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L’intero assetto della società delle api produttrici di miele dipende dalla comunicazione, l’innata capacità di inviare e ricevere messaggi, codificare e decodificare informazioni.

The Honey Bee

Il 28 luglio fu una giornata memorabile. Ripensandoci, mi vengono in mente quelli che discendono le cascate del Niagara rinchiusi in una botte. Da quando ne avevo sentito parlare, li immaginavo rannicchiati là dentro, che avanzano tranquilli come un’ochetta di gomma nella vasca da bagno di un bambino, e all’improvviso le onde si agitano e la botte comincia a sbattere a destra e a manca mentre da lontano arriva un cupo fragore. Di sicuro intenti a pensare: “Merda, ma cosa mi è saltato in testa?”.

Alle otto del mattino c’erano già trentadue gradi, con l’aspirazione ad arrivare a quaranta prima di mezzogiorno. Fui svegliata da August, che mi scuoteva la spalla. “Alzati subito” diceva “farà un caldo spaventoso; sbrigati, dobbiamo andare ad annaffiare le api.”

Salii sul carro del miele senza neppure pettinarmi. May mi porgeva pane imburrato e spremuta d’arancia dal finestrino, mentre Rosaleen infilava dentro thermos pieni d’acqua, tutte e due praticamente di corsa a fianco del camion che imboccava il vialetto. Mi sentivo come la Croce Rossa che si attiva per soccorrere il regno delle api.

Sul retro del camion, August aveva già sistemato galloni di acqua zuccherata. «Quando la temperatura sale oltre i quaranta gradi, i fiori seccano e le api restano senza cibo. Così rimangono nelle arnie a ventilarsi. A volte finiscono arrostite.»

Ebbi la sensazione che anche noi saremmo arrostite. Non si poteva sfiorare la maniglia della portiera senza procurarsi un’ustione di terzo grado. Il sudore mi colava tra i seni e inzuppava la biancheria. August accese la radio per sentire il bollettino meteo, e invece fummo informate che il Ranger 7 era finalmente approdato sul suolo lunare in un luogo chiamato Mare delle Nuvole, che la polizia cercava i corpi dei tre sostenitori dei diritti civili uccisi in Mississippi, e che nel golfo del Tonchino erano accadute grandi tragedie. Per finire, un servizio su ciò che succedeva “più vicino a casa”: i neri di Tiburon, Florence e Orangeburg stavano marciando quel giorno su Columbia per chiedere al governatore di far rispettare l’Atto sui Diritti Civili.

August spense la radio. Quando basta, basta. Impossibile raddrizzare il mondo intero.

«Ho già annaffiato le arnie vicino a casa» disse. «Zach pensa a quelle nella parte orientale della contea, quindi a noi tocca la parte occidentale.»

Il soccorso alle api ci impegnò tutta la mattinata. Inoltrandoci negli angoli remoti dei boschi, quasi privi di strade, ci imbattemmo in una ventina di arnie su ripiani di legno, come una piccola città perduta nascosta nella vegetazione. Sollevavamo i tetti per riempire i nutritori di acqua dolcificata. In tasca tenevamo dello zucchero, come regalo speciale da cospargere sul bordo dei nutritori.

Riuscii a farmi pungere sul polso mentre rimettevo il coperchio su un’arnia. August estrasse il pungiglione.

«Stavo mandando amore» dissi, sentendomi tradita.

«L’afa sconvolge le api, per quanto amore si mandi loro.» Pescò in tasca una bottiglietta di olio d’oliva e polline che mi strofinò sulla pelle: il suo farmaco brevettato, che mi ero augurata di non sperimentare mai.

«Considerati un’iniziata. Non sei una vera apicoltrice se non hai mai beccato una puntura.»

Una vera apicoltrice. Le parole mi riempirono di soddisfazione, e proprio in quel momento un’esplosione di merli si levò da una vicina radura punteggiando tutto il cielo. “Ma non finiranno mai le meraviglie?” mi chiesi. Decisi di aggiungere quella all’elenco delle carriere. Scrittrice, insegnante di inglese e apicoltrice.

«Pensi che sarei in grado di allevare api, un giorno?» domandai.

«Non mi hai detto la settimana scorsa che una delle cose che amavi erano le api e il miele? Se è così, sarai un’ottima apicoltrice. In realtà, puoi anche non essere particolarmente brava in qualcosa, Lily, ma se ti piace, è più che sufficiente.»

Il braccio mi doleva fino al gomito, e mi stupii che una creatura minuscola potesse infliggere una punizione tanto severa. Ma sono orgogliosa di dire che non mi lamentai. Quando si viene punti, non è possibile tornare indietro, per quanti pianti si facciano. Quindi mi rituffai a capofitto a soccorrere le api.

Annaffiate tutte le arnie di Tiburon e sparso tanto zucchero da far ingrassare di venti chili un essere umano, tornammo a casa accaldate, affamate, e quasi annegate nel nostro sudore.

Imboccato il vialetto, trovammo Rosaleen e May che sorseggiavano tè dolce in veranda. May disse che ci aveva lasciato il pranzo in frigorifero: panini con cotoletta di maiale e insalata di cavolo. Mentre mangiavamo, sentimmo June che al piano superiore suonava il violoncello come se fosse morto qualcuno.

Divorammo tutto senza una parola, poi allontanammo le sedie dal tavolo. Stavamo chiedendoci come mettere in posizione eretta il nostro corpo esausto quando sentimmo urla e risate come quelle che si sentono a scuola, durante la ricreazione. Ci trascinammo nella veranda. Ed ecco May e Rosaleen che correvano davanti all’innaffiatore, scalze e completamente vestite. Sembravano impazzite.

Rosaleen aveva il camicione fradicio incollato al corpo, e May raccoglieva acqua nella sottana e gliela gettava in faccia. Il sole accendeva le sue trecce lucenti.

«Be’, non è roba da matti?» commentò August.

Quando ci vide, Rosaleen prese la canna dell’acqua e ce la puntò addosso. «Avvicinatevi e vi faccio la doccia!» disse, e splat! un getto gelido ci colpì al petto.

Poi abbassò la canna e riempì la gonna di May.

«Avvicinatevi e vi faccio la doccia!» echeggiò May, prima di inseguirci per rovesciarci sulla schiena il contenuto della sottana.

Nessuna di noi due protestò con troppa convinzione. Alla fine restammo lì a farci inzuppare da due negre pazze.

Trasformate in ninfe delle acque, danzammo tutte e quattro intorno al freddo spruzzo, proprio come facevano gli indiani intorno alle fiamme dei falò. Scoiattoli e scriccioli si avvicinavano saltellando fin dove glielo permetteva il coraggio per dissetarsi alle pozze, e quasi si potevano vedere i fili d’erba scuriti sollevarsi e rinverdire.

A quel punto la porta della veranda si spalancò rumorosamente, ed ecco arrivare June, fuori di sé dalla rabbia. Probabilmente ero inebriata dall’acqua, dall’aria e dai balli, perché presi la canna e le dissi: «Avvicinati e ti faccio la doccia!». Poi la bagnai dalla testa ai piedi.

«Maledizione!» imprecò. Sapevo di aver preso la strada sbagliata, ma non riuscivo a fermarmi. Mi vedevo come la squadra dei pompieri mentre June era un furioso incendio.

Mi strappò di mano la canna e mi rivolse lo spruzzo. Un po’ d’acqua mi salì su per il naso, facendomi pizzicare le narici. Afferrai l’innaffiatore, e ce lo contendemmo finché non ci sfuggì colpendoci alla pancia e al mento. Finimmo in ginocchio, sempre lottando, con una specie di geyser tra noi. Lei mi fissava da vicino, con luminose perle d’acqua sulle ciglia. Sentii che May cominciava a canticchiare Oh! Susanna. Mi misi a ridere, per farle capire che stavamo scherzando, ma non mollavo. Rifiutavo di darla vinta a June Boatwright.

«Dicono che se si punta la canna su due cani incastrati dopo l’accoppiamento, loro riescono a liberarsi, ma forse non è sempre così» commentò Rosaleen.

August si mise a ridere, e io vidi ammorbidirsi l’espressione di June, che cercava di resistere all’ilarità, ma era come il bambino olandese che tira fuori il dito dalla diga: non appena i suoi occhi si addolcirono, ci fu il crollo. Potevo quasi vederla battersi la mano sulla fronte, mentre pensava: “Sto lottando con una quattordicenne per una manichetta da giardino. Ridicolo”.

Mollò la presa e si accasciò sull’erba, scossa da un attacco di risa. Io mi lasciai cadere accanto a lei, ridendo a mia volta. Non riuscivamo a smettere. Non ero esattamente sicura per cosa stavamo ridendo, ma ero felice di farlo insieme a lei.

Quando ci alzammo, June disse: «Oddio, mi gira la testa come se qualcuno mi avesse staccato la spina dai piedi prosciugandomi completamente».

Rosaleen, May e August avevano ripreso a giocare alle ninfe delle acque. Guardai il punto in cui i nostri corpi erano stati distesi fianco a fianco, l’erba umida schiacciata, i perfetti avvallamenti nella terra. Ci camminai sopra con grande attenzione, e, nel vedermi, anche June li calpestò e poi, con mio grande stupore, mi abbracciò. June Boatwright mi abbracciò, e i nostri abiti fecero un dolce ciac ciac lungo il nostro corpo.

Nella Carolina del Sud, se la temperatura sale oltre i quaranta gradi bisogna starsene a letto. Praticamente è legge. La si potrebbe considerare indolenza, ma in realtà, quando stiamo lì sdraiati a boccheggiare, diamo alla mente il tempo di inseguire nuove idee, di individuare qual è lo scopo della vita, e in genere di farci saltare in testa cose che aspettano di rivelarsi. In prima media, un mio compagno di classe aveva una placca d’acciaio nel cranio, e si lamentava sempre che le risposte ai test non riuscivano a penetrarla. E l’insegnante, immancabilmente, gli rispondeva: «Ma fammi il piacere».

In un certo senso, però, lui aveva ragione. Ogni essere umano sulla faccia della terra ha una placca di acciaio in testa, che si apre – se ogni tanto ci si sdraia e si rimane immobili più che si può – come le porte di un ascensore, lasciando uscire tutti i pensieri segreti che sono rimasti in paziente attesa e premono il pulsante per salire fino in cima. Le grandi crisi della vita si verificano quando quelle porte segrete restano chiuse troppo a lungo. Questa, almeno, è la mia opinione.

Probabilmente August, May, June e Rosaleen erano in camera nella casa rosa, distese sotto i ventilatori, a luci spente. Mi sdraiai sulla branda e mi dissi che potevo pensare a qualsiasi cosa tranne a mia madre; così, naturalmente, lei fu la sola a voler salire sull’ascensore.

Sentivo le cose districarsi intorno a me. I margini sfrangiati del mondo dei sogni. Tiri un filo sbagliato e ti ritrovi nel disastro fino ai gomiti. Avevo un forte desiderio di parlare a Rosaleen della telefonata a T. Ray, di dirle: “Se ti chiedi se la mia partenza lo abbia indotto a riesaminare i suoi sentimenti, o a cambiare atteggiamento, sprechi il tuo tempo”. Ma ero restia a rivelare che tenevo a lui abbastanza da chiamarlo.

Doveva esserci qualcosa di strano in me, per riuscire a vivere lì come se non avessi nulla da nascondere. Sdraiata sul letto, esausta, fissavo il riquadro illuminato della finestra. Richiede molta energia tenere tutto sotto controllo. “Fammi uscire” diceva mia madre. “Fammi uscire da questo dannato ascensore.”

Bene, allora. Tirai fuori la sacca ed esaminai la sua fotografia. Mi chiesi come doveva essere stare dentro di lei, un frammento di carne che nuota nella sua oscura cavità, le silenziose comunicazioni passate tra noi.

La nostalgia di lei permaneva in me, ma non più forte e travolgente come prima. Infilai i suoi guanti, e notai che d’improvviso mi erano diventati stretti. A sedici anni sarebbero apparsi minuscoli per le mie mani. Come Alice nel Paese delle meraviglie che, mangiata la torta, raddoppia le sue dimensioni. I palmi avrebbero strappato le cuciture, e non sarei mai più stata in grado di indossarli.

Sfilai i guanti dalle mani sudate e avvertii un’ondata di agitazione, il vecchio senso di colpa sfilacciato, la collana di menzogne che non riuscivo a togliermi di dosso, il timore di essere cacciata via dalla casa rosa.

«No» ansimai. La parola impiegò molto a risalire la mia gola. Un mormorio spaventato. No, non dovevo pensarci, non dovevo provare quei sentimenti. Non potevo permettere che tutto mi crollasse addosso. No.

Decisi che starmene lì a boccheggiare era un’idiozia. Mi alzai per andare a bere qualcosa di fresco nella casa rosa. Se mai fossi riuscita ad arrivare in paradiso, dopo tutto quello che avevo combinato, avrei voluto un colloquio privato con Dio, anche di soli pochi minuti. Gli avrei detto semplicemente: “Senti, so che le tue intenzioni erano buone quando hai creato il mondo e tutto quanto, ma come hai potuto permettere che si allontanasse da te in questo modo? Com’è che non ti sei attenuto alla tua idea originale di paradiso?”. La vita è un gran casino.

In cucina trovai May seduta per terra a gambe divaricate, con una scatola di cracker integrali in grembo. Perfettamente logico: io e May, le uniche due a non poter riposare tranquille per cinque minuti.

«Ho visto uno scarafaggio» disse, pescando in un sacchetto di caramelle mou che solo allora notai. Ne tirò fuori una e la sbriciolò. Quella matta di May.

Aprii il frigo e rimasi a guardare dentro come se aspettassi che la bottiglia del succo di pompelmo mi saltasse in mano invitandomi a berla. Sul principio non registrai ciò che stava facendo May. A volte le cose di grande importanza penetrano in noi con esasperante lentezza. Ci si rompe una caviglia, poniamo, e solo dopo aver percorso un intero isolato si avverte dolore.

Finii il succo di frutta prima di concedermi di guardare il piccolo sentiero di cracker e briciole di caramella mou che May stava costruendo sul pavimento, dal lavandino verso la porta: spesse briciole dorate e frammenti di bianco colloso.

«Così gli scarafaggi seguiranno la strada fino alla porta. Funziona benissimo» disse.

Non so per quanto tempo fissai la riga sul pavimento, prima di guardare May, chiaramente in attesa di un mio commento. Ma non sapevo che dire. La stanza si riempì del ronzio monotono del motore del frigo. Avvertii una strana, intensa sensazione dentro di me. Un ricordo. Aspettai che affiorasse… “Tua madre si comportava da maniaca quando si trattava di salvare gli insetti” mi aveva raccontato T. Ray. “Costruiva sentieri di briciole di cracker e caramella mou per attirarli fuori.”

Tornai a guardare May. “La mamma forse ha imparato da lei quel trucco” mi dissi.

Da quando avevo messo piede nella casa rosa, una parte di me aveva continuato a credere che mia madre fosse stata in quel posto, o meglio, non proprio crederlo, ma fantasticarlo, sullo sfondo di un groviglio di pii desideri. Ma ora che quella possibilità sembrava profilarsi davanti a me, la trovai pazzesca, forzata. “Non può essere” pensai.

Andai a sedermi al tavolo. Le ombre color pesca del tardo pomeriggio si insinuavano nella stanza, sempre più tenui, e la cucina era immersa nel silenzio. Perfino il ronzio del frigo era cessato. May era tornata al lavoro, dimentica della mia presenza.

La mamma poteva averlo imparato da un libro, o da sua madre. Forse in tutte le famiglie si usava quello stesso metodo per liberarsi degli scarafaggi. Mi avvicinai a May con gambe tremanti. Le posai la mano sulla spalla. “Bene, coraggio” mi dissi. «May, hai mai conosciuto una certa Deborah?» chiesi. «Deborah Fontanel? Una bianca della Virginia? Dovrebbe essere stato molto tempo fa.»

Non c’era traccia di astuzia in May, e si poteva stare sicuri che non rifletteva troppo prima di rispondere a una domanda. Non alzò gli occhi, non si fermò a pensare, e disse semplicemente: «Ah, sì, Deborah Fontanel. Stava là, nella casa del miele. Una persona deliziosa».

Tutto qui. Nient’altro.

Per un momento avvertii una vertigine, e dovetti sorreggermi al bancone. Per terra, il sentiero di briciole e di mou sembrava quasi vivo.

Avevo un milione di altre domande, ma May si era messa a canticchiare Oh! Susanna. Posò la scatola di cracker e si alzò lentamente, cominciando a tirare su con il naso. L’accenno a Deborah Fontanel l’aveva mandata in crisi.

«Vado al muro un momento» annunciò. E così mi piantò in asso in cucina, accaldata e senza fiato, mentre il mondo vacillava sotto di me.

Mi incamminai verso la casa del miele, concentrata sui miei piedi che calpestavano il fango indurito del vialetto, le radici sporgenti degli alberi, l’erba appena annaffiata, la terra sotto di me solida, viva, antica, sempre lì ad accogliere il mio piede. Sempre lì, lì, perennemente lì. Come dovrebbe essere una madre.

Ah, sì, Deborah Fontanel. Stava là, nella casa del miele. Una persona deliziosa.

Sedetti sul letto e mi abbracciai le ginocchia per appoggiarvi il mento. Guardai il pavimento e le pareti con occhi nuovi. Mia madre si era aggirata per quella stanza. Una persona reale, non una che avevo inventato io, ma una persona viva, che respirava.

Inaspettatamente mi addormentai, ma quando l’organismo riceve un duro colpo, il corpo non desidera altro che cedere al sonno.

Mi svegliai un’ora dopo nello spazio vellutato in cui ancora non si ricordano i propri sogni. Poi, all’improvviso, tutto affiorò in me.

In una camera che un minuto sembra quella nella casa del miele, e poi quella di Sylvan, sto costruendo un sentiero tortuoso di miele a partire da una porta che non ho mai visto fino ai piedi del letto. Poi siedo ad aspettare. La porta si apre. Entra mia madre. Seguendo il percorso zigzagante del miele arriva al mio letto. Sorride, bellissima, poi mi accorgo che non è una persona normale. Dall’abito le escono zampe da insetto – sei in tutto, tre per lato –, che si protendono dalla gabbia toracica, dal busto.

Non capivo cosa mi avesse messo in testa quell’immagine. L’aria era polverosa e rosata, e abbastanza fresca da indurmi a coprire le gambe con il lenzuolo. Sentivo lo stomaco contratto, come se stessi per vomitare.

Se in questo momento vi dicessi di non aver mai riflettuto su quel sogno, mai chiuso gli occhi per raffigurarmela con zampe da scarafaggio, di non essermi mai chiesta perché mi fosse apparsa in quel modo, nel suo aspetto peggiore, significherebbe che sono tornata alla mia vecchia abitudine di mentire. Lo scarafaggio è una creatura che nessuno può amare, ma neppure la si può eliminare. Ci sarà sempre, sempre. Si può solo cercare di liberarsene.

I giorni successivi mi sentii tesa come una corda di violino. Bastava che qualcuno lasciasse cadere a terra un nichelino per farmi sobbalzare. A tavola rimestavo il cibo nel piatto, gli occhi fissi come fossi in trance. A volte mi saltava in mente l’immagine di mia madre con zampe da scarafaggio, e allora dovevo ingoiare un cucchiaio di miele per mettere a tacere lo stomaco. Ero talmente nervosa che non riuscivo a seguire per cinque minuti American Bandstand alla televisione, quando di solito pendevo dalle labbra di Dick Clark.

Mi aggiravo per la casa, fermandomi ogni tanto a raffigurarmi la mamma nelle varie stanze. Seduta con la gonna distesa a ventaglio sul panchetto del piano, in ginocchio davanti a Nostra Signora, intenta a studiare la raccolta di ricette che May ritagliava dalle riviste e attaccava con lo scotch al frigorifero. Fissavo quelle immagini trasognata, finché non sentivo su di me gli occhi di August, June o Rosaleen. Schioccavano la lingua e mi tastavano la fronte per sentire se avevo la febbre.

«Che c’è? Che ti succede?» chiedevano.

Io scuotevo la testa. «Niente» mentivo. «Niente.»

In realtà avevo la sensazione di essere bloccata su un’alta scogliera, sul punto di tuffarmi in acque sconosciute. Acque pericolose. Volevo soltanto rinviare un poco quel tuffo, percepire la presenza di mia madre in quella casa, fingere di non aver paura di conoscere ciò che l’aveva portata là, di non temere che potesse sconvolgermi come aveva fatto nel sogno, comparendo con sei zampe e orribile.

Desideravo andare dritta da August e chiederle la ragione del soggiorno di mia madre in quel luogo, ma ero paralizzata dal terrore. Volevo sapere, e allo stesso tempo non volevo. Ero sospesa in un limbo.

Il venerdì pomeriggio sul tardi, puliti e riposti gli ultimi telai, Zach uscì a dare un’occhiata dentro al cofano del carro del miele. Qualcosa continuava a non funzionare nel motore, che si surriscaldava malgrado l’intervento di Neil.

Tornai in camera mia e sedetti sul letto. Dalla finestra si irradiava un gran calore. Pensai di alzarmi ad accendere il ventilatore, ma poi rimasi lì a fissare il cielo lattiginoso fuori dei vetri, con una sensazione di tristezza crescente. Sentii la musica proveniente dalla radio del camion, Sam Cooke che cantava Another Saturday Night, poi May in cortile che chiamava Rosaleen per dirle che bisognava togliere le lenzuola dalla corda dei panni. Mi colpì che tutto continuasse come sempre, mentre io ero sospesa, in attesa, davanti a un terribile crepaccio sempre più ampio che si estendeva tra il vivere la mia vita e non viverla. Non potevo rimandare per sempre, come se il tempo non avesse fine, come se questa estate non avesse fine. Sentii sgorgare le lacrime. Dovevo chiarire la situazione. A prescindere da quel che sarebbe accaduto.

Andai a rinfrescarmi il viso.

Presi un respiro profondo, infilai in tasca il quadretto della Madonna Nera e la fotografia della mamma e mi incamminai verso la casa rosa, in cerca di August.

Pensavo che ci saremmo sedute sul suo letto, oppure fuori sulle sedie sdraio, se non c’erano troppe zanzare. August avrebbe detto: “Che ne pensi, Lily? Vogliamo fare quella famosa chiacchierata, noi due?”. Io le avrei mostrato il quadretto per poi raccontarle tutto, e lei mi avrebbe parlato di mia madre.

Magari fosse andata così.

Ero diretta verso la casa, quando Zach mi chiamò dal camion. «Vuoi fare un salto in città con me? Corro a comprare un nuovo tubo del radiatore prima che chiuda il negozio.»

«Devo parlare con August» dissi.

Richiuse rumorosamente il cofano e si pulì il dorso e il palmo delle mani sui calzoni. «August è in sala con Zuccherino, che è arrivata in lacrime. Pare che Otis abbia usato i loro risparmi di tutta una vita per comprare un peschereccio di seconda mano.»

«Ma io devo parlarle di una cosa importante.»

«Ti toccherà aspettare il tuo turno. Dai, torniamo prima che Zuccherino abbia finito.»

Esitai un attimo, prima di cedere. «D’accordo.»

Il negozio di autoricambi era a due porte di distanza dal cinema. Mentre Zach parcheggiava, li vidi: cinque o sei bianchi davanti al botteghino. Giravano in tondo, lanciando occhiate nervose in ogni direzione, come in attesa di qualcuno; ben vestiti, indossavano cravatte con il fermaglio da impiegati o cassieri di banca. Uno di loro reggeva in mano quello che sembrava il manico di un badile.

Zach spense il carro del miele e li fissò oltre il parabrezza. Davanti al negozio di autoricambi, un cane, un vecchio beagle col muso imbiancato dagli anni, fiutava una traccia sul marciapiede. Zach batté le dita sul volante e sospirò. A quel punto compresi: era venerdì, e quelli aspettavano Jack Palance con la donna di colore.

Rimanemmo un attimo in silenzio, mentre i rumori del camion parevano amplificarsi. Il cigolio di una molla sotto il sedile. Il tamburellare delle dita di Zach. Il mio respiro affannato.

Poi, uno degli uomini si mise a urlare. Sobbalzai battendo le ginocchia contro il cruscotto. Fissava davanti a sé e gridava: «Che cosa state guardando, voialtri?».

Zach e io ci voltammo verso il finestrino posteriore. Tre adolescenti di colore, sul marciapiede, bevevano Coca-Cola dalla bottiglia. Guardavano nella direzione di quegli uomini.

«Torniamo un’altra volta» dissi io.

«Non c’è problema. Tu aspetta qui» ribatté Zach.

“Il problema c’è, eccome” pensai.

Mentre scendeva dal carro del miele, sentii che i ragazzi lo chiamavano per nome. Attraversarono la strada per avvicinarsi al camion. Mi lanciarono un’occhiata dal vetro, mentre allungavano qualche spinta scherzosa a Zach. Uno di loro gli agitò la mano davanti al viso come se avesse morsicato un peperoncino messicano. «Chi hai lì dentro?» gli chiese.

Io mi sforzai di sorridere, ma la mia mente era ferma su quegli uomini, che sapevo ci tenevano d’occhio.

Anche i ragazzi lo sapevano, e uno di loro – si chiamava Jackson, scoprii in seguito – disse a voce veramente alta: «Bisogna essere completamente imbecilli per credere che Jack Palance venga a Tiburon». Dopodiché tutti scoppiarono a ridere. Anche Zach.

Il tizio con il manico di badile marciò vicino al paraurti del camion e fissò i ragazzi con quel mezzo sorriso e mezzo ghigno che avevo visto mille volte sul viso di T. Ray, quell’espressione di prepotenza priva di ogni affetto, e berciò: «Che hai detto, ragazzo?».

Il rumore di sottofondo della strada cessò completamente. Il beagle abbassò le orecchie e si rintanò sotto una macchina parcheggiata. Vidi Jackson stringere i denti, un minuscolo solco formarsi sulla guancia. Lo vidi alzare la bottiglietta di Coca-Cola sopra la testa. E lanciarla.

Chiusi gli occhi, mentre quella gli volava via dalla mano. Quando li riaprii, c’erano frammenti di vetro sparsi per tutto il marciapiede. L’uomo lasciò cadere il manico di badile per portarsi la mano sul naso. Il sangue gli colava tra le dita.

Si voltò verso gli altri. «Quel negro di merda mi ha sfasciato il naso» disse. Sembrava più che altro sbalordito. Si guardò intorno, confuso, poi si diresse al negozio vicino, colando sangue sul selciato.

Zach e i ragazzi si strinsero accanto alla portiera, incollati al marciapiede, mentre gli altri uomini li circondavano, spingendoli contro il camion. «Chi di voi ha lanciato la bottiglia?» chiese uno.

Nessuno fiatò.

«Banda di vigliacchi» disse un altro, che aveva raccolto da terra il manico di badile e lo agitava verso i ragazzi ogni volta che cercavano di muoversi. «Dite chi è stato, e gli altri tre possono andarsene.»

Silenzio.

Dai negozi aveva cominciato a uscire gente che si raccoglieva in piccoli crocchi. Fissai la nuca di Zach. Sentivo il mio cuore palpitare allo spasimo in attesa della sua mossa successiva. Sapevo che fare la spia era considerato ignobile, ma avrei voluto che lui puntasse il dito e dicesse: “Quello lì. È stato lui”. Così poteva risalire sul carro del miele per tornare indietro insieme a me.

Avanti, Zach.

Lui si voltò a guardarmi con la coda dell’occhio. Alzò lievemente le spalle, e io capii che non c’era niente da fare, non avrebbe aperto bocca. “Mi dispiace, ma questi sono amici miei”stava cercando di comunicarmi.

Decise di rimanere lì, uno di loro.

Guardai il poliziotto infilare in macchina Zach e gli altri tre ragazzi. Mentre si allontanava, azionò la sirena e la luce rossa, il che mi parve del tutto superfluo, ma evidentemente non voleva deludere il pubblico raccolto sul marciapiede.

Sedevo sul camion paralizzata, come se il mondo fosse congelato intorno a me. La folla si disperse, e tutte le automobili, una a una, presero la via di casa. I negozianti chiusero bottega. Fissavo il parabrezza come fosse il monoscopio che compariva alla televisione a mezzanotte. Passato il primo momento di shock, cercai di decidere che fare, come arrivare a casa. Zach aveva preso le chiavi, altrimenti avrei potuto guidare io stessa, anche se non distinguevo l’acceleratore dal freno. Non c’era più neppure un negozio aperto dove chiedere di usare il telefono, e quando individuai un apparecchio a gettone per strada, mi accorsi di non avere un centesimo. Scesi dal camion e mi incamminai.

Quando arrivai alla casa rosa, una mezz’oretta dopo, trovai August, June, Rosaleen, Neil e Clayton Forrest riuniti all’ombra vicino alle ortensie. Il brusio delle voci arrivava fino a me nella luce calante. Sentii pronunciare il nome Zach, poi il signor Forrest che diceva “prigione”. Immaginai che Zach avesse fatto a lui l’unica telefonata concessa, ed eccolo lì a rivelare la notizia.

Neil stava accanto a June, il che mi rivelò che in realtà non facevano sul serio quando lei gli aveva urlato di non farsi mai più vedere e lui le aveva dato della stronza egoista. Mi avvicinai a loro non vista. Qualcuno, per strada, stava bruciando stoppie. Tutto il cielo odorava di erba, e frammenti di cenere mi volteggiavano sulla testa.

Li raggiunsi alle spalle. «August!» dissi.

Lei mi strinse a sé. «Grazie a Dio, sei qui. Stavo per venire a cercarti.»

Le raccontai l’accaduto mentre ci avviavamo verso casa. August mi cingeva la vita, quasi temesse che potessi svenire di nuovo, mentre non ero mai stata presente come in quel momento: le ombre azzurrine che si stagliavano sulla casa come animali feroci – un coccodrillo, un orso grizzly –, l’odore di Alka-Seltzer che emanava da Clayton Forrest, i suoi capelli brizzolati, il peso della nostra ansia che ci gravava sulle caviglie rallentando il nostro passo.

Sedemmo sulle sedie dallo schienale ad assicelle intorno al tavolo di cucina, tutti tranne Rosaleen, che servì bicchieri di tè e un vassoio di panini con formaggio al peperoncino, come se qualcuno potesse mangiare. Rosaleen esibiva una perfetta pettinatura tutta a treccioline, che probabilmente le aveva fatto May dopo cena.

«Qualche possibilità che gli diano la libertà provvisoria?» chiese August.

Clayton si schiarì la voce. «Il giudice Monroe è in vacanza fuori città, quindi nessuno può uscire prima di mercoledì prossimo, a quanto pare.»

Neil si alzò per andare alla finestra. Aveva i capelli tagliati con una linea dritta sulla nuca. Cercai di concentrarmi sulla sua testa per non crollare. Mancavano cinque giorni a mercoledì. Cinque giorni.

«Be’, sta bene?» chiese June. «Non è stato ferito, vero?»

«Mi hanno permesso di vederlo soltanto per un minuto» spiegò Clayton. «Ma pareva stare bene.»

Fuori, le ombre della sera si muovevano verso di noi. Ne ero consapevole, come ero consapevole del modo in cui Clayton aveva detto che pareva stare bene, e noi capivamo che non era così ma comunque avremmo finto di crederlo.

August chiuse gli occhi e si lisciò le rughe della fronte. Vidi un sottile velo brillante nei suoi occhi: l’inizio delle lacrime. Dentro quegli occhi ardeva un fuoco, un fuoco su cui si poteva contare, a cui ci si poteva avvicinare per riscaldarsi quando si sentiva freddo, o cuocervi qualcosa per riempire il vuoto dentro di noi. Eravamo alla deriva nel mondo, e non avevamo altro che il fuoco umido negli occhi di August. Ma era sufficiente.

Rosaleen mi guardò, e mi parve di leggere i suoi pensieri. Solo perché hai fatto uscire me di prigione, non farti venire in mente qualche brillante idea per Zach. Capii come certuni potessero diventare delinquenti abituali. Il primo delitto è il più difficile, e poi si è indotti a pensare: “Cosa cambia, uno in più?”. Qualche anno in più in gattabuia. Mica granché.

«Che cosa intende fare?» chiese Rosaleen a Clayton, guardandolo dall’alto in basso. Il seno le poggiava sullo stomaco, e aveva i pugni piantati sui fianchi. Sembrava pronta a riempirsi la bocca di tabacco e marciare dritta sulla prigione di Tiburon a sputare sulle scarpe di qualcuno.

È evidente che anche in Rosaleen ardeva un fuoco. Non un fuoco da camino, come quello di August, ma quello che divora un’intera casa, se necessario, per fare piazza pulita. Mi ricordava la statua di Nostra Signora in sala, e pensai: “Se August è il cuore rosso sul petto di Maria, Rosaleen è il pugno”.

«Farò il possibile per tirarlo fuori» disse Clayton «ma temo che dovrà restarci un po’.»

Tastai in tasca il quadretto della Madonna Nera, ricordando quel che mi ero ripromessa di dire ad August riguardo a mia madre. Ma come potevo farlo ora, con tutto quello che era successo a Zach? Quella conversazione avrebbe dovuto attendere, e sarei tornata in quello stato di sospesa agitazione in cui ero vissuta fino ad allora.

«Non mi pare il caso di informarne May» disse June. «Ne morirebbe. Vuole un gran bene a quel ragazzo, lo sappiamo tutti.»

«Hai ragione. Sarebbe decisamente troppo per lei» concordò August.

«Dov’è, tra l’altro?» mi informai.

«A letto, dorme» rispose Rosaleen. «Era esausta.»

Ricordai di averla vista, nel pomeriggio, caricare pietre sul carretto. Per continuare il muro, come se sentisse che presto sarebbe stato necessario aggiungerne un pezzo.

A differenza della prigione di Sylvan, quella di Tiburon era priva di tende. Grigia, rivestita di cemento, con finestre di metallo e scarsa illuminazione. Stavo commettendo un’imprudenza, mi dissi. Ricercata dalla polizia, eccomi lì a entrare in un carcere dove probabilmente gli agenti erano in grado di riconoscermi. Ma August mi aveva chiesto se volevo andare con lei a fare visita a Zach, e come potevo rifiutare?

Il poliziotto, capelli a spazzola, era molto alto, più ancora di Neil, che svettava come un giocatore di pallacanestro. Non parve particolarmente felice di vederci. «Lei è sua madre?» chiese ad August.

Lessi il nome sulla targhetta: Eddie Hazelwurst.

«La sua madrina» rispose lei, drizzando la schiena come se quello la stesse misurando. «E questa è un’amica di famiglia.»

Mi lanciò un’occhiata distratta. L’unica cosa che pareva insospettirlo era il fatto che una ragazza bianca come me fosse un’amica di famiglia. Si gingillava con il fermaglio di un blocco marrone preso dalla scrivania, incerto sul da farsi.

«Va bene, avete cinque minuti» annunciò.

Aprì la porta di un corridoio che conduceva a una sola fila di quattro celle, in ognuna delle quali era rinchiuso un ragazzo nero. Fui quasi sopraffatta dall’odore di sudore e di orinali sporchi. Avrei voluto tapparmi il naso, ma sapevo che sarebbe stato oltremodo offensivo. Non potevano farci niente se puzzavano.

Seduti su brandine agganciate al muro, ci seguirono con lo sguardo. Uno di loro gettava un bottone contro il muro, una specie di gioco. Si interruppe nel vederci.

Il signor Hazelwurst ci accompagnò all’ultima cella. «Zach Taylor, hai visite» sibilò, guardando l’orologio.

Zach mosse un passo verso di noi, e io mi chiesi se gli avessero messo le manette, preso le impronte digitali e scattato la foto, se fosse stato maltrattato. Provai il forte desiderio di infilare il braccio tra le sbarre per toccarlo, di premere le dita sulla sua pelle, perché mi pareva che solo quel contatto fisico potesse darmi la sicurezza che tutto ciò stava accadendo davvero.

Quando fu chiaro che il signor Hazelwurst non intendeva allontanarsi, August cominciò a parlare. Raccontò che in una delle arnie situate nella fattoria Haney si era verificata una sciamatura. «Sai quale dico: quella che aveva problemi con gli acari.»

Si addentrò nei particolari della sua ricerca affannosa, nelle ore del crepuscolo. Aveva rastrellato i boschi fino ai campi di angurie, per trovare infine le api su una giovane magnolia, l’intero sciame lì appeso come un pallone nero impigliato tra i rami. «Ho usato l’imbuto per infilarle in una scatola da sciami, poi le ho rimesse nell’arnia» disse.

Penso che stesse cercando di ficcare in testa a Zach che lei non avrebbe avuto pace finché non l’avesse riportato a casa con noi. Zach, gli occhi marroni umidi, sembrava sollevato che la conversazione si mantenesse sulle sciamature.

Io mi ero preparata un discorsetto, ma al momento non riuscii a ricordarlo. Rimasi ad ascoltare August che gli chiedeva come stava e cosa gli occorreva.

Mentre lo osservavo, colma di tenerezza e di dolore, mi chiesi cosa ci univa. Forse le ferite nascoste nella gente si riconoscono, si nutrono di una sorta di amore reciproco?

«Il tempo è scaduto. Andiamo» disse a un certo punto il signor Hazelwurst, e allora Zach mi lanciò un’occhiata. Sulla tempia, una vena sporgente pulsava. Avrei voluto incoraggiarlo, dirgli che eravamo più simili di quanto non pensasse, ma sembrava un’assurdità. Avrei voluto allungare la mano tra le sbarre e toccare la vena in cui scorreva il sangue. Ma non feci né l’una né l’altra cosa.

«Continui a scrivere sul tuo quaderno?» chiese lui, con espressione d’un tratto quasi disperata.

Lo guardai annuendo. Nella cella accanto, il ragazzo – Jackson – lanciò una sorta di fischio, che fece sembrare quel momento stupido e volgare. Zach lo fulminò con un’occhiataccia.

«Andiamo, i cinque minuti sono finiti» disse il poliziotto.

August mi mise la mano sulla schiena per indurmi ad allontanarmi. Avevo l’impressione che Zach volesse chiedermi qualcosa. Aprì la bocca, poi la richiuse.

«Scriverò tutto questo per te» dissi. «Lo farò diventare una storia.»

Non so se era quel che intendeva chiedermi, ma in fondo tutti quanti vogliamo che qualcuno si accorga dei torti che ci vengono fatti e vi attribuisca tanta importanza da metterli per iscritto.

Sbrigavamo le nostre faccende senza preoccuparci di sorridere, neppure davanti a May. In sua presenza non parlavamo di Zach, ma neppure ci comportavamo come se tutto fosse rose e fiori. June ricorse spesso al violoncello, come sempre nei momenti di dolore. Mentre andavamo verso la casa del miele, un mattino, August si fermò a fissare le tracce lasciate nel vialetto d’accesso dalle gomme dell’auto di Zach. Lì, impalata, mi diede l’impressione che fosse sul punto di piangere.

Tutto ciò che facevo mi risultava sgradito e faticoso: asciugare i piatti, inginocchiarmi per le preghiere della sera, perfino sollevare il lenzuolo per infilarmi a letto.

Il secondo giorno del mese di agosto, lavati i piatti della cena e recitate le avemarie, August disse: «Basta con i piagnistei. Stasera si guarda Ed Sullivan». Ed è proprio quello che stavamo facendo quando squillò il telefono. Ancora oggi August e June si chiedono quanto sarebbero state diverse le nostre vite se una di loro avesse risposto al telefono al posto di May.

Ricordo che August fece per alzarsi, ma May era più vicina alla porta. «Ci penso io» disse. Nessuno se ne preoccupò. Fissammo lo schermo del televisore, il signor Sullivan che presentava uno spettacolo circense in cui alcune scimmie percorrevano un alto cavo a bordo di minuscoli scooter.

Quando May rientrò in sala, alcuni minuti dopo, passò in rassegna i nostri visi. «Era la madre di Zach. Perché non mi avete detto che è stato messo in prigione?»

Sembrava assolutamente normale, lì davanti a noi. Per un momento nessuno si mosse. La guardavamo come in attesa che crollasse il tetto, e invece lei rimase impassibile, calmissima.

Cominciai a pensare che fosse avvenuto una specie di miracolo, che fosse in qualche modo guarita.

«Stai bene?» le chiese August, alzandosi in piedi.

May non rispose.

«May?» fece June.

Io arrivai addirittura a sorridere a Rosaleen, come a dirle: “Incredibile come la prende bene, eh?”.

August, invece, spense la televisione e studiò May con aria preoccupata.

May, con la testa inclinata di lato, aveva gli occhi fissi su un quadretto appeso al muro: il ricamo a punto croce di una gabbia per uccellini. D’un tratto mi balenò in mente che quegli occhi non vedevano nulla. Erano completamente velati.

August si avvicinò. «May, rispondimi. Stai bene?»

Nel silenzio sentii il suo respiro farsi sempre più rumoroso e ansimante. Retrocesse di qualche passo, fino ad appoggiarsi alla parete. Poi si lasciò scivolare sul pavimento senza emettere suono.

Non so bene quando risultò chiaro che May si era ritirata in un posto irraggiungibile dentro a se stessa. Neppure August e June lo compresero subito. La chiamarono per nome, come se avesse perso l’udito.

Rosaleen si chinò su di lei a parlarle a voce alta, per cercare di stabilire un contatto. «Zach se la caverà benissimo, non temere. Il signor Forrest lo farà uscire di prigione mercoledì.»

May fissava davanti a sé come se Rosaleen neppure ci fosse.

«Che le succede?» chiese June, e colsi una nota di panico nella sua voce. «Non l’ho mai vista in questo stato.»

May c’era e al tempo stesso non c’era. Le mani inerti in grembo, a palmo in su. Niente singhiozzi, con il viso nascosto nella gonna. Niente dondolii sulle gambe, niente capelli strappati. Calma, diversa.

Rivolsi il viso al soffitto. Non riuscivo più a guardarla.

August andò in cucina e ne tornò con una salvietta per i piatti piena di ghiaccio. Trasse a sé la testa di May per appoggiarla alla sua spalla, poi le sollevò il viso e le premette la salvietta sulla fronte, sulle tempie, lungo il collo. Continuò così per alcuni minuti, poi la posò per battere delicatamente sulle guance della sorella.

May batté le palpebre un paio di volte e guardò August. Poi guardò tutte noi, chine su di lei, come se stesse tornando da un lungo viaggio.

«Ti senti meglio?» chiese August.

May annuì. «Tutto bene.» Pronunciò le parole con tono inespressivo.

«Bene, sono felice che tu riesca a parlare. Vieni, ti infiliamo nella vasca da bagno.»

August e June la misero in piedi.

«Vado al muro» disse May.

June scosse la testa. «Si sta facendo buio.»

«Solo un momento.» Si allontanò verso la cucina, seguita da tutte noi. Aprì un cassetto della credenza, ne estrasse la torcia, il blocco, un mozzicone di matita e uscì nel portico. Avrebbe scritto “Zach in prigione” per poi infilare il bigliettino in una fessura del muro.

Pensai che qualcuno avrebbe dovuto ringraziare personalmente ogni pietra là fuori per tutta l’infelicità umana che aveva assorbito. Baciarle una a una, dicendo: “Scusa, ma qualcuno di forte e resistente doveva fare questo per May, e sei stata tu la prescelta. Sia benedetto il tuo cuore di roccia”.

«Vengo con te» disse August.

May si voltò a guardarla oltre la spalla. «No, per favore. Vado sola, August.»

August cominciò a protestare: «Ma…».

«Io sola» disse May, girandosi per guardarci in faccia. «Io sola.»

Scese i gradini del portico e si inoltrò tra gli alberi. Nella vita ci sono cose che non si dimenticano più, malgrado gli sforzi, e quella immagine è una di queste. May avanza tra gli alberi, il piccolo cerchio di luce si muove a scatti davanti a lei, poi viene inghiottita dall’oscurità.