe una seconda chance. Per tutti e due.»
«Mi dispiace per il film di Fincher.»
Mi coglie alla sprovvista e faccio fatica a mantenere un’espressione neutra. «E tu che ne sai, del film di Fincher?»
«Perché conosco tutte le tue password e leggo le tue mail. Sono stato io a dire ad Alicia White dove lo avrebbe trovato. Per te sarebbe stato troppo. E ti avrebbe tenuto di nuovo lontano da me.»
Cerco di ricacciare dentro tutto l’odio che provo. «Hai ragione. Hai sempre saputo cos’era meglio per me.»
Sembra sorpreso dalla mia risposta. «Ti ho già fatto fare un passaporto col tuo vero nome, nel caso ci fossero state complicazioni sul traghetto. Con qualche ritocchino, potresti venire a vivere qui. Una vita vera. Perché in fondo hai sempre odiato fare l’attrice, coi riflettori sempre puntati addosso...»
Voglio sfruttare quello che ha appena detto. Le bugie più credibili contengono sempre un fondo di verità. «È vero! Detesto i riflettori, e tu lo sai. Mi mettono ansia. Una nuova vita, una vita più semplice qui con te, è ciò che voglio adesso. Baciami come facevi una volta. Ti prego.»
Mi bacia senza mai smettere di guardarmi, come se mi volesse controllare e questo fosse un esame che sa già che fallirò. Comincia ad aprirmi la camicetta, piano, bottone dopo bottone, osservando il mio volto per cogliere il minimo segno di cedimento. Poi si allunga a liberarmi le mani, ma io so già che non ha nessuna intenzione di slegarle. Lo conosco tanto quanto lui conosce me.
«No, non farlo. Lasciale legate. Voglio che tu capisca che ti puoi fidare di me. Non scapperò mai più. Ho bisogno di te. Senza di te non ce la faccio. Mi sono sentita così sola quando te ne sei andato.»
Sembra confuso, poi però comincia a baciarmi i seni, ma continuando a tenere d’occhio le mie reazioni. Inarco la schiena e sento che gli diventa duro. Quando fingo bene, non gli serve prendere nessuna pillolina blu. Comincia a scendere e io gemo come so che gli piace. Mi scioglie le caviglie, mi sfila le calze e, quando si sfila la cintura, sorrido.
Quand’è tutto finito, mi libera una mano e la stringe nella sua, poi mi posa la testa sul petto. Quando penso che sia passato abbastanza tempo, sfilo la mano. Lo sento russare. Allungo la mano più che posso senza muovere il resto del corpo. Le mie dita toccano la statuetta di metallo. La prendo e gliela sbatto forte sulla testa con tutta la forza che mi rimane.
Il lamento che emette sembra quello di un animale ferito. Il sangue comincia a colargli sulla faccia e sugli occhi, che mi fissano increduli. Lo colpisco ancora.
So di non avere molto tempo. Libero anche l’altra mano e mi sfilo da sotto il suo peso, poi esco dalla stanza con indosso solo la camicetta bianca. Corro al buio, cercando di ricordare com’è fatta la casa, ma sbatto contro cose di cui non mi ricordo mentre cerco l’uscita più vicina. Quando arrivo alla porta sul retro, lo sento già dietro di me. Il legno della porta si è gonfiato e devo strattonarla per riuscire ad aprirla.
Fuori fa freddissimo e il vento gelido mi toglie il fiato. L’asfalto mi ferisce i piedi scalzi e mi stringo addosso la camicetta sbottonata, anche se tanto non c’è nessuno che potrebbe vedermi. O sentirmi, se fossi abbastanza coraggiosa da mettermi a urlare. Sono così terrorizzata che non ricordo più la geografia del posto e, mentre corro zoppicando verso dove credo sia la strada principale, capisco troppo tardi che sto andando verso il retro della proprietà, verso il mare. Sento sbattere la porta alle mie spalle.
«Dove vai, tesoro? Credevo che volessi stare con me. Credevo che non saresti più scappata.» Sembra di nuovo l’uomo che mi ha violentato nella nostra camera da letto la notte prima che scomparisse, l’uomo che credevo mi avrebbe ucciso.
Inciampo e cado, e so che lui non è distante.
È buio e ho perso l’orientamento. Anche stavolta ho sbagliato direzione, come quando nella pancia di mia madre mi sono girata dalla parte sbagliata, ma in questo caso non ci sarà nessun inizio per me, solo la fine.
Sento una porta di legno che cigola su cardini arrugginiti e scorgo una rimessa. La porta sbatte per il vento. Comincio a correre, voglio nascondermi lì dentro. È buio e non vedo su cosa metto i piedi. Sembra paglia. I ganci di metallo su cui mio padre appendeva i polli adesso si agitano al vento e sbattono tra loro, con un suono simile ai segnali di allarme che emettono gli animali quando arriva un predatore. Quando guardo su, vedo i loro sorrisi argentati illuminati dalla luna.
Chiude la porta. «Il tuo fratellone riuscirà sempre a trovarti.»
Sono intrappolata. Il vento è sempre più forte e la porta non ne vuole sapere di restare chiusa. Continua a cigolare e a riaprirsi, come se volesse liberarmi. Mi metto a terra e comincio a camminare carponi, cercando di allontanarmi dalla voce di mio fratello, pur sapendo che non posso andare da nessuna parte, che non posso più nascondermi.
È allora che le mie mani la trovano.
All’inizio non capisco cosa sia. Faccio scorrere la mano lungo il manico di legno che finisce con una lama, così affilata che mi taglia.
La prendo e mi giro, rimanendo accovacciata, rivolta verso di lui. I suoi passi si avvicinano. La porta si spalanca e la luna illumina il volto di mio fratello, che adesso è proprio sopra di me. Si è distratto per via del rumore che ha fatto la porta, allora mi alzo e calo l’accetta con tutta la forza che mi resta in corpo. Lo colpisco sul collo. Crolla a terra, col sangue che sprizza come una fontana.
Non mi muovo.
Non posso.
È tutto fermo, tranne il sangue che scorre.
M’inginocchio accanto al suo corpo ferito. Con gli occhi chiusi e tutti gli interventi che ha fatto al viso, sembra un perfetto sconosciuto. Un mostro che non sapevo che avrei incontrato. Poi però apre gli occhi e l’odio con cui mi guarda mi costringe a riprendere l’ascia. La sfilo dalla ferita, la sollevo e sferro un altro colpo.
I suoi occhi sono aperti, come se mi stessero ancora guardando, quando la testa rotola sul pavimento.