Di notte, nel mio letto, guardavo lo spettacolo delle api che si insinuavano nelle fessure delle pareti e volteggiavano nella camera con quel loro ronzio acuto da elica che vibrava sulla mia pelle. Osservavo le ali brillare come pulviscolo di cromo nel buio e sentivo crescere nel cuore la malinconia. Mi commuoveva profondamente quel loro volare, senza neppure cercare un fiore, soltanto per sentire il vento.
Di giorno le udivo aprirsi un varco nei muri della mia stanza, con un brusio di radio mal sintonizzata, e le immaginavo impegnate a trasformare in favi le pareti, che presto avrebbero trasudato miele per la mia delizia.
Le api arrivarono nell’estate del 1964, l’estate in cui compii quattordici anni e la mia vita prese a girare in un’orbita completamente nuova, e intendo proprio un’orbita completamente nuova. Ripensandoci adesso, le api mi sono state mandate. Voglio dire che mi apparvero come l’angelo Gabriele apparve a Maria Vergine, per mettere in moto eventi che mai al mondo avrei immaginato. So che è presuntuoso confrontare la mia umile vita con la sua, ma ho motivo di credere che a lei non importerebbe; mi spiegherò meglio più avanti. In questo momento basti dire che, malgrado gli avvenimenti di quell’estate, io continuo a provare una grande tenerezza nei confronti delle api.
1º luglio 1964, distesa a letto in attesa della comparsa delle api, penso alle parole di Rosaleen quando le ho raccontato delle loro visite notturne.
«Le api sciamano prima della morte» è stato il suo commento.
Rosaleen lavorava per noi dalla morte di mia madre. Mio padre – che io chiamavo T. Ray, perché il termine “papà” non gli si addiceva proprio – l’aveva tirata fuori dal pescheto, dove faceva la raccoglitrice. Un grosso viso tondo e un corpo che si allargava dal collo come una tenda da campeggio, così nera da dare l’impressione che la notte si diffondesse dalla sua pelle. Viveva sola in una casetta nascosta nel bosco, non lontana da noi, e veniva ogni giorno per cucinare, pulire e farmi da madre. Non aveva avuto figli, e quindi negli ultimi dieci anni io ero stata per lei una sorta di cucciolo molto amato.
Le api sciamano prima della morte. Rosaleen era piena di folli credenze che di solito ignoravo, ma questa in particolare mi fece riflettere: le api erano venute per annunciare la mia morte? In tutta sincerità, l’idea non mi turbava più di tanto. Tutte quelle api avrebbero potuto calare su di me come uno stuolo di angeli e pungermi fino a darmi la morte, e la cosa mi avrebbe lasciato indifferente.
Mia madre morì quando avevo quattro anni. Era un fatto della vita, ma se io vi accennavo la gente si concentrava all’improvviso sulle pellicine delle unghie, oppure su luoghi distanti nel cielo, e assumeva un’aria distratta. Ogni tanto, però, qualche anima buona mi diceva: «Cerca di non pensarci, Lily. È stato un incidente. Non l’hai fatto apposta».
Quella notte, a letto, pensai alla morte, a quando mi sarei riunita a mia madre in paradiso. Le sarei corsa incontro per dirle: “Perdonami, mamma. Ti prego, perdonami”, e lei mi avrebbe baciato fino ad arrossarmi la pelle insistendo che io non avevo alcuna colpa. Questo me l’avrebbe ripetuto per i primi diecimila anni.
I diecimila successivi mi avrebbe pettinato i capelli. Li avrebbe spazzolati fino a trasformarli in una splendida acconciatura e tutti, in cielo, avrebbero posato l’arpa per ammirarli. Si capisce subito quando una bambina non ha la mamma: basta guardarle i capelli. I miei andavano regolarmente in dieci direzioni diverse, e naturalmente T. Ray si rifiutava di comprarmi i bigodini col velcro; e così tutto l’anno io dovevo avvolgerli sulle lattine di succo d’uva Welch. Il che mi aveva praticamente trasformato in un’insonne: dovevo sempre scegliere tra una chioma decente e una buona notte di riposo.
Decisi che avrei impiegato quattro o cinque secoli per raccontarle quanto fosse terribile vivere con T. Ray. Era irascibile tutto l’anno, ma tanto più d’estate, quando lavorava nel pescheto dalle prime luci dell’alba al tramonto. Io facevo il possibile per stargli alla larga. Gli unici slanci li aveva per Snout, la sua cagnetta da caccia. La faceva dormire nel suo letto e le grattava la pancia quando lei si sdraiava sul dorso ispido. L’ho vista fare pipì sul suo stivale senza suscitare in lui neppure una protesta.
Avevo chiesto più volte a Dio di fare qualcosa per T. Ray. Andava in chiesa da ben quarant’anni, ma peggiorava sempre più. Mi pareva che Dio avrebbe dovuto dedurne qualcosa.
Spinsi via le lenzuola con un calcio. Silenzio totale in camera, neppure un’ape in circolazione. Non facevo che guardare l’orologio sul cassettone, chiedendomi cosa le trattenesse.
Infine, intorno a mezzanotte, quando le palpebre stavano ormai chiudendosi per il sonno, percepii un brusio sommesso, basso e vibrante, un suono che si sarebbe potuto scambiare per quello di un gatto che fa le fusa. Dopo pochi istanti, delle ombre si mossero lungo i muri come uno spruzzo di vernice, catturando la luce mentre passavano davanti alla finestra, così che potei distinguere il profilo delle ali. Il suono crebbe nel buio al punto che tutta la stanza prese a pulsare, e l’aria stessa divenne viva, costellata di api. Mi lambivano il corpo, facendo di me il centro perfetto di una nube turbinante. Non riuscivo neppure a pensare con tutto quel ronzio.
Affondai le unghie nel palmo delle mani fino a segnarle. Si corre il rischio di venire punti a morte in una stanza piena di api.
Eppure, quella visione era un vero spettacolo. All’improvviso mi parve inconcepibile non mostrarlo a qualcuno, anche se la sola persona nei paraggi era T. Ray. E se gli fosse capitato di venire punto da qualche centinaio di api, tanto peggio.
Scivolai fuori dalle lenzuola e mi aprii un varco tra lo sciame per raggiungere la porta. Lo svegliai toccandogli il braccio con un dito, dapprima lievemente, poi premetti con forza la carne, stupita di trovarla tanto soda.
T. Ray balzò dal letto con solo le mutande addosso. Lo trascinai in camera mia, mentre lui gridava che era meglio che avessi una buona ragione per svegliarlo, che era meglio che la casa andasse a fuoco, maledizione, mentre Snout abbaiava come se fossimo stati impegnati nel tiro al piccione.
«Api!» gridai. «C’è uno sciame di api nella mia stanza!»
Quando entrammo, però, erano svanite dentro al muro, come se sapessero del suo arrivo, come se non volessero sprecare con lui le loro esibizioni aeree.
«Che scherzo del cazzo, Lily.»
Guardai lungo le pareti. Mi chinai sotto il letto e scongiurai la polvere e le molle della rete di produrre almeno un’ape.
«Erano qui. Svolazzavano ovunque.»
«Sì, e c’era anche un dannato branco di bufali, naturalmente.»
«Ascolta. Le puoi sentire ancora ronzare.»
Accostò l’orecchio alla parete fingendo attenzione. «Io non sento nessun ronzio» commentò battendo il dito sulla tempia. «Immagino che siano volate fuori da quell’orologio a cucù che chiami cervello. Svegliami un’altra volta, Lily, e tiro fuori i Martha Whites, chiaro?»
I Martha Whites erano una forma di punizione che soltanto a T. Ray poteva essere venuta in mente. Chiusi la bocca all’istante.
Eppure, mi riusciva difficile lasciar perdere. Non volevo che lui pensasse che ero tanto disperata da inventare un’invasione di api pur di attirare la sua attenzione. Il che mi fece venire l’idea di chiuderne in un barattolo qualcuna e portargliela. “Allora, chi è che si inventa le cose?” gli avrei detto.
Il primo e unico ricordo di mia madre riguardava il giorno della sua morte. Cercai a lungo di evocare un’immagine precedente di lei, un qualsiasi frammento, nell’atto di rimboccarmi le coperte, leggermi le avventure di zio Wiggly o appendere la mia biancheria vicino alla stufa nelle mattinate gelide. Avrei accolto con gioia anche la visione di lei che staccava un rametto dal cespuglio di forsythia per pungermi le gambe.
Morì il 3 dicembre 1954. La caldaia aveva arroventato l’aria al punto che la mamma si era tolta il maglione restando in maniche corte e tentava di aprire la finestra della camera da letto, bloccata da incrostazioni di vernice.
Alla fine rinunciò. «Be’, finiremo arrostite come all’inferno, qua dentro» era stato il suo commento.
Aveva folti capelli neri, con grandi riccioli che le incorniciavano il viso, un viso che non riuscivo più a raffigurarmi, malgrado la nitidezza di ogni altro particolare.
Allungai le braccia verso di lei, e lei mi sollevò dicendo che ero troppo grande per essere presa in braccio, ma facendolo egualmente. In quel momento, fui avvolta dal suo aroma.
La fragranza penetrò in me per sempre, con quella sfumatura di cannella. Andavo regolarmente all’emporio Sylvan per annusare ogni bottiglietta di profumo, cercando di identificarla. Ogni volta che mi presentavo, la commessa del banco dei profumi si fingeva sorpresa. «Dio mio, guarda chi c’è» esclamava, come se non mi avesse visto anche la settimana precedente passare in rassegna l’intera fila di flaconi. Shalimar, Chanel Nº 5, White Shoulders.
«Ha qualcosa di nuovo?» chiedevo.
La risposta era sempre no.
Rimasi quindi sconvolta quando ritrovai quello stesso aroma sulla mia maestra di quinta, che mi rivelò non essere altro che una semplice e comune crema idratante Ponds.
Il pomeriggio in cui morì mia madre c’era una valigia aperta sul pavimento vicino alla finestra bloccata. Lei entrava e usciva dallo spogliatoio, lasciando cadere vari indumenti nella valigia, senza preoccuparsi di piegarli.
La seguii nello stanzino, spostandomi sotto orli di abiti e gambe di pantaloni, nel buio, tra corpuscoli di polvere e piccole tarme morte, fino agli stivali di T. Ray, sporchi di fango del frutteto e con l’odore di pesche ammuffite. Infilai le mani in un paio di scarpe bianche col tacco e le battei una contro l’altra.
Il pavimento dello stanzino vibrava ogni volta che qualcuno saliva le scale sottostanti, e fu così che compresi che T. Ray era in arrivo. Sopra la mia testa udii mia madre che tirava via gli abiti dagli attaccapanni, il fruscio della stoffa, le grucce di metallo che tintinnavano urtando l’una contro l’altra. «Sbrigati» mi disse.
Quando lui entrò a passo pesante la mamma sospirò, e il respiro le uscì come se i polmoni si fossero all’improvviso serrati. Questa è l’ultima cosa che ricordo con perfetta chiarezza: il suo respiro che fluttuava su di me come un minuscolo paracadute, cadendo senza lasciar traccia fra le pile di scarpe.
Non ricordo cosa si dissero, solo la violenza delle loro parole, l’atmosfera all’improvviso tesa e rabbiosa. In seguito mi avrebbe rammentato gli uccelli intrappolati in una stanza chiusa, che si lanciano contro i vetri, contro i muri, l’uno contro l’altro. Retrocessi adagio, sempre più in fondo allo stanzino, sentendo sulle mie dita in bocca il sapore delle scarpe, dei piedi.
Venni trascinata fuori, senza sapere sul principio di chi fossero le mani che mi avevano afferrato, e poi mi ritrovai fra le braccia di mia madre, a respirare il suo odore. Mi ravviò i capelli. «Non aver paura» disse, ma proprio in quel momento fui prelevata di forza da T. Ray. Mi portò alla porta per depositarmi in corridoio. «Vai in camera tua» ordinò.
«Non voglio» gridai, cercando di spingerlo di lato per tornare nello stanzino, dove si trovava lei.
«Vai nella tua stramaledetta camera!» urlò T. Ray, allungandomi uno spintone che mi fece sbattere contro il muro. Caddi a quattro zampe. Sollevai la testa e vidi mia madre correre verso di lui. «Lasciala stare, non toccarla!» gridava.
Rannicchiata sul pavimento accanto alla porta, attraversai con lo sguardo l’aria che pareva lacerata. Lo vidi afferrarla per le spalle e scuoterla, la testa che sbatteva avanti e indietro. Aveva le labbra livide.
E poi – anche se a questo punto tutto comincia a sfocarsi nella mia mente – lei si divincola per slanciarsi nello stanzino, lontano dalle sue mani grifagne, e cerca a tentoni qualcosa su uno scaffale in alto.
Quando vidi la pistola nella sua mano, corsi verso di lei e caddi goffamente, ansiosa di salvarla, di salvare tutti noi.
Poi il tempo si ripiegò su se stesso. Ciò che resta nella mia mente sono alcune immagini chiare ma frammentarie. La pistola lucente come un giocattolo nella mano della mamma. Lui gliela strappa e la sventola in giro. L’arma a terra. Qualcuno si china a raccoglierla. Il rumore dell’esplosione.
È questo che so di me stessa. Io volevo solo lei, ma per colpa mia non c’è più.
T. Ray e io vivevamo appena fuori Sylvan, nella Carolina del Sud, tremilacento abitanti. Bancarelle per la vendita di pesche e chiese battiste, tutto qui.
All’ingresso della nostra fattoria, c’era una grossa insegna di legno con la scritta OWENS PEACH ENTERPRISES dipinta nel più orribile arancione che si possa immaginare. Odiavo quell’insegna, che pure non era nulla in confronto alla gigantesca pesca appollaiata in cima a un palo di venti metri accanto al cancello. Tutti, nella mia scuola, la chiamavano il Sederone, tanto per usare un eufemismo. Quel color carne, per non parlare della fessura nel mezzo, le davano l’inequivocabile aspetto di un fondoschiena. Rosaleen sosteneva che era il modo di T. Ray di mostrare il culo al mondo intero.
Lui non voleva che dormissi dalle compagne di scuola o partecipassi alle corse nei sacchi – il che non era un problema, visto che comunque nessuno mi invitava mai –, ma rifiutava anche di accompagnarmi con l’auto in città per le partite di calcio, le riunioni per organizzare la claque o il lavaggio delle auto allo scopo di raccogliere fondi per il Beta Club, che in genere si tenevano il sabato. Se ne fregava che portassi i vestiti che mi cucivo io stessa nelle lezioni di economia domestica: bluse di cotone stampato con cerniere tutte sghembe e gonne che mi arrivavano sotto le ginocchia, abiti che portavano soltanto le ragazze dei Pentecostali. Tanto valeva che mi appendessi un cartello alla schiena: “Non piaccio e non piacerò mai a nessuno”.
Avevo bisogno di ricorrere a ogni straccio di consiglio mi potesse fornire la moda perché nessuno, neppure una sola persona, aveva mai detto: “Lily, quanto sei carina”, tranne la signorina Jennings in chiesa, dichiarata ufficialmente cieca.
Mi guardavo non solo nello specchio, ma anche nelle vetrine dei negozi e sullo schermo del televisore spento, per cercare di migliorare il mio aspetto. I capelli erano neri come quelli di mia madre, in realtà un groviglio ribelle, e mi preoccupava l’assenza di mento. Cercavo di convincermi che mi sarebbe cresciuto insieme al seno, ma non fu così. Gli occhi erano belli, però, alla Sophia Loren per così dire, eppure neanche i ragazzi con il codino che colava di gel e il pettine nel taschino della camicia sembravano attratti da me, malgrado fossero considerati di bocca buona.
Le cose sotto il collo avevano cominciato a prendere forma, ma mica potevo mostrarla, quella parte. Andavano di moda i twin-set di cachemire e i minikilt scozzesi, ma T. Ray affermava che sarei dovuta passare sul suo cadavere per andare in giro conciata così: volevo forse finire incinta come Bitsy Johnson, con quelle gonne che le coprivano appena il sedere? Come facesse a sapere di Bitsy era un mistero della vita; peraltro era vero che portava le gonne così e anche che era incinta. Ma si trattava soltanto di un’incresciosa coincidenza.
Rosaleen capiva ancor meno di T. Ray in fatto di moda, e quando faceva freddo, che Dio mi aiuti, mi spediva a scuola con i mutandoni lunghi sotto il vestito da Pentecostale.
Niente mi urtava più di un gruppetto di ragazze intente a chiacchierare che si zittivano all’improvviso quando passavo. Cominciai a staccarmi le crosticine della pelle, e, quando non ne avevo, a mordere la carne intorno alle unghie fino a farmi sanguinare. Ero talmente preoccupata del mio aspetto e di fare le cose giuste che la metà del tempo mi pareva di impersonare una ragazza, anziché esserlo.
La primavera precedente avevo pensato di non lasciarmi scappare una grande occasione frequentando le lezioni di belle maniere al circolo femminile, tutti i venerdì pomeriggio per sei settimane, ma non venni ammessa perché priva di una madre, di una nonna, e persino di una misera zia che mi offrisse una rosa bianca alla cerimonia di fine corso. Che lo facesse Rosaleen era contro le regole. Piansi fino a vomitare nel lavandino.
«Sei carina così» mi aveva detto Rosaleen, pulendo il lavandino dal vomito. «Non hai bisogno di frequentare una scuola sciccosa per diventare affascinante.»
«E invece sì. Ti insegnano tutto, come camminare, girare su te stessa, incrociare le caviglie quando stai seduta, salire in macchina, servire il tè, sfilarti i guanti…»
«Santo cielo» sbuffò lei.
«Disporre i fiori nel vaso, parlare ai ragazzi, sistemarsi le sopracciglia, depilare le gambe, mettere il rossetto…»
«E a vomitare nel lavandino, ti insegnano a farlo con stile?»
A volte la detestavo cordialmente.
La mattina dopo la sveglia notturna a T. Ray, dalla soglia della mia camera Rosaleen mi guardava rincorrere un’ape con un barattolo. Teneva le labbra così arricciate che le vedevo una piccola alba rosea dentro la bocca.
«Che stai facendo con quel barattolo?»
«Catturo le api per mostrarle a T. Ray. Crede che me le inventi.»
«Oh Signore, dammi forza.» Era stata nel portico a sbucciare fagioli, e gocce di sudore le imperlavano i capelli intorno alla fronte. Abbassò la scollatura del vestito per arieggiare il seno, grosso e morbido come un cuscino da divano.
L’ape atterrò sulla mappa dello Stato che tenevo appesa al muro. La osservai camminare lungo la costa della Carolina del Sud, sulla Highway 17. Accostai l’apertura del barattolo al muro, intrappolandola tra Charleston e Georgetown. Quando avvitai il coperchio, cominciò a vorticare lanciandosi ripetutamente contro il vetro con colpi secchi che mi ricordarono la grandine che a volte picchiava sulla finestra.
Avevo reso il barattolo più confortevole possibile con petali carnosi e grassi di polline, e praticato molti fori sul coperchio per impedire che le api morissero, perché, a quanto mi risultava, un giorno la gente poteva reincarnarsi proprio nella creatura che aveva ucciso.
Portai il barattolo all’altezza del naso. «Vieni a vedere come si dibatte» dissi a Rosaleen.
Quando entrò in camera, fui investita dal suo odore, scuro e forte come la roba che pressava dentro la guancia. Sollevò la piccola brocca con l’imboccatura grande come una moneta, il manico stretto fra le dita. La premette sul mento, le labbra protese come una corolla, per poi sputarvi dentro uno schizzo di saliva nera.
Guardò l’ape e scosse la testa. «Se ti punge, non venirmi intorno a piagnucolare, perché a me non importa un bel niente.»
Era una bugia.
Ero la sola a sapere che, malgrado i suoi modi bruschi, aveva il cuore tenero come un petalo di fiore, e mi voleva un bene dell’anima.
Non me ne ero accorta finché, a otto anni, mi comprò all’emporio un pulcino colorato per Pasqua. Lo trovai tremante in un angolo della gabbia, viola come l’uva, che cercava la madre con gli occhietti tristi. Rosaleen me lo lasciò portare a casa, proprio in soggiorno, dove sparsi una scatola di fiocchi d’avena sul pavimento per farlo mangiare e lei non disse una parola di protesta.
Il pulcino lasciò escrementi violacei dappertutto, forse per espellere la pittura penetrata nel suo fragile organismo. Avevamo appena cominciato a pulire quando entrò all’improvviso T. Ray, che minacciò di cuocere il pulcino per cena e licenziare Rosaleen per la sua imbecillità. Si mise a cacciare il pulcino con le mani unte dal trattore, ma lei gli si piazzò davanti. «Ci sono cose peggiori della merda di gallina, in questa stanza» gli disse, squadrandolo da capo a piedi. «Giù le mani da quella bestiola.»
I suoi stivali mormorarono ciac ciac lungo tutto il corridoio. Fu allora che pensai: “Lei mi vuole bene”, e quella era la prima volta che un’idea tanto strampalata mi veniva in mente.
La sua età era un mistero, visto che non possedeva un certificato di nascita. Sosteneva di essere nata nel 1909 o nel 1919, a seconda dell’umore. Del luogo, invece, era sicura: McClellanville, Carolina del Sud, dove sua madre faceva cesti di vimini da vendere per strada.
«Come me che vendo pesche» osservai.
«Niente a che fare con te che vendi pesche» ribatté. «Tu mica hai sette figli da mantenere.»
«Hai sei fratelli e sorelle?» L’avevo sempre creduta sola al mondo, a parte me.
«Li avevo, ma non ho idea di dove siano.»
Dopo tre anni di matrimonio aveva buttato fuori di casa il marito perché beveva. «Se metti il suo cervello in un uccello, si mette a volare all’indietro» ripeteva. Mi chiedevo spesso cosa avrebbe fatto quell’uccello con il cervello di Rosaleen, e decisi che avrebbe passato metà del tempo a cagarti in testa e l’altra metà piazzato nei nidi abbandonati con le ali spalancate.
A volte sognavo a occhi aperti che fosse bianca e sposasse T. Ray, diventando così la mia vera madre. Altre volte io ero un’orfana negra che lei aveva trovato in un campo di grano e adottato. Ogni tanto vivevamo in un Paese straniero come New York, dove lei avrebbe potuto adottarmi e noi saremmo rimaste entrambe del nostro colore naturale.
Mia madre si chiamava Deborah. Il nome più bello del mondo, per me, anche se T. Ray si rifiutava di pronunciarlo. Se lo facevo io, si comportava come se da un momento all’altro potesse andare in cucina ad accoltellare qualcosa. La volta che gli chiesi quando cadeva il compleanno della mamma, e quale glassa preferiva per i dolci, mi ordinò di tacere, e come ripetei la domanda, prese un barattolo di gelatina di more e lo scagliò contro l’armadio a muro della cucina. Ancora oggi è macchiato di blu.
Tuttavia riuscii a strappargli qualche informazione, ad esempio che era sepolta in Virginia, da dove venivano i suoi parenti. Mi riempì di gioia l’idea di poter rintracciare mia nonna. No, dice lui, tua madre era figlia unica e sua madre è morta secoli fa. Ovvio. Una volta, quando calpestò uno scarafaggio in cucina, mi raccontò che la mamma passava ore a cercare di attirare gli scarafaggi fuori da casa con pezzetti di caramella mou e sentieri di briciole di cracker, e che si comportava da maniaca quando si trattava di salvare gli insetti.
A farmi scattare la nostalgia di lei erano le cose più strane. Come i primi reggiseni. A chi rivolgermi per saperne di più? E chi, se non mia madre, avrebbe capito l’importanza di accompagnarmi in macchina alle prove della claque per la squadra della classe? T. Ray non l’afferrava di certo. Ma sapete quando ho sentito di più la sua mancanza? Il giorno in cui, a dodici anni, mi sono svegliata con una macchia color rosa sulle mutandine. Ero molto orgogliosa di quel fiore, ma non avevo altri che Rosaleen a cui mostrarlo.
Non molto tempo dopo trovai in solaio un sacchetto di carta chiuso da una graffetta. Dentro, le ultime tracce di mia madre. La fotografia di una donna che sorride compiaciuta all’obiettivo, con un vestito chiaro dalle spalle imbottite. La sua espressione diceva: “Non osare fotografarmi”, ma in realtà era quello che voleva, lo si capiva chiaramente. Incredibili le storie che leggevo in quell’istantanea: lei aspettava, e con una certa impazienza, vicino al paraurti dell’automobile che l’amore arrivasse al più presto.
Posai la fotografia accanto a un mio ritratto della terza media, in cerca di possibili somiglianze. Anche lei aveva poco mento, eppure era decisamente carina, il che mi infondeva qualche speranza per il futuro.
Il sacchetto conteneva un paio di guanti bianchi di cotone ingialliti dal tempo. Nel prenderli, mi venne in mente: “Qui dentro ci sono state le sue mani”. Ora mi sento stupida a ripensarci, ma una volta li riempii di batuffoli di cotone e li tenni tra le mani per tutta la notte.
La cosa più misteriosa del sacchetto era un quadretto di Maria, la madre di Gesù. La riconobbi malgrado avesse la pelle nera, solo una sfumatura più chiara di quella di Rosaleen. Mi dava l’impressione che qualcuno avesse ritagliato il ritratto della Madonna da un libro, per poi incollarlo su un pezzo di legno levigato e verniciato di circa quattro centimetri di larghezza. Sul retro, una mano ignota aveva scritto: “Tiburon, Carolina del Sud”.
Da due anni tenevo queste sue cose dentro a una scatola di latta sepolta nell’orto. C’era un posto speciale là, nella lunga galleria di alberi, che nessuno conosceva, neppure Rosaleen. Avevo cominciato ad andarci prima ancora che sapessi allacciarmi le scarpe. All’inizio era semplicemente un posto dove rintanarmi per sfuggire a T. Ray e alla sua meschinità, o al ricordo di quel pomeriggio in cui la pistola aveva sparato, ma in seguito presi a rifugiarmici anche dopo che T. Ray era andato a letto, solo per distendermi sotto gli alberi e stare in pace. Era il mio pezzo di terra, il mio nascondiglio segreto.
Le sue cose, riposte nella scatola di latta, le seppellii là fuori una notte alla luce della torcia, perché avevo paura di lasciarle in giro in camera mia, anche in fondo a un cassetto. Temevo che T. Ray potesse salire in solaio e, scoperto che erano sparite, rivoltasse la mia camera da cima a fondo per cercarle. Odiavo pensare a quel che mi avrebbe fatto se le avesse ritrovate tra la mia roba.
Di tanto in tanto uscivo a dissotterrare la scatola. Mi stendevo per terra con gli alberi chini su di me, indossavo i guanti e sorridevo alla sua foto. Studiavo la scritta “Tiburon, Carolina del Sud” sul retro del quadretto della Madonna Nera, la buffa inclinazione delle lettere, e mi chiedevo che genere di posto fosse. Una volta l’avevo cercato sulla carta geografica, e si trovava a non più di due ore di distanza. Mia madre era stata lì e aveva comprato il quadretto? Mi ripromisi di andarci in corriera un giorno, quando fossi stata grande abbastanza. Volevo andare in tutti i posti dove era stata lei.
Dopo la mattinata dedicata alla cattura delle api, trascorsi il pomeriggio alla bancarella sulla strada a vendere le pesche di T. Ray. Era il lavoro estivo più solitario che una ragazzina potesse fare, bloccata in una baracca per strada con tre pareti e un tetto piatto di lamiera.
Seduta su una cassa di Coca-Cola, guardavo i camion sfrecciare davanti a me finché fui quasi avvelenata dai gas di scarico e dalla noia. Il giovedì pomeriggio in genere si vendevano molte pesche, perché le donne le compravano per la crostata della domenica, e invece non si fermò un’anima.
T. Ray mi impediva di portare libri, e se io riuscivo a nasconderne uno dentro la camicetta, ad esempio Orizzonti perduti, qualcuno, tipo la signora Watson della fattoria vicina, quando lo incontrava in chiesa gli diceva: «Ho visto sua figlia alla bancarella tutta presa dalla lettura. Deve essere orgoglioso di lei». E lui mi massacrava di botte.
Ma che razza di persona è una contraria alla lettura? Probabilmente temeva potesse suscitare in me l’idea di andare all’università, secondo lui uno spreco di denaro per le ragazze, anche per quelle che, come me, ottenevano il massimo dei voti che un essere umano può ottenere ai test di competenza linguistica. La competenza matematica è un altro paio di maniche, ma non è che si debba essere eccezionali in tutto.
Ero l’unica studentessa a non protestare e smaniare quando la signora Henry ci assegnava un’altra opera di Shakespeare. Be’, a dire il vero fingevo di lamentarmi, ma dentro di me ero entusiasta come se fossi stata incoronata Reginetta delle Pesche di Sylvan.
Fino alla comparsa della signora Henry, ero convinta che un corso per estetista fosse la mia massima aspirazione. Una volta, studiando il suo viso, le dissi che se fosse stata mia cliente le avrei fatto una pettinatura con il bandeau che le avrebbe donato molto, e lei – e cito testualmente – ribatté: «Ti prego, Lily. Non insultare la tua intelligenza. Ma ti rendi conto di quanto sei brillante? Potresti diventare una professoressa, o una scrittrice, con libri veri da vantare. Altro che scuola per estetista».
Impiegai un mese a superare lo shock di avere delle possibilità nella vita. Sapete quando gli adulti chiedono: “Allora… cosa farai da grande?”. Non posso dirvi quanto odiavo quella domanda, ma all’improvviso mi ritrovai a dire spontaneamente, anche a gente che non era curiosa di sapere, che io volevo fare l’insegnante e scrivere libri veri.
Tenevo una raccolta dei miei lavori. Per qualche tempo, in tutto quello che scrivevo c’era un cavallo. Dopo aver letto in classe Ralph Waldo Emerson, scrissi “La mia filosofia di vita”, che ritenevo l’inizio di un libro, ma arrivai solo alla terza pagina. La signora Henry mi disse che avrei dovuto superare i quattordici anni prima di possedere una filosofia.
Affermò che la mia sola speranza per il futuro era ottenere una borsa di studio, e mi prestò i suoi libri personali per l’estate. Ogni volta che ne aprivo uno, T. Ray commentava: “Ma chi ti credi di essere, Julius Shakespeare?”. Era proprio convinto che quello fosse il nome di battesimo di Shakespeare, e se credete che io avrei dovuto correggerlo, non sapete granché sull’arte della sopravvivenza. Inoltre mi soprannominava signorina Lecca-lecca-libri, e di tanto in tanto signorina Emily-Testagrossa-Diction. Intendeva Dickinson, naturalmente, ma, anche in questo caso, ci sono cose su cui è meglio sorvolare.
In mancanza di libri, alla bancarella delle pesche passavo il tempo a scrivere poesie, ma quell’interminabile pomeriggio rimasi lì seduta a pensare che odiavo la bancarella, la odiavo con tutta me stessa.
Il giorno prima di iniziare le elementari, T. Ray mi scoprì alla bancarella intenta a piantare un chiodo in una delle sue pesche.
Venne verso di me con i pollici ficcati in tasca e gli occhi a fessura per la collera. Osservai la sua ombra avanzare sulla terra e sulle erbacce convinta che mi avrebbe punito per aver trafitto una pesca. Non sapevo neppure perché l’avevo fatto.
E invece mi disse: «Lily, domani cominci la scuola, quindi c’è qualcosa che devi sapere. Qualcosa che riguarda tua madre».
Per un momento tutto rimase silenzioso e immobile, come se il vento fosse cessato e gli uccelli avessero smesso di volare. Quando si accovacciò davanti a me, mi sentii catturata da una soffocante oscurità da cui non potevo liberarmi.
«È ora che tu sappia quel che le è successo, e voglio che tu lo sappia da me, non dalle chiacchiere della gente.»
Non ne avevamo mai parlato, e mi sentii rabbrividire. Il ricordo di quel giorno mi tornava nei momenti più strani. La finestra bloccata. Il suo profumo. Il tintinnio degli attaccapanni. La valigia. Le loro urla, il litigio. E, soprattutto, la pistola per terra, quanto era pesante mentre la sollevavo.
Sapevo che era stato lo sparo che avevo udito quel giorno a ucciderla. Di tanto in tanto quel rumore si insinuava nella mia mente, cogliendomi di sorpresa. Talvolta mi pareva che mentre reggevo la pistola non ci fosse stato alcun rumore, che quello fosse arrivato dopo, mentre in altri momenti, seduta da sola sulla scala del cortile, annoiata, senza sapere che fare, oppure chiusa in camera in un giorno di pioggia, sentivo di essere stata io a provocarlo. Quando avevo sollevato l’arma, lo sparo aveva lacerato l’aria straziandoci il cuore.
Era una consapevolezza segreta che emergeva all’improvviso schiacciandomi sotto il suo peso, e allora mi mettevo a correre – anche se pioveva – e mi scaraventavo giù lungo la collina per rifugiarmi nel mio nascondiglio speciale nel pescheto. Sdraiarmi lì per terra mi aiutava a ritrovare la calma.
In quel momento, T. Ray raccolse una manciata di terra e la lasciò cadere dalle mani. «Il giorno in cui morì, stava pulendo lo stanzino» disse. Non mi spiegavo il suo strano tono di voce, un tono innaturale, come se fosse quasi, ma non del tutto, gentile.
«Stava pulendo lo stanzino.» Mai avevo riflettuto su quel che aveva fatto in quegli ultimi minuti di vita, perché si trovava nello stanzino, le ragioni del litigio.
«Lo ricordo» dissi. La mia voce mi risultava debole e lontana, come se provenisse da una tana di formiche nel terreno.
Lui sollevò le sopracciglia e avvicinò il viso al mio. Solo i suoi occhi tradivano lo stupore. «Come sarebbe?»
«Lo ricordo» ripetei. «Stavate sbraitando.»
Sul suo viso si dipinse un’espressione tesa. «Davvero?» Le labbra avevano cominciato a illividire, un segno che mi metteva sempre in allarme. Arretrai di un passo.
Nel silenzio che seguì, considerai l’ipotesi di dirgli una bugia, di affermare: “Ritiro tutto, non ricordo niente. Dimmi tu cosa è successo”, ma in me c’era un bisogno prepotente, a lungo represso, di parlarne, di pronunciare quelle parole.
Mi guardai le scarpe, il chiodo che avevo lasciato cadere nel vederlo arrivare. «C’era una rivoltella.»
«Cristo.»
Mi fissò a lungo, poi si diresse verso le ceste dietro la bancarella. Si fermò un minuto, i pugni stretti, prima di tornare indietro.
«Che altro? Dimmi subito cosa sai.»
«La pistola era a terra…»
«E tu l’hai raccolta. Immagino che lo ricordi, questo.»
Il rumore dello sparo cominciò a riecheggiarmi nella mente. Guardai verso il frutteto, con la voglia di scappare.
«Ricordo di averla raccolta. Solo questo, però.»
Si chinò e mi prese per le spalle scuotendomi leggermente. «Non ricordi altro? Sicura? Pensaci bene.»
Feci una pausa tanto lunga che lui inclinò la testa di lato, guardandomi con diffidenza.
«Nossignore, nient’altro.»
«Ascolta» disse, premendomi le dita sulle braccia. «Come hai detto, abbiamo litigato. Sul principio non ti abbiamo visto. Poi ci siamo voltati, e tu eri lì, con la pistola in mano. L’avevi raccolta da terra. Poi è partito il colpo.»
Mollò la presa e si ficcò le mani in tasca per giocherellare con chiavi e monete. Provai il forte desiderio di aggrapparmi alle sue gambe, di sentirlo chinarsi a prendermi in braccio, ma non riusciva a muoversi, e io neppure. Fissava il vuoto, oltre la mia testa. Con grande attenzione.
«La polizia ha fatto un sacco di domande, ma si è trattato semplicemente di un terribile incidente. Non l’hai fatto apposta» mormorò. «Ma se qualcuno ti chiede, è questo che è successo.»
Se ne andò, diretto verso casa. Percorsi pochi metri, si voltò. «E smettila di piantare chiodi nelle mie pesche.»
Erano le sei passate del pomeriggio quando tornai a casa dalla bancarella senza aver venduto nulla, neppure una pesca. Trovai Rosaleen in soggiorno. Di solito se ne era già andata a quell’ora, e invece era lì che lottava con l’antenna sopra la TV, cercando di eliminare la neve dallo schermo. Il viso del presidente Johnson si materializzava e poi scompariva, perso nella nebbia. Non l’avevo mai vista così interessata a una trasmissione televisiva da mettere tanto impegno per aggiustare la sintonia.
«Cosa è successo?» chiesi. «Hanno lanciato la bomba atomica?» Da quando, a scuola, avevamo incominciato a esercitarci nelle procedure di emergenza, non potevo fare a meno di pensare di avere i giorni contati. Tutti sistemavano rifugi antiatomici in cortile, facevano provviste di acqua, preparandosi per la fine del mondo. Tredici miei compagni di classe avevano fatto modellini di rifugi per il progetto di scienze, a dimostrazione che non ero la sola a preoccuparmi. Eravamo ossessionati da Chruščëv e dai suoi missili.
«No, non è scoppiata la bomba» rispose lei. «Però vieni qui a sistemare la TV.» Aveva i pugni piantati così profondamente nei fianchi che quasi scomparivano.
Avvolsi un po’ di carta stagnola intorno alle antenne, e lo schermo si chiarì quel tanto da mostrare il presidente Johnson che prendeva posto alla scrivania, circondato da molte persone. A me non piaceva granché il Presidente, perché sollevava i suoi cagnetti per le orecchie. Ammiravo la moglie però, Lady Bird, che sembrava non desiderare altro che mettere le ali e volare via.
Rosaleen trascinò uno sgabello davanti al televisore e si sedette, facendolo scomparire sotto di sé. Protesa verso l’apparecchio, sollevò un lembo della gonna e se lo avvolse intorno alle mani.
«Che succede?» chiesi, ma lei era talmente presa dagli eventi che neppure mi rispose. Sullo schermo, il Presidente firmava un foglio, cambiando almeno dieci penne stilografiche per portare a termine il compito.
«Rosaleen…»
«Sssst» rispose lei, sollevando la mano.
Dovetti apprendere la notizia dal tizio alla TV. «Oggi, 2 luglio 1964, il Presidente degli Stati Uniti ha firmato l’Atto sui Diritti Civili nella Sala Orientale della Casa Bianca…»
Lanciai un’occhiata a Rosaleen, che se ne stava seduta a scrollare la testa. «Dio ci aiuti» mormorò con aria incredula e felice, l’aria di chi, alla televisione, azzecca la Domanda da sessantaquattromila dollari.
Non sapevo se rallegrarmi o preoccuparmi. In chiesa, dopo la funzione, non si faceva che parlare dei negri, e ci si chiedeva se avrebbero ottenuto i diritti civili. Chi l’avrebbe spuntata, i bianchi o quelli di colore? Neanche fosse stato uno scontro all’ultimo sangue. Quando quel pastore dell’Alabama, il reverendo Martin Luther King, era stato arrestato il mese precedente in Florida per aver tentato di pranzare in un ristorante, la gente in chiesa aveva reagito come se la squadra dei bianchi avesse vinto il torneo di baseball. Sapevo che non avrebbero accolto la notizia di buon grado, neanche per sogno.
«Alleluia, Gesù» commentò Rosaleen dal suo sgabello. Completamente assorta nei suoi pensieri.
Rosaleen aveva lasciato sulla cucina economica la cena: il suo famoso pollo in fricassea. Mentre preparavo il piatto per T. Ray, pensavo a come affrontare il delicato argomento del mio compleanno: lui non vi aveva mai badato da quando ero al mondo, ma ogni anno, come un’imbecille, io mi convincevo che sarebbe stato quello buono.
Il mio compleanno coincideva con quello della nazione, il che rendeva ancora più difficile farlo notare. Da piccola, pensavo che la gente sparasse razzi e petardi in mio onore – urrà, oggi è nata Lily! – ma poi la verità si fece strada in me, come sempre.
Avrei voluto dire a T. Ray che un braccialetto d’argento con i ciondoli avrebbe fatto felice qualsiasi ragazza, e che, anzi, l’anno precedente ero stata la sola della scuola media di Sylvan a non esibirne uno; che il solo scopo del pranzo alla mensa era starsene in coda e agitare il polso, offrendo ai presenti un giro guidato della collezione personale di ciondoli.
«Dunque» dissi spingendo il piatto davanti a lui «sabato è il mio compleanno.»
Lo osservai spolpare con la forchetta l’osso di pollo.
«Pensavo che mi piacerebbe moltissimo avere uno di quei braccialetti d’argento con i ciondoli che vendono all’emporio.»
La casa scricchiolò come faceva di tanto in tanto. Fuori dalla porta Snout abbaiò raucamente, poi cadde un silenzio tanto profondo che udivo T. Ray masticare.
Mangiò il petto di pollo e poi passò alla coscia, guardandomi ogni tanto con la consueta durezza.
Stavo per dire: “E allora, che ne pensi del braccialetto?”, ma mi resi conto che aveva già risposto, e questo mi provocò una sorta di dolore fresco e tenero che, in realtà, non aveva nulla a che fare con il braccialetto. Adesso penso che quel dolore fosse per il suono della forchetta che grattava il piatto, un suono che cresceva di intensità nello spazio tra noi, come se io non mi trovassi neppure in quella stanza.
Quella notte, a letto, ascoltai i colpi e il ronzio battente dentro il barattolo delle api, in attesa che fosse tardi abbastanza per poter sgusciare fuori, nel frutteto, e dissotterrare la scatola di latta che conteneva le cose di mia madre. Volevo sdraiarmi e lasciarmi avvolgere da quel luogo.
Quando l’oscurità spinse la luna in alto nel cielo, scesi dal letto, indossai calzoncini corti e camicetta senza maniche e scivolai oltre la camera di T. Ray in silenzio, avanzando con braccia e gambe come un pattinatore sul ghiaccio. Non vidi i suoi stivali, abbandonati in mezzo al corridoio. Quando caddi, il rumore lacerò l’aria così malamente che T. Ray smise per un momento di russare, poi riprese con tre grugniti da porcello.
Scesi le scale con circospezione e attraversai la cucina. Quando la notte mi colpì in viso, mi venne da ridere. La luna era un cerchio perfetto, così luminosa da conferire ai bordi delle cose una sfumatura ambrata. Le cicale cominciarono a ronzare, e io corsi scalza sull’erba.
Per raggiungere il mio posto dovevo arrivare all’ottavo filare a sinistra del capanno del trattore, poi procedere fino al trentaduesimo albero. La scatola di latta era sepolta nella terra dissodata, a una profondità che potevo raggiungere con le mani.
Spazzai via la terra dal coperchio e lo aprii, e subito vidi il biancore dei guanti, poi la fotografia avvolta in carta cerata, proprio come l’avevo lasciata. E infine quello strano quadretto in legno della Madonna dal viso nero. Tirai fuori tutto, e, distesa tra le pesche cadute, posai ogni cosa in grembo.
Quando alzai lo sguardo nell’intrico di alberi, la notte cadde su di me, e per un momento persi i miei confini, con la sensazione che il cielo fosse la mia pelle e la luna il mio cuore che batteva lassù nel buio. Cominciarono i lampi, ma non saette, solo morbidi bagliori dorati che attraversavano il cielo. Sbottonai la camicetta e la aprii, desiderosa che la notte si posasse sulla mia pelle, ed è così che mi addormentai, distesa con le cose di mia madre, l’aria che mi inumidiva il petto e il cielo increspato di luce.
Mi svegliò il rumore di qualcuno che avanzava tra gli alberi. T. Ray! Mi alzai a sedere, in preda al panico, e presi ad abbottonare la camicetta. Sentii i suoi passi, il suo ansimare pesante, veloce. Abbassai lo sguardo sui guanti e sul ritratto della mamma. Smisi di abbottonarmi e li afferrai, armeggiando senza sapere cosa farne, dove nasconderli. Avevo rimesso la scatola nel buco, troppo lontano da me.
«Liliii!» gridava. Vidi la sua ombra proiettarsi verso di me sul terreno.
Mi affannai a nascondere guanti e ritratto sotto la cintura dei calzoncini, poi con dita tremanti ripresi ad abbottonarmi.
Ma prima che potessi finire, fui investita dal fascio di luce, ed eccolo lì, a torso nudo, con la torcia in mano. Il raggio zigzagava veloce, accecandomi quando mi passava davanti agli occhi.
«Con chi eri?» gridò, puntando la torcia sulla mia camicetta ancora aperta.
«Con n-n… nessuno» risposi, cingendo le ginocchia con le braccia, sbalordita da quella sua idea. Non riuscii a guardare a lungo quel viso grande e abbagliante come il volto di Dio.
Rivolse la torcia verso il buio. «Chi è là?» gridò.
«Credimi, T. Ray. Non c’è nessuno. Solo io.»
«Alzati immediatamente» gridò.
Lo seguii fino a casa. Pestava i piedi con tanta forza che mi dispiacque per la terra. Non disse una parola finché non entrammo in cucina, e allora tirò fuori dalla dispensa i chicchi d’avena Martha Whites. «Dai maschi me l’aspetto, Lily… e non si può fargliene una colpa… ma da te mi sorprende davvero. Ti comporti davvero male, peggio di una puttana.»
Sparse un monticello di chicchi delle dimensioni di un formicaio sul pavimento di pino. «Vieni qui e inginocchiati.»
Stavo in ginocchio sui chicchi dall’età di sei anni, ma non mi ero mai abituata a quella sensazione di vetro polverizzato sotto la pelle. Mi mossi in quella direzione con i piccoli passi leggeri di una ragazza giapponese e mi inginocchiai a terra, decisa a non piangere, ma già sentivo pungere gli occhi.
T. Ray, seduto su una sedia, si puliva le unghie con un coltellino tascabile. Io spostavo il peso da un ginocchio all’altro, sperando in uno o due secondi di sollievo, ma il dolore penetrava profondamente nelle mie carni. Mi morsicai il labbro, e fu allora che sentii il quadretto di legno della Madonna Nera sotto la cintura, la carta cerata con dentro la foto di mia madre e i guanti appiccicati alla mia pancia, e all’improvviso ebbi la sensazione che lei fosse lì, stretta al mio corpo, come pezzi e brandelli di isolante plasmati sulla pelle, per proteggermi da tutta la meschinità di T. Ray.
La mattina successiva mi svegliai tardi. Nel momento in cui i miei piedi toccarono il pavimento, controllai le cose di mia madre riposte sotto il materasso, un nascondiglio temporaneo in attesa di poterle sotterrare di nuovo nel frutteto.
Accertato che erano al sicuro andai in cucina, dove trovai Rosaleen intenta a scopare via i chicchi d’avena.
Imburrai una fetta di pane Sunbeam.
Muoveva la scopa a scatti, agitando l’aria. «Cos’è successo?» chiese.
«Sono andata nel frutteto, ieri notte. T. Ray pensa che abbia incontrato un ragazzo.»
«È vero?»
Alzai gli occhi al cielo.
«No.»
«Per quanto tempo ti ha tenuto sui chicchi?»
Mi strinsi nelle spalle. «Un’ora, forse.»
Abbassò lo sguardo sulle mie ginocchia e smise di spazzare. Erano gonfie, costellate di centinaia di segni rossi, piccole punture di spillo che avrebbero formato un livido bluastro. «Guardati, bambina. Guarda cosa ti ha fatto» disse.
Le mie ginocchia avevano subito quella tortura così tante volte nella vita che non la consideravo più insolita, piuttosto una cosa da tollerare di tanto in tanto, come un comune raffreddore. Ma, d’un tratto, l’espressione sul viso di Rosaleen mi diede da pensare. Guarda cosa ti ha fatto.
Era proprio quello che stavo facendo – osservavo con attenzione le mie ginocchia – quando T. Ray entrò a passo pesante dalla porta sul retro.
«To’, ti sei degnata di alzarti, finalmente.» Mi strappò il pane dalla mano per gettarlo nella ciotola di Snout. «Sarebbe troppo chiederti di andare alla bancarella delle pesche a lavorare un po’? Non sei la Regina della Giornata, sai.»
Può sembrare pazzesco, me ne rendo conto, ma fino ad allora avevo pensato che T. Ray mi volesse bene, in qualche modo. Non avevo dimenticato la volta che mi aveva sorriso, in chiesa, quando cantavo con il libro degli inni capovolto.
Lo guardai. Il suo viso era sprezzante, astioso.
«Fintanto che vivi sotto il mio tetto, tu fai come dico io!» strillò.
“Allora mi troverò un altro tetto” pensai.
«Mi sono spiegato?» disse.
«Sissignore, chiarissimo» gli risposi, e in effetti mi era perfettamente chiaro. Capivo che un nuovo tetto avrebbe fatto miracoli per me.
Più tardi, nel pomeriggio, catturai altre due api. Sdraiata bocconi, di traverso al letto, le osservai girare in tondo nel barattolo, alla disperata ricerca dell’uscita.
Rosaleen fece capolino dalla porta. «Tutto bene?»
«Sì.»
«Io esco, adesso. Di’ a tuo padre che domani vado in città invece di venire qui.»
«In città? Portami con te.»
«Perché vuoi venire?»
«Ti prego, Rosaleen.»
«Però devi fartela tutta a piedi.»
«Non mi importa.»
«Sarà tutto chiuso, tranne le bancarelle dei petardi e gli alimentari.»
«Non mi importa. Voglio solo uscire un po’, visto che è il mio compleanno.»
Rosaleen mi fissò, afflosciata sulle caviglie massicce. «Va bene, però chiedilo a tuo padre. Passo di qui al mattino.»
Si incamminò, e io le gridai dietro: «Com’è che vai in città?».
Per un attimo continuò a volgermi la schiena, immobile. Quando si voltò, il suo viso appariva mutato, addolcito, come fosse una diversa Rosaleen. Frugò nella tasca e ne estrasse una pagina di quaderno piegata, prima di venire a sedersi sul letto accanto a me. Mi strofinai le ginocchia mentre lei si stendeva il foglio in grembo.
Il suo nome, Rosaleen Daise, era scritto almeno venticinque volte in un grande, esitante corsivo, come il primo compito che si consegna all’inizio della scuola. «Questo è il mio foglio degli esercizi» disse. «Il 4 luglio si tiene un raduno degli elettori alla chiesa della gente di colore. Ho intenzione di registrarmi per votare.»
Un senso di disagio mi strinse lo stomaco. La sera prima, alla televisione, avevano parlato di un uomo, in Mississippi, ucciso mentre stava registrandosi per votare, e io stessa avevo sentito il signor Bussey, uno degli anziani della chiesa, dire a T. Ray: “Non preoccuparti, gli faranno scrivere il nome in corsivo perfetto e non gli consegneranno la scheda se dimenticano anche un solo puntino sulla i o fanno uno sgorbio sulla ipsilon”.
Studiai le curve della erre maiuscola di Rosaleen. «T. Ray sa cosa stai facendo?»
«T. Ray» disse. «T. Ray non sa proprio un bel niente.»
Al tramonto lui arrivò strascicando i piedi, tutto sudato dopo il lavoro. Gli andai incontro davanti alla porta della cucina, le braccia incrociate sulla camicetta. «Pensavo di andare in città con Rosaleen, domani. Devo comprare degli assorbenti.»
Accettò la cosa senza commenti. T. Ray odiava la pubertà femminile più di ogni altra cosa.
Quella notte guardai il barattolo delle api sul cassettone. Le povere creature, accasciate sul fondo, quasi non si muovevano più, consumate dal desiderio di liberarsi. Ricordai allora come si erano insinuate attraverso le fessure delle pareti e volavano, per il semplice piacere di volare. Pensai a come mia madre costruiva sentieri di briciole di cracker e caramella mou per attirare gli scarafaggi fuori casa, anziché schiacciarli sotto la scarpa. Di sicuro lei non avrebbe approvato quel mio tenerle rinchiuse in un barattolo. Svitai il coperchio e lo misi da parte.
«Potete andare» dissi.
Ma le api rimasero lì, come aerei sulla pista ignari di aver ottenuto il permesso di decollare. Strisciavano sulle zampe lungo le pareti curve come se il mondo si fosse ristretto in quel barattolo. Battei sul vetro, arrivai a posare il barattolo su un fianco, ma quelle api pazze non vollero saperne di uscire.
Le api erano ancora lì il mattino seguente, quando Rosaleen si presentò con una torta di pane degli angeli con quattordici candeline.
«Per te. Buon compleanno» mi disse. Sedemmo a mangiare due fette ciascuna, accompagnate da un bicchiere di latte. Il latte le lasciò una mezzaluna sul labbro superiore scuro, che lei non si preoccupò di pulire. In seguito l’avrei ricordato, quel suo esordio: una donna segnata fin dall’inizio.
Sylvan era molto lontana. Camminammo lungo il bordo della strada, lei che avanzava con la pesantezza di una porta blindata, la piccola sputacchiera infilata al dito. La foschia avvolgeva gli alberi, e ogni centimetro d’aria aveva l’odore intenso delle pesche troppo mature.
«Zoppichi?» mi chiese.
Le ginocchia mi dolevano al punto che faticavo a starle dietro. «Un pochino.»
«Be’, perché non ci sediamo un attimo sul lato della strada?»
«Non preoccuparti. Ce la faccio.»
Una macchina sfrecciò veloce, investendoci con una folata d’aria calda e una coltre di polvere. Rosaleen era madida di sudore. Si deterse il viso con un respiro profondo.
Stavamo per arrivare alla Chiesa Battista di Ebenezer, quella che frequentavamo io e T. Ray. Se ne intravedeva il campanile tra un gruppetto di alberi. In basso, i mattoni rossi apparivano ombrosi e freddi.
«Vieni» dissi, imboccando il viale d’accesso.
«Dove vai?»
«Possiamo riposare in chiesa.»
All’interno penombra e silenzio, l’aria tagliata dal raggio di luce obliquo proveniente dalle finestre sui lati, non bei vetri colorati, ma lattiginosi, che impedivano di vedere al di là.
La precedetti nel secondo banco, facendole spazio. Lei prese un ventaglio di carta dal ripiano per il libro degli inni e osservò l’immagine che vi era riportata: una chiesa bianca con una signora bianca e sorridente che usciva dal portale.
Rosaleen si sventagliò e io sentii i piccoli getti d’aria provenienti dalle sue mani. Lei non andava mai in chiesa, ma le poche volte che T. Ray mi aveva permesso di accompagnarla nella sua casa nei boschi, avevo visto un suo altarino speciale con un mozzicone di candela, pietre del ruscello, una piuma rossa, un pezzo di radice di bella di notte, e, proprio al centro, il ritratto di una donna, in piedi e senza cornice.
La prima volta che lo vidi, chiesi a Rosaleen: «Sei tu?», perché giuro che quella donna pareva proprio lei, con le trecce crespe, la pelle tanto scura da apparire blu, gli occhi sottili, e la maggior parte di lei concentrata in basso, come una melanzana.
«È la mia mamma» rispose.
La foto era diventata opaca ai lati, dove era stata maneggiata. Il suo altarino aveva a che fare con una religione tutta sua, un misto di adorazione della natura e degli antenati. Da anni aveva smesso di frequentare la Casa della Preghiera del Santo Vangelo perché la funzione iniziava alle dieci del mattino per terminare soltanto alle tre del pomeriggio, che è tanta religione da uccidere un adulto, aveva commentato.
T. Ray sosteneva che quella di Rosaleen era semplice superstizione, e che io dovevo starne alla larga. Ma a me faceva pensare che lei amava le pietre di ruscello e le penne di picchio, e che, proprio come me, aveva una sola fotografia della madre.
Una delle porte laterali della chiesa si aprì ed entrò nel presbiterio fratello Gerald, il nostro pastore.
«Santo cielo, Lily. Che ci fai qui?»
Poi, vedendo Rosaleen, prese a grattarsi lo spazio calvo sulla testa con tale agitazione che pensai avrebbe scavato fino al cranio.
«Eravamo dirette in città, ma ci siamo fermate per rinfrescarci.»
La sua bocca prese la forma di “oh”, ma senza pronunciarlo. Era troppo occupato a guardare Rosaleen nella sua chiesa, Rosaleen che scelse proprio quel momento per sputare nella brocchetta.
Strano come si dimenticano le regole. Lei non avrebbe dovuto trovarsi lì. Ogni volta che si spargeva la voce che un gruppo di negri sarebbe venuto alla funzione con noi la domenica mattina, gli anziani si paravano sui gradini davanti alla chiesa, a braccia conserte, per scacciarli. “Noi li amiamo in Dio” diceva fratello Gerald “ma quelli di colore hanno i loro posti.”
«Oggi è il mio compleanno» dissi, nella speranza di volgere i suoi pensieri in una nuova direzione.
«Davvero? Be’, tanti auguri, Lily. Quanti anni compi?»
«Quattordici.»
«Chiedigli se possiamo prendere un paio di ventagli come regalo di compleanno» intervenne Rosaleen.
Lui emise una sorta di sibilo, che voleva essere una risata. «Be’, se lasciassimo prendere un ventaglio a chiunque, non ne resterebbe neppure uno in chiesa.»
«Stava solo scherzando» dissi alzandomi. Lui sorrise soddisfatto, e camminò al mio fianco fino alla porta, con Rosaleen immediatamente dietro di noi.
Fuori, il cielo era diventato bianco di nuvole, e mi si parava davanti agli occhi il riflesso del sole in corpuscoli luminosi. Tagliammo attraverso il cortile della canonica e quando arrivammo alla strada principale, Rosaleen tirò fuori dalla pettorina dell’abito due ventagli della chiesa e, facendomi il verso, disse con aria soave: «Oh, fratello Gerald, stava solo scherzando».
Entrammo a Sylvan dal lato peggiore della città. Case decrepite posate su blocchi di calcestruzzo. Ventole incuneate nelle finestre. Cortili sterrati. Donne con bigodini rosa. Cani senza collare.
Dopo pochi isolati ci avvicinammo alla stazione di servizio Esso all’angolo tra West Market e Park Street, conosciuta come luogo di riunione di perditempo.
Notai che non c’era neppure un’auto a fare rifornimento. Tre uomini, seduti sulle sedie del bar davanti al garage, con un pezzo di compensato sulle ginocchia, giocavano a carte.
«Batti questa» disse uno di loro, e il mazziere, che indossava un berretto da baseball della catena Seed and Feed, gli sbatté davanti con forza una carta. Poi alzò gli occhi e ci vide. Rosaleen, ansimante, si faceva aria e avanzava ondeggiando i fianchi.
«Ehi, guardate chi arriva» gridò l’uomo. «Dove te ne vai, negra?»
In lontananza si udì uno scoppiettio di petardi. «Continua a camminare» sussurrai. «Non dargli retta.»
Ma Rosaleen, che aveva meno sale in zucca di quel che pensavo, rispose con il tono di chi spiega qualcosa di molto difficile a un bambino dell’asilo. «Vado a iscrivermi nelle liste elettorali, ecco dove vado.»
«Dobbiamo sbrigarci» dissi io, proseguendo però al suo passo lento.
Il tizio accanto al mazziere, con i capelli tirati all’indietro, posò le carte. «L’avete sentita questa? Qui abbiamo una cittadina modello.»
Udii il lento canto del vento fluire leggero per strada, dietro di noi, e lungo il canale di scolo. Proseguimmo, e gli uomini spinsero via il tavolo improvvisato e si diressero al marciapiede per aspettarci, come fossero spettatori a una sfilata e noi il carro trionfale.
«Avete mai visto una più nera di questa?» disse il mazziere.
E l’uomo con i capelli tirati all’indietro rispose: «No, e neppure una più grassa».
Naturalmente anche il terzo si sentì in dovere di dire la sua, quindi lanciò un’occhiata a Rosaleen che ancheggiava imperturbabile, reggendo il ventaglio con la signora bianca, e chiese: «Dove l’hai preso quel ventaglio, negra?».
«Rubato in chiesa» rispose lei. Proprio così.
Una volta avevo disceso il fiume Chattooga in zattera con il mio gruppo della parrocchia, e in quel momento provai la stessa sensazione di essere sollevata dalla corrente, da un turbinio di eventi inarrestabili.
Quando arrivammo vicino ai tre, Rosaleen sollevò la sputacchiera, già piena di saliva nera, e con calma la rovesciò sulle scarpe degli uomini, muovendo la mano come se scrivesse il suo nome – Rosaleen Daise – nel modo in cui si era esercitata.
Per un attimo guardarono quel liquido scuro simile a olio da macchina versato sulle loro scarpe. Batterono le palpebre, cercando di capacitarsi. Quando alzarono gli occhi, vidi il loro viso passare dalla sorpresa alla rabbia, poi a una vera e propria furia. Le balzarono addosso, e tutto cominciò a ruotare. Rosaleen cercava di divincolarsi e sbatteva come borsette gli uomini appesi alle sue braccia, e quelli le gridavano di chiedere scusa e pulirgli le scarpe.
«Pulisci!» era l’unica cosa che continuavano a ripetere. E poi, pungenti come aghi, le strida degli uccelli che volavano via dai rami bassi degli alberi, riempiendo l’aria del profumo di pino; e proprio in quel momento mi resi conto che per tutta la vita avrei provato disgusto per quell’odore.
«Chiama la polizia» gridò il mazziere a un uomo dentro al locale.
Nel frattempo Rosaleen era stramazzata a terra, bloccata, e stringeva tra le dita un ciuffo d’erba. Sotto un occhio le usciva il sangue, che le scivolava lungo il mento come fanno le lacrime.
Arrivò un poliziotto, che ci ordinò di salire sul sedile posteriore della sua auto.
«Sei in arresto» disse a Rosaleen. «Aggressione, furto e disturbo della quiete pubblica.» Poi si rivolse a me: «Quando arriviamo alla Stazione, chiamo tuo padre e lascio che sia lui a vedersela con te».
Rosaleen salì in automobile e scivolò sul sedile. Io la seguii, mettendomi al suo fianco.
La portiera si chiuse. Tanto adagio che non sentii che un lieve sbuffo d’aria, e questa fu la stranezza: come un suono tanto lieve potesse investire il mondo intero.